Sarà l’house music il minimo comune denominatore della puntata di oggi, un Suoni & Battiti che anche questa settimana preferisce raccontarvi le nostre impressioni su alcuni degli album più attesi delle ultime settimane, piuttosto che fornirvi una panoramica dei singoli “dance” a nostro avviso più rilevanti. Finiscono sotto la nostra lente d’ingrandimento, così, DJ Gregory (nelle vesti di Point G, l’alias da battaglia), Jesper Dahlbäck (lui come The Persuader), Nick Höppner e George FitzGerald: trattandosi di artisti dagli stili tanto diversi tra loro (stesso discorso vale per lo “stato di forma” e la consapevolezza con cui sono arrivati alla prova sul lungo formato), i risultati non potevano che essere tanto diversi tra loro quanto controversi, e quindi ricchi di spunti.
Qui potete trovare le ragioni per cui, secondo noi e in ogni caso, questi ragazzi vanno ascoltati. Qualche obiezione?
[title subtitle=”Point G – #6 (Point G)”][/title]
Se volessimo provare a spiegare con una frase la ragione del successo di Point G, l’alias che ha riportato in auge Dj Gregory dopo qualche anno di assopimento, per usare un eufemismo, è che la sua musica riesce a trovare una sua esatta collocazione all’interno di qualsiasi contesto di “natura house” in cui si sceglie di inserirla. Parliamo degli EP usciti a partire “Chicken Coma” (Real Tone), transitati per Apollonia e che, visti gli ottimi riscontri, hanno trovato casa nell’omonima label, nata ovviamente ad hoc. Si parla di molto materiale, sei release (spesso doppi 12”) in soli due anni, soprattutto se si tiene conto che non sono mancati nemmeno i remix per artisti dal DNA musicale simile (Djebali, Mr. KS e John Dimas, tra gli altri); ma quella che per molti potrebbe essere considerata ridondanza, a Gregory non solo viene perdonata, ma addirittura considerata un vero e proprio merito vista la rincorsa alle sue uscite. In tutta franchezza, però, se è vero che i suoi dischi sono ottimi prodotti (e ci mancherebbe altro, direte voi), è altrettanto chiaro che nessuno di questi ha il dono di saper riscrivere o stravolgere in alcun modo la storia del vostro dj set: la musica di Point G è un buonissimo contorno, ecco, ma senza un secondo di grande livello passa via veloce, senza lasciare troppe tracce di sé.
[title subtitle=”The Persuader – Skargard (Templar)”][/title]
“Skargard” è un album liquido perché, fondamentalmente e a suo modo, di acqua parla. È infatti l’arcipelago di Stoccolma, il secondo più grande del Mar Baltico, il tema scelto da Jesper Dahlbäck per il suo ritorno sotto le vesti del suo alias forse più amato: The Persuader. Uscita sulla sua Templar, la raccolta rappresenta il ponte ideale con quello che è probabilmente uno dei suoi lavori di maggior successo, “What Is The Time, Mr. Templar?”, vista la ricerca sistematica di semplici ed eleganti architetture techno dove a farla da padrone sono i pad dilatati e le atmosfere placide del mare del nord forse più affascinante; quello su cui si affacciano le sue finestre. E così di picchi veri e propri, in “Skargard”, non se ne contano poi molti (a “Uppvackningsgrundet” va una doverosa citazione), ma la forza dell’intero lavoro risiede nell’invidiabile abilità dello svedese di “fermare letteralmente il tempo” senza banali, noiosi e prolissi artifici – dote che, in tutta franchezza, oggigiorno non possono vantare in molti. Merito di un suono originale ed emozionante che, tangente ai canoni più comuni della musica da ballo, sa farsi preferire per il suo essere perfettamente in equilibrio tra l’house e la techno più profonde.
[title subtitle=”Nick Höppner – Folk (Ostgut Ton)”][/title]
Se c’è una cosa davvero innegabile, è che Nick Höppner sia un artista dalle idee chiare. “Scordatevi quei tool (dark)techno e immaginatevi qualcosa di più vario, intimo e personale”, detto fatto: “Folk”, il suo album d’esordio appena uscito – ovviamente – su Ostgut Ton è che il frutto di un percorso durato quattordici anni e costruito in due step che hanno occupato quasi per intero lo scorso anno (l’interruzione è stata dovuta alla scomparsa del padre). Così, quella che ci viene consegnata, non è altro che il tentativo, riuscito ben oltre le migliori aspettative, di raccontare una storia: quella di un artista scoperto per caso al Berghain (ovviamente) quando ancora scriveva per Groove Magazine; quella del label manager capace di amministrare e valorizzare il materiale artistico messo a sua disposizione dal club; oppure quella del dj e del grande conoscitore di musica che sa divincolarsi, con destrezza e personalità, all’interno di quelle che sono le sfumature delle musica house che circola dalle sue parti. A differenza di “Power Of Anonymity”, l’ultimo album di Steffi, “Folk” è infatti un album che si svincola dalla rigidità di un unico baricentro sonoro (cosa che non è riuscita alla collega olandese) e che alterna lavori dall’ascolto più semplice (“Come Closer”) a beat simil-gitani (“Gring Show”), marcette di sicuro impatto sul dancefloor (“Mirror Image”) a tracce ipnotiche e avvolgenti come “Paws” e “Rising Overheads”. Chi ha accolto con piacere la sua raccolta “Panorama Bar 04” tre anni fa non può che rimanere soddisfatto da questa raccolta d’esordio, a cui Nick Höppner è arrivato con calma e con la voglia di trasmettere davvero qualcosa in grado di far divertire, ora o tra dieci anni.
[title subtitle=”George FitzGerald – Fading Love (Double Six Records)”][/title]
Il meglio arriva alla fine con “The Waiting”, davvero in extremis, stendendo un velo di sottile malinconia su di un album che, negli intenti del suo autore, avrebbe dovuto consacrare la sua figura come quella di uno degli artisti di maggior spicco dell’intera scena UK, ma che, a conti fatti, lascia più perplessi che altro. “Fading Love”, quindi, è un album che non verrà ricordato come una delle pietre miliari della musica da ballo britannica, diciamolo subito. Si tratta di un album che possiamo definire come incompiuto perché al suo interno c’è un po’ di tutto ma, a conti fatti, niente lascia davvero il segno: George FitzGerald, che di palle gol in carriera ne ha avute a bizzeffe, si lascia infatti vincere dalla tentazione di “attingere” deliberatamente qui e lì, trascurando il non sottilissimo particolare di creare un’amalgama e un filo emozionale ai suoi dieci lavori. “Si tratta certamente di un album dancefloor”, direte voi. E invece no, purtroppo nemmeno quello. Fitzgerald non è i Disclosure, a cui evidentemente mira nei passaggi principali della sua raccolta senza riuscire a cavalcare l’onda pop del loro suono, né Scuba (sia chiaro: non quello travolgente degli inizi, sarebbe chiedere troppo), men che meno i vari Bicep, Dusky e compagnia danzante che, nonostante il periodo di massima ispirazione sia ormai passato, comunque padroneggiano meglio certi argomenti. “Fading Love” riesce nell’impresa di ricordare un sacco di cose e di farci realizzare quanto, pur non raccontando per filo e per segno la nostra storia, siano comunque meglio di quei lavori che, per ricercare con insistenza un’approvazione via via crescente, finisco per far appassire la loro identità.