Quando nasci e cresci a Bologna non impari soltanto a dimenticarti l’ombrello quando vai in trasferta, convinto che ovunque esistano i portici a riparare dalla pioggia. Quando nasci e cresci a Bologna impari ad amare la musica, tutta. Diciamo che avere la fortuna di trascorrere buona parte della propria adolescenza nella città felsinea, porta ad entrare in contatto con una realtà artistica davvero stimolante. Sicuramente dagli anni ’90 ad oggi Bologna è parecchio cambiata, perdendo col trascorrere del tempo quello charme che l’aveva portata ad essere definita “la Berlino d’Italia”: i centri sociali sono ormai stati sgomberati, la Street Rave Parade è un magnifico ricordo e Joe Cassano è già morto da dieci anni. Tuttavia, chi ha avuto la fortuna di vivere appieno gli anni d’oro del capoluogo emiliano lasciandosi travolgere dalla quantità di arte e musica offerti da club, centri sociali e feste organizzate in maniera più o meno legale, si ricorderà che questa città era il luogo ideale dove coltivare e far crescere il proprio talento artistico. Se poi, in questo contesto inserisci una voce profonda e suadente, una personalità forte e decisa e otto anni vissuti all’ombra della Madonnina allora il mix diventa vincente: stiamo parlando di Suz, autrice bolognese la cui voce ha un timbro davvero inconfondibile. Oggi la troviamo sulle pagine di Soundwall per parlarci non solo della suo ultimo album “Lacework” uscito ad ottobre sulla storica etichetta felsinea IRMA Records, ma anche di lei e di quello che la sua musica vuole trasmettere e raccontare.
A quasi tre anni dalla tua seconda fatica “One Is A Crowd” uscita su No.Mad Records, ad ottobre è uscito sulla storica etichetta bolognese IRMA Records, “Lacework”, album interamente realizzato assieme al produttore Ezra Capogna. Quanto, da bolognese, ti senti orgogliosa e consideri questo un traguardo?
Orgogliosissima, e lo considero certamente un grande traguardo. Senza nulla togliere ovviamente a No.Mad Records, la mia precedente etichetta che è stata casa per me per oltre sette anni (e in realtà il No.Mad Studio dove ho inciso questo mio ultimo disco continua ad esserlo) ma con la quale era inevitabile una separazione visto che si era ormai specializzata in bass music nonché trasferita a Bristol. Approdare in Irma è stato un traguardo non solo perché si tratta di un’istituzione in città ma anche perché si tratta di una label che in Italia (e non solo) è stata uno dei punti di riferimento per quanto riguarda alcune di quelle che sono state le mie grandi passioni musicali negli anni Novanta: l’hip hop (la compilation “Italian Rap Attack” ce l’ho ancora da qualche parte insieme ai vinili della Century Vox e della Flying Records) ma anche il trip hop e in generale le tante produzioni di “jazzy downtempo”, penso a nomi come Ohm Guru e Jestofunk o alle compilation targate Irma che negli anni Novanta ricordo in bella vista negli espositori di HMV a Londra ma anche da Tower Records negli Stati Uniti.
“Lacework”, in italiano significa “merletto” o “pizzo”. Ci puoi raccontare come mai hai scelto questo nome? Ha un significato particolare?
L’ho scelto perché si tratta un termine formato da due parole: “laccio” e “lavoro”, e questo disco è per l’appunto un lavoro di lacci, racconta di legami, relazioni. Allo stesso tempo poi vorrebbe sottolineare il tentativo (speriamo riuscito) mio e di Ezra di intrecciare armoniosamente fra loro voce e musica.
In “Lacework” troviamo un nuovo elemento che compare per la prima volta in uno dei tuoi dischi: il pianoforte. Quale ruolo gioca questo strumento all’interno dell’album e quale ruolo ha giocato durante la sua realizzazione?
Il pianoforte è un vecchio Mola dei primi del Novecento in dotazione al No.Mad Studio di Torino. Lo abbiamo usato per comporre alcuni dei brani (“Billie”, ”Lethe”, “Anthemusa” e “The Abacist”) con l’idea di arrangiarli in seguito in chiave elettronica ma alla fine a forza di riascoltarli ci siamo innamorati di quel suono e abbiamo deciso di tenerlo facendolo convivere con synth, batterie elettroniche e campioni.
Sappiamo che non sei stata sola durante il percorso che ti ha portata alla realizzazione di “Lacework”, i brani infatti sono stati composti anche da Ezra, tuo amico e produttore. Quanto la sua presenza si è rivelata preziosa per la riuscita del disco? Qual è stato il suo ruolo durante la fase di lavorazione dell’album?
Bè, la presenza di Ezra è stata essenziale! Senza di lui questo disco non esisterebbe, e nemmeno quelli precedenti. Ezra ed io, quando lavoriamo insieme, ci stimoliamo a vicenda. Io trovo melodie e scrivo testi su idee che spesso partono da lui. Certo posso dargli suggerimenti su suoni e accordi ma il grosso lavoro di produzione in finale è il suo.
Quali sono i luoghi che più ti hanno ispirata durante la creazione dell’album? E soprattutto, è in uno di questi luoghi che hai capito che era tempo di scrivere un nuovo capitolo della tua storia musicale?
Fare musica per me, come per moltissimi d’altronde, è soddisfare una necessità interiore, un’esigenza che tende a farsi sentire costantemente. Per dire, non passa un giorno senza che io canticchi (anche solo mentalmente, nella mia testa) qualcosa, dunque ogni momento e ogni luogo sono potenzialmente buoni per scrivere nuovi capitoli musicali. Per questo disco mi hanno certamente fornito spunti interessanti Brixton con la sua vivacità e il suo melting pot di culture e suoni (nonché, devo confessare, alcuni bizzarri graphic novel di psicoanalisi che in quelle settimane londinesi mi sono ritrovata fra le mani), ma anche San Luca, luogo dove si respira un’aura mistica dove vado spessissimo per sgomberare la mente dai pensieri bui e ossigenare polmoni e cervello, ed infine alcuni angoli di Paradiso dell’isola thailandese di Koh Tao nei quali il tempo sembra sospeso.
Ogni nuovo lavoro racconta qualcosa di diverso da quello precedente. Chi è la Suz di “Lacework” e in che cosa differisce da quella di “One is a Crowd”?
Riprendendo il discorso al quale ho accennato nella risposta alla tua precedente domanda, direi che sicuramente rispetto a un paio d’anni fa oggi sono più consapevole del fatto che fare musica abbia a che vedere essenzialmente con una necessità interiore. Non che prima lo ignorassi, semplicemente ora credo di averne preso pienamente atto e di aver conseguentemente ridimensionato le mie aspettative mettendo serenamente da parte ambizioni e velleità e guardando infine al fare musica principalmente come a una sorta di momento terapeutico. “Lacework” nello specifico parla per l’appunto di “laces”, lacci di cui fare tesoro o dai quali liberarsi definitivamente, cordoni da valicare o recidere, nodi da stringere o sciogliere, esperienze che mi sono trovata ad elaborare attraverso la scrittura di questo disco. Niente di nuovo sotto il sole – me ne rendo conto – ma di questo si tratta in fin dei conti.
Bologna è una città da sempre ricca di stimoli per quello che riguarda la musica, soprattutto per quanto concerne l’hip hop e il suono tipicamente d’Oltreoceano. Come questo lato della città felsinea ha avuto un’influenza su quello che eri e su come sei diventata?
Ho avuto la fortuna di essere una teenager durante la golden age dell’hip hop e di frequentare le serate Ghetto Blaster organizzate all’Isola nel Kantiere. Detto ciò, non mi sono mai limitata a un solo genere musicale, ho ascoltato di tutto, dal goth rock, all’hardcore punk, all’IDM e per questo, oltre ad un’insaziabile curiosità, devo ringraziare certamente i centri sociali della mia città che negli anni hanno fatto scuola (dalla già citata Isola nel Kantiere alla Fabbrica Occupata, dal vecchio Link, sino ad arrivare alle case occupate in Pratello e al Livello 57 di via dello Scalo) nonché i tanti locali e festival che si sono succeduti a Bologna. Ad onor del vero, tuttavia, non posso omettere che per la mia formazione musicale sono stati fondamentali anche gli otto anni passati a Milano dal 2000 al 2008. Qui, lavorando nella redazione dell’ahimé ormai defunto mensile musicale ‘Tribe’, ho avuto occasione di ascoltare un sacco di musica nonché seguire e intervistare alcuni fra gli artisti più disparati, da ?uestlove, Jay Z e Chuck D dei Public Enemy a Marilyn Manson e i Bad Religion.
Un artista è una figura che spesso si dedica a più di un progetto. Quali sono quelli che stai portando avanti e quelli futuri?
Ti ringrazio ma la parola artista nel mio caso forse è un po’ fuori luogo. Preferisco decisamente le definizioni cantante o autrice. Al momento sto collaborando con Spire (Paolo Iocca) che mi accompagna sul palco e ha rimaneggiato i brani di “Lacework” composti da me ed Ezra facendoli suoi per riproporli dal vivo. Lo stesso sta facendo anche White Raven (al secolo Bartolomeo Sailer, già Wang Inc) che mi affianca nei live quando Paolo è impegnato col suo progetto da solista. Inoltre continuo a collaborare con Massimo Carozzi (Zimmerfrei) e Manuel Giannini (Starfuckers) al progetto musicale di dub-techno Weight and Treble e a portare avanti il Suz Jazz Quintet insieme a Valerio Pontrandolfo, Nico Menci, Bruno Briscik e Marco Frattini (cui dal vivo si alterna talvolta alla batteria Gaetano Alfonsi). Fra le altre collaborazioni in atto ci sono poi quella con TY1 (Clementino, Marracash) insieme al quale ho scritto tre brani che faranno parte del suo nuovo disco intitolato “Hardship” in uscita a gennaio del 2016 e quella con Justin Bennett (Skinny Puppy, My Life with the Thrill Kill Kult, Bahntier) per il suo album di prossima uscita sotto lo pseudonimo kETvECTOR. Solo qualche giorno fa è inoltre uscita un’antologia di brani del mio vecchio amico Luca Faggella nella quale compare una canzone sinora inedita intitolata “Hourglasses” che abbiamo scritto insieme e inciso nel 2008 e che oggi dal vivo Luca interpreta insieme alla brava Elisa Arcamone.