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[tab title=”Italiano”]
Sven non è un mostro.
Te lo dico subito, così lo sai, così non ti aspetti di leggere che sono stato trattato a pesci in faccia, con sufficienza, davanti al gigante dai terrificanti tatuaggi sul volto che non ti fa entrare al Berghain senza una ragione valida. I motivi ci sono, anche se possono essere discutibili, questo lo deciderai tu.
C’è, con Sven, anche un uomo e una vita che si è accesa quando la Stasi controllava le strade e il Muro attraversava Berlino; una vita vissuta attraverso la cultura punk, la fotografia, l’elettronica, il clubbing di ieri e di oggi, e i problemi con la giustizia.
Sven Marquardt è una maschera impassibile sul volto di un uomo che scruta la gente, davanti all’entrata del club più famoso del mondo. Una maschera.
L’incontro è fissato in un bar di Alexanderplatz, mi accompagna Thomas Janson, il nostro interprete madrelingua (Sven parla solo tedesco). La prima cosa che noto nel momento in cui ci stringiamo la mano è che sta sorridendo. Questo può essere considerato un pensiero poco rilevante, ma ti assicuro che vedere Sven sorridere dal vivo è assai raro, non tanto perché non sorrida, nelle sue parecchie video interviste i sorrisi li spreca, ma perché se incontri Sven è, al novanta per cento, perché sei davanti alla selezione per entrare al Berghain. Ecco: lì è difficile vederlo sorridere.
La seconda cosa che noto è che mi sta stritolando la mano, complice, probabilmente, la quantità di anelli da diversi etti che porta alle dita. Il suo volto è solcato da cicatrici d’inchiostro, i capelli brizzolati troppo imbrillantinati, enormi piercing al naso e alle labbra. Alle orecchie.
Ordina un cappuccino e un’Energy Vitamin. Mi chiede subito, a bruciapelo, se vivo qui. Rispondo che “Sì, mi sono trasferito da un po’”. Annuisce con un’espressione cupa, poi sorride e mi dice: “Bene!”. Io ricambio con un risolino.
E cominciamo.
Questa è la tua prima intervista per l’Italia?
Non ricordo, onestamente, ma penso di si.
Bene, parliamo subito della tua fotografia? Ci racconti dell’incontro con Robert Paris, da molti considerato il tuo mentore?
In realtà il mio vero mentore è stato la madre di Robert, Helga Paris, una fotografa molto importante in Germania. Durante gli anni ottanta, il suo obiettivo era di documentare, con le immagini, i diversi stili di vita del “periodo DDR”.
Comunque, lei mi ha spronato molto a continuare, anche nei momenti più bui. Io le facevo vedere i miei scatti e lei mi spiegava cosa funzionava e cosa no. E’ stata davvero molto importante.
E Robert Paris?
Beh, io e lui avevamo lo stesso stile di vita, ma eravamo diversi nell’approccio alla fotografia. Lui amava i paesaggi, spesso si svegliava all’alba quando la città era vuota e ritraeva questi scenari urbani, spogli e silenziosi. Io invece ho sempre amato i ritratti e, infatti, mi sono specializzato proprio in quello.
Poi è arrivato Rudolf Schäfer.
Si, con lui ci si vedeva una o due volte alla settimana ma non parlavamo molto della fotografia e dei suoi dettagli ma della vita in generale, chiacchieravamo delle nostre esperienze, di quello che stava succedendo in quel periodo; e questo, in realtà, mi è servito molto anche nella mia professione. Rudolf aveva un metodo di fotografare più avanzato del mio e tendeva a presentare “lavori normali”, non so se mi spiego; erano idee e immagini che, tendenzialmente, gli avrebbero evitato problemi con la Stasi – al contrario, per esempio, dei lavori di Helga Paris.
Immagino, non doveva essere facile creare qualcosa in quelle condizioni.
Si, più che altro dovevamo improvvisare, perché non potevamo permetterci di acquistare macchine fotografiche troppo evolute e quindi dovevamo lavorare sempre in analogico. Per molti anni, soprattutto prima della caduta del Muro, fotografavo con una Praktika, ora utilizzo una Nikon FM2.
Le tue fotografie ritraggono realtà malinconiche, che però abbracciano, allo stesso tempo, un immaginario patinato. Da cosa cogli l’ispirazione?
Principalmente dalla mia vita, da quello che ho vissuto e quello che sto vivendo, ma anche dal mio lavoro come selector del Berghain. Quando sono alla porta, vedo tanta gente passarmi davanti, molta della quale è una grossa fonte d’ispirazione per me. E’ una grande fortuna. All’inizio della mia carriera traevo spunto dal sentimento generale della gente che viveva a Berlino Est durante gli anni del Muro; infatti, dal 1993 al 2000, ho smesso letteralmente di fotografare.
