Occhio: il 20 novembre esce un disco molto, molto interessante. Il filone è quello diremmo un po’ “californiano”, quel “psichedelico futuristico” che nei binari tracciati da Flying Lotus e Thundercat ha saputo diventare una delle colonne sonore più interessanti (ed artisticamente sfidanti) della contemporaneità. Un genere bellissimo, che piace a (abbastanza) tanti ma è per pochi: perché bisogna essere bravi davvero per farlo. Devi avere il funk dentro di te (il suo “sangue”, la sua storia) ma devi anche avere una competenza tecnica notevolissima. Bene: senza per forza essere in California, “Dyionisia” di Kidd Mojo è la dimostrazione che declinazioni splendide di questa musica possono nascere ovunque – anche in Italia. Hyperjazz, label che sta facendo un lavoro notevolissimo, non se l’è fatto sfuggire. Siamo felicissimi di poter presentare in anteprima uno dei brani dell’lp, “Hypermensia”, e la faccenda è talmente interessante che abbiamo voluto scambiare anche due chiacchiere con Kidd Mojo – all’anagrafe Luca Bologna. Garantisce (anche) Georgia Anne Muldrow. E occhio a Black Beat Movement…
“Dionysia” è un lavoro di notevole maturità sonora, a maggior ragione per essere un debutto. Però questo significa – o dovrebbe significare – che hai un bel po’ di esperienza alle spalle. Quando hai iniziato concretamente a produrre musica?
“Dionysia” nasce come il tentativo di organizzare una raccolta di draft, sample, soundscape e altro materiale che nel corso degli anni mi sono ritrovato ad avere: erano spesso frammenti per i quali provavo sì un forte magnetismo, ma che avevano bisogno di un ambiente sonoro diverso dal percorso che fino ad allora stavo intraprendendo. Ho iniziato con la musica veramente molto presto, mio padre mi ha messo in mano strumenti fin da quando avevo sei, sette anni, ma è a undici anni con il basso elettrico che ho capito cosa volevo fare nella vