Quando si prende la decisione di partecipare ad un determinato evento i fattori principali su cui viene basato tale processo mentale vertono principalmente su quanto è spesso il line up, si tende poi a dare orecchio al feedback di amici ed addetti ai lavori per capire che aria tira e, perchè no, capita di essere particolarmente colpiti anche da quanto è suggestiva la location in cui verrà proposto. E capiamoci, suggestivo non vuol dire solo stage magniloquenti e scenografie da parco dei divertimenti. Ben vengano anche quelle, ci mancherebbe, ma quando il core business (economico ed etico) di un evento dovrebbe essere volutamente focalizzato sul talento del proprio parco artisti, la location troverà spesso e volentieri nell’intima essenzialità e nel piacere dell’immergersi fra gli elementi senza troppi fronzoli uno dei suoi fattori chiave.
Ed in questo Sunfall Festival ha colto a pieno il bullseye, lasciando per la seconda volta di fila a Brockwell Park (poco distante da Brixton, nel profondo Sud londinese) l’onore di fare da bellissima cornice ad un evento che, e questo ci tocca dirvelo fin da subito, non ha peró saputo creare tutte le condizioni necessarie per garantirsi una totale promozione. A partite da una fila a dir poco chilometrica per entrare, fenomeno che abbiamo testimoniato in grande abbondanza anche durante qualunque delle normali necessità primarie (mangiare, bere, andare al bagno, prelevare denaro) all’interno del festival. Anche l’assenza dei token come metodo di pagamento ha ulteriormente rallentato le pratiche di cui sopra, creando una sensazione di fastidio misto noia nel dover rinunciare a mezz’ora di musica per potersi prendere una birra o a chissà quanto per mettere qualcosa sotto i denti. E ancora più grave, ad esclusione del Main Stage all’aperto che ha fatto più o meno il suo dovere, i tre palchi restanti (posizionati in tendoni agli estremi del parco) hanno offerto un soundsystem molto molto debole, praticamente senza dare mai la sensazione di poter godere a pieno del comunque ottimo apporto offerto da molti degli artisti in scaletta. Dagli inglesi, solitamente abituati a gestire eventi di questo tipo con grande maestria, ci saremmo aspettati più oculatezza sotto questo punto di vista.
Un peccato davvero, perchè di musica interessante da quelle parti, ed era il motivo principale che ci aveva spinti al di là della Manica, ne è passata davvero parecchia. A partire da un Ben UFO in vero e proprio stato di grazia e capace ancora una volta, dopo il plebiscito del Dekmantel, di portarsi a casa la palma di migliore in campo con un set molto UK-oriented che ha fatto letteralmente impazzire grandi e piccini. Benissimo anche Helena Hauff, impegnata nello slot precedente a ricevere il testimone da Shanti Celeste su sonorità ben più vellutate delle sue solite impetuose cavalcate musicali e capace, con un set di un’eleganza sproposita, di proporre una selezione più soft, intrigante e carismatica riuscendo comunque a non andare mai fuori contesto, nè per l’orologio biologico della pista nè per il suono che è abituata a proporre al pubblico. Chapeau, davvero.
Bene anche, in versione extended, il solito caleidoscopio musicale offerto da Theo Parrish, capace di tenere incollata la pista alla consolle per tutta la durata della sua performance senza mai annoiare e proponendo l’ennesima masterclass di cultura musicale, non facendo mai mancare un sorriso ed un cenno d’intesa a chi aveva investito prezioso tempo per farsi benedire l’udito dalla sua mano sapiente. Stesso discorso per Motor City Drum Ensemble che ha offerto una prestazione molto solida nel Main Stage in un momento in cui, dopo i piacevoli ma poco danzerecci live di Romare, Gilles Peterson e Roy Ayers, l’attitudine comune stava virando più sul rimanere seduti sull’erba ad ascoltare buona musica godendosi gli inusuali raggi di sole anglosassoni piuttosto che lasciarsi trasportare dal ritmo e scatenarsi nel dancefloor. Danilo ha saputo figurativamente dare una pacca sul culo a tutti e dire “La pausa è finita, tornate al lavoro!”. E così è stato, in maniera forse anche migliore di quanto si era visto la settimana precedente ad Amsterdam – ma forse è sembrato più mirabolante di quanto in realtà fosse anche per il discorso di cui sopra – e lo stesso è accaduto, a seguire, anche durante il sempre coinvolgente live di Floating Points.
Rimane quindi un po’ di amaro in bocca per i problemi organizzativi citati all’inizio, perchè la sensazione che questo Sunfall potesse avere tutte le carte in regola per essere un evento di primissimo piano nel panorama festival europeo c’era tutta. Ma ci sono sicuramente ancora dei punti chiave su cui lavorare in modo da offrire, il prossimo anno, un evento che, siamo sicuri, sarà ancor più consapevole delle proprie potenzialitá e dei consistenti margini di miglioramento a cui puó di certo ambire.