“Quando sono alla porta, vedo tanta gente passarmi davanti, molta della quale è una grossa fonte d’ispirazione per me.“
Sono molti anni. Perché?
Vedi, io ho iniziato a fotografare perché desideravo una libertà che con la DDR non esisteva. Nel momento in cui tutto è finito, ho sentito come se fosse terminato anche il mio compito, come se il mio desiderio fosse stato esaudito. Te lo spiego meglio; i momenti più difficili (ma anche quelli più felici) in quegli anni non si potevano fotografare perché, semplicemente, era difficile catturarli. Ora ci sono gli smartphone ed è tutto molto più accessibile, più libero: puoi impadronirti di qualsiasi momento in ogni istante, scattando fotografie e registrando video. Questa cosa non la sopporto, devo essere sincero. Ho un rifiuto.
Sembra un po’ lo stesso rifiuto che porta al divieto di fare fotografie e video all’interno di molti club a Berlino.
Non so, quello che posso dirti è che, negli anni novanta, a Berlino era difficile trovare foto e video della club culture, questo perché non se ne sentiva il bisogno in quel momento. E’ una cosa che, in un certo modo, condivido tuttora.
Ho capito. Parliamo di punk?
Io sono sempre stato un anticonformista e quello era il mio habitat naturale, anche se negli anni ottanta era abbastanza pericoloso essere punk nella Berlino Est: la polizia ti arrestava anche soltanto se ti beccava chiedere moneta per strada. Io ricordo che, ai tempi, noi punk non potevamo permetterci di andare nei negozi e comprare i giubbotti in pelle con le borchie e gli anfibi; anche perché, banalmente, non esistevano. Il nostro vestiario era fai da te, dovevamo comprare la pelle per fare il giubbotto, poi comprare le borchie e infine le toppe punk, poi “assemblarli”. All’inizio del prossimo anno uscirà un mio libro di fotografie e ho affidato la prefazione ad un pittore contemporaneo mio amico, con cui collaboro, Marc Brandenburg. Lui, durante gli anni del Muro, abitava nella Berlino Ovest e allora, siccome non voglio fare una prefazione classica, pubblicheremo uno scambio di e-mail tra me e lui in cui parliamo proprio di quegli anni e di quella che noi chiamiamo l’Ostalgie, ovvero la nostalgia per la vita durante sotto il sistema socialista.
Quali erano i tuoi riferimenti musicali?
Ascoltavo moltissimo sia il punk che la new wave, dai Sex Pistols ai Joy Division, passando attraverso i The Cure e B-52’s, ma quello che facevamo regolarmente era presenziare ai concerti illegali di band sconosciute berlinesi. La maggior parte delle volte erano organizzati dentro delle cantine, e ti dirò, quegli stessi concerti spessissimo erano supportati dalla Chiesa, la quale sosteneva e aiutava la cultura underground perché andava contro il regime della DDR.
Era pericoloso? So che hai avuto dei problemi con la giustizia, in passato?
In realtà il movimento punk non era un problema per la DDR, eravamo degli anticonformisti e dei piantagrane, venivamo spesso arrestati e schedati, per poi essere nuovamente rilasciati, questo è quello che intendo per pericolosità; la Stasi ci considerava una cosa innocua e noiosa, dopotutto… quindi diciamo che non venivamo perseguitati. Tutti sappiamo che, in quegli anni, è sparita molta gente, ed è assolutamente vero; ma in realtà, la maggior parte delle persone scomparse nel nulla semplicemente erano andate a vivere in provincia. Ad ogni modo, per me gli anni ottanta stati un periodo positivo, che ho vissuto con gioia.
Soundwall è, soprattutto, un magazine di musica elettronica e tu ne hai vista passare parecchia qui a Berlino, in un certo senso anche come “addetto ai lavori”. Ci racconti qualcosa?
Io sono entrato nel giro all’inizio degli anni novanta. Dj Clé (ndr. insieme a Mike Vamp sono i Märtini Brös), che era mio amico, mi diede il mio primo impiego come selector all’ex Suicide (ndr. ha poi cambiato sede), impiego che da quel momento non ho mai lasciato passando poi all’OST-GUT, il primo nome del Berghain, che si trovava alla stazione di Ostbahnof (poi, demolita questa prima sede, si è spostato in una ex centrale termica, che è appunto il luogo dove ora lavoro).
Qual è il tuo rapporto con la musica elettronica?
Personalmente preferisco quel tipo di techno spigolosa e cattiva, la minimal mi annoia come anche l’elettronica troppo melodica. Mi piacciono i beat scuri e pesanti.
“Personalmente preferisco quel tipo di techno spigolosa e cattiva, la minimal mi annoia…“
Mi fai dei nomi?
Ok, vediamo… Len Faki, Marcell Dettmann, ma anche Dj Rok e Dj Hell, per dirtene qualcuno. Sia i primi che i secondi, seppur probabilmente diversi tra loro, sono devastanti quando suonano, ma anche sexy, seducenti, hanno un modo tutto loro di accattivarsi il dancefloor. Amo i vocals, ma solo quando non sono troppo “disco”: mi vengono in mente Tama Sumo e Steffi, per spiegarti cosa intendo, i loro vocals sono affascinanti. In ogni caso negli ultimi anni ho un po’ smesso di frequentare i club come “cliente”, più che altro il mio rapporto con i dj e i producer, soprattutto quelli del roster di Ostgut, si è evoluto in uno scambio più professionale, dove loro diventano i modelli e l’ispirazione per le mie fotografie. Ogni tanto, mentre lavoro al Berghain, mi capita di staccare per andare ad ascoltare qualcuno che sta suonando, ma non posso realmente godermelo e questo mi rattrista.
Va bene, stiamo parlando di Berghain, dunque io ci provo: Che tipo di concetto c’è dietro la chiacchieratissima selezione di questo club?
Quello che ti posso dire è che, spesso, le persone non capiscono che io lavoro in un team: non sono da solo e, mi ripeto, lavoriamo per fare in modo che la gente all’interno del club si diverta.
Ok, ma tutti si domandano quali sono le regole per non venire respinti, dato che sembra quasi che non ne esistano. Pare, più che altro, che si venga selezionati in base ad un “gusto prettamente personale del selector”.
Allora, mettiamola così: la gente che frequenta il Berghain e il Panoramabar lo fa perché si vuole divertire, perché la qualità è alta, perché vuole stare bene. Il nostro compito è quello di assicurarci che questo accada. Non ci deve essere nessun problema all’interno del club, e infatti non c’è. Dunque, noi dobbiamo capire chi, tra quelli che richiedono di entrare, può essere aggressivo, può intaccare il “mood Berghain”, ma anche chi vuole essere solo uno spettatore. Il Berghain non vuole visitatori, come se il Club fosse una mostra, vuole frequentatori.
“Il Berghain non vuole visitatori, come se il Club fosse una mostra, vuole frequentatori.“
A tal proposito, come vedi questo esodo da parte di moltissimi giovani provenienti da tutto il mondo in quella che è definita, permettimi il termine, la nuova Terra Promessa?
Molti berlinesi si stanno opponendo a questo esodo, come anche tanti stanno, per questo stesso motivo, evitando in qualche modo la vita notturna della città, soprattutto nei club più battuti dai turisti. Personalmente ritengo sia sbagliato. Berlino sta diventando, e deve diventare, una metropoli di livello globale, questo anche perché è un fattore economico importante per la città e lo stato stesso.
Ok, ma insomma, chi c’è dietro la maschera d’impassibile selector del Berghain?
Ho sempre trovato molto difficile descrivermi, per questo mi piace farlo attraverso la mia fotografia, è con quella che dico chi sono e cosa mi piace e cosa ho dentro.
Bene. Abbiamo finito. Ora che hai capito che non sono aggressivo e sono un bravo ragazzo, non avrò mai più problemi ad entrare al Berghain quando ci sarai tu?
Forse. (ride)
Forse?
Quante volte non sei entrato?
Una da quando vivo qui.
E quante volte, invece, sei entrato?
Non so, tra le dieci e le quindici volte.
Di che ti lamenti, hai una buonissima media. Pensa che ci sono tantissimi berlinesi, nati e cresciuti in Germania, che hanno una media molto più bassa della tua.
Si, ma te la ricorderai la mia faccia?
Ciao. Devo andare.
[Credits: traduttore madrelingua Thomas Janson][/tab]
[tab title=”English”]
Sven isn’t a monster.
I’ll tell you that right now, so that you know, so that you don’t expect to read about how I was mistreated, in front of the giant with the horrifying face tattoos that won’t let you enter the Berghain.
There are reasons for this not-letting-people-in, they could be even arguable, but you’ll be the judge of that. Here is a man, and a life, which ignited when the Stasi patrolled the streets and the Wall still crossed Berlin, all lived through the punk culture, the photography, the electronic music, the clubbing and the problems with justice.
Sven Marquardt is a deadpan mask, on the face of a man who scrutinizes individuals, in front of the entrance of the most popular club in the world. A mask.
The meeting is programmed at a bar in Alexanderplatz, Thomas Janson at my side, acting as our native German translator (as Sven only speaks German). The first thing I notice when we shake hands is that he is smiling. This could be considered as an irrelevant thought but, I assure you, seeing Sven smiling live is incredibly rare, not because he doesn’t smile – as in the various video-interviews his smiles are wasted – but because if you meet Sven it’s, at least ninety percent of the time, because you are about enter Berghain. And well, there, it is hard to even catch a glimpse of his grin. The second thing I notice is that he is crushing my hand, his partner in crime being the numerous pound-heavy of rings which he so casually wears. Ink scars furrow his face; his graying hair greasy, with enormous piercings hanging from his nose and lips. And ears.
He orders a cappuccino and an Energy Vitamin. He suddenly asks, straight to the point, if I live in Berlin. “Yeah, it’s a while I’ve moved here”, I reply. He nods his head deadly serious, then smiles and says “Great!”. A tiny, frightened laugh is what he gets from me. And then we’re ready to start.
Is this your first interview for Italy?
I don’t remember, but honestly, I think so.
Good, let’s talk first about your photography crafts? Can you tell us about your meeting with Robert Paris, which many consider as your mentor?
In all truth, my mentor was actually Robert’s mother, Helga Paris, a notorious photographer in Germany. During the eighties her objective was to document, through images, the different lifestyles of the “DDR period”. Anyways, she spurred me to continue a lot, even in the most dark of times. I would show her my shots and she would tell me what would work and what wouldn’t. She was really important.
And Robert Paris?
Well, him and I lived the same lifestyle, but we approached photography differently. He loved sceneries; he would be waking up at dawn various times, when the city was empty, and took advantage of these moments to capture urban sceneries in their quiet state. While I have always loved portraits and, in fact, I specialized in that.
Then, Rudolf Schäfer arrived.
Yes, we would meet up once or twice during the week, although we didn’t speak much about photography and its details, and focused more about life in general: we would chat about our experiences, of what was happening in that period and this one. In truth, this helped me a lot for my career. Rudolf’s method to photograph was more advanced than mine, and he was inclined to present “normal works”, I don’t know if I am making myself clear, they were ideas and images that, usually, would have avoided problems with the Stasi. Unlike Helga Paris’ works, for example.
I imagine that it was not easy to create something in those conditions.
Yes, but more than anything we had to improvise a lot, because we could not afford to buy cameras that were too advanced, and so we always worked with analog photography. For many years, especially before the fall of the Wall, I photographed with a Praktika, and now I use a Nikon FM2.
Your photographs portray melancholic realities, but the technical treatment they’re subject to is apparently glossy. Where do you get your inspiration from?
Mainly from my life, from what I have lived and what I am living, but also as my job as a selector of the Berghain. When I’m at the door I see so many people pass in front of me, and many of those people are a source of inspiration for me. It’s a great fortune. At the beginning of my career I would get inspiration from the overall feeling of the people living in East Berlin during the time of the Wall. Therefore, from 1993 until 2000, I literally stopped taking photos.
“When I’m at the door I see so many people pass in front of me, and many of those people are a source of inspiration for me.“
That’s a lot of years. Why?
You see, when I began taking photos it was because I desired a liberty that was non-existent within the DDR. When it all ended, I felt as if my job was done in a way. As if my wish had been granted.
I will explain it to you better; the hardest times, and the happiest, in those years, could not be photographed, simply because it was hard to capture them. Now there are smartphones, and everything is so much more accessible due to the liberty. You can become the owner of any moment in time, taking photos and recording videos. I can’t stand this, actually. I refuse to.
It seems a little bit like the same type of refusal that prohibits people from taking photos and videos on the inside of many clubs in Berlin.
I don’t know, but what I can tell you is that in the nineties it was difficult to find a photo or video of Berlin’s club culture, and that is because people did not feel like it was necessary at the moment. It’s something that, somehow, I still feel strongly about.
Got it. Let’s speak about punk?
I have always been a nonconformist and punk was my natural habitat, even if in the eighties it was dangerous to be a punk in East Berlin. The police would arrest you for literally anything.
I remember that, at the time, us punks could not afford to buy leather jackets with studs and the alike – and even if we wanted to, they didn’t exist. Our wardrobe was DIY: we had to buy the leather to make the jackets, then the studs, later the punk patches, and then we’d “assemble” them.
At the beginning of next year one of my photography books will be released, and I entrusted the preface of it to one of my friends who is a contemporary painter, who I work with, Marc Brandenburg. He, during the times of the Wall, lived in West Berlin so in order not to create the classic introduction, we’ll publish some e-mails that him and I exchanged during those years, and of what we call the “Ostalgie”, that being the nostalgia for living during the socialist period.
What were your musical references?
I listened to both punk and the new wave a lot. From the Sex Pistols to Joy Division, passing through The Cure and B-52, but what we did regularly was showing up to illegal concerts unknown to the citizens of Berlin. The latter were mostly organized in basements, and these were actually supported by the Church a lot of the time, as it supported the underground culture because it was against the DDR regime.
Was it dangerous? I know you have had problems with justice in the past?
In truth the punk movement was not a problem for the DDR, we were nonconformists and troublemakers, we were often arrested and taken note of by the police, and soon released. That is what I mean by danger, but the Stasi considered us boring and innocuous, after all, so we were not persecuted. We all know that, in those years, many people went missing, and that is true. But, most of the people who went missing were actually just relocated to the province. Anyways, the eighties were a positive period for me, and I lived through it with joy.
Soundwall is, mainly, an electronic music magazine, and you’ve seen quite a few of it pass here in Berlin – as an “expert”, in a way. Tell us something about that?
I joined the circle in the eighties, Dj Clé (ed. Who with Mike Vamp makes the Martini Bros), who was also my friend, gave me my first job as a selector in the ex Suicide (ed. Which then changed location), and from that moment I never left. Passing to the OST-GUT, the first name of the Berghain which was found at the Ostbahnof station, which then got demolished and moved to an ex power plant station, where I still work at.
What’s your relation with electronic music?
I personally prefer the edgy and aggressive techno; minimal bores me, just as melodic electronic does. I like dark and heavy beats.
“I personally prefer the edgy and aggressive techno; minimal bores me…“
Give me names?
Ok, lets see… Len Faki, Marcell Dettmann, but also Dj Rok and Dj Hell, to name a few. Both the former and the latter, even if different, are tremendous when they play, and also sexy, they seduce. They have their own way to possess the dance floor. I love vocals, but only when they’re not too “disco”. The people that come to my mind right now are Tama Sumo and Stefi, to make you understand what I mean: their vocals are fascinating. Anyhow, in these last years I have stopped going to clubs as a customer. More than anything my relation with djs and producers, especially the ones from the rooster of OST-GUT, evolved into a more professional exchange, where they become models and inspirations for my pphotos. Every once in a while, while working at the Berghain, I get to take a break and listen to someone who’s playing, but I cannot truly enjoy them, which makes me sad.
Very well, we’re talking about the Berghain, so I’ll try asking: what type of concept is there behind the notorious selection of this club?
What I can tell you is that, often, people do not understand that I work in a team, not just by myself, and I repeat, we work in order to make sure that the people inside the club have fun.
Ok, but everyone wonders what the rules behind being rejected are, as it almost feels like they do not exist. It looks like, more than anything, that people get selected depending on the personal taste of the selector.
So, let’s put it this way: the people go to the Berghain and the Panoramabar do it because they want to have fun, because the quality is high, because they want to feel good. Our job is to assure that this happens. There should be no problems inside of the bar, and actually there are none. Therefore, we have to understand who, from the many who want to enter, could be aggressive, could break the “Berghain mood”, and also who just wants to be a spectator. The Berghain doesn’t want visitors, as if the Club was an exhibition, it wants people who will come frequently.
“The Berghain doesn’t want visitors, as if the Club was an exhibition, it wants people who will come frequently.“
Speaking of which, what do you think of this exodus from the youth coming from around the world to what is defined as, allow me to say the term, this new “Promised Land”?
Many Berliners are opposing themselves to this “exodus”, just as many are avoiding the nightlife in the city for the same reason – especially in the bars most frequented by tourists. Personally, I believe that this is wrong. Berlin is becoming, as it should, a global metropolis, and this would benefit the city in numerous ways, even economically.
Come on then, who hides behind the impassible mask of the Berghain selector?
I’ve always found describing myself very difficult, that’s why I like to do it through photography. I use it to show what I like and what I have inside.
Good. We’re done. Now that you’ve understood that I’m not aggressive and that I’m a good guy, I will never have problems when entering the Berghain when you’ll be there?
Maybe. (he laughs)
Maybe?
How many times have you not been able to enter?
Once since I live here.
And what about the times you have?
I don’t know, between thirteen to fifteen times.
What are you complaining about? Your average is great! There have been tons of Berliners, born and raised in Germany, that have a much lower average than you.
Yes, but will you remember my face?
Bye. I have to go.[/tab]
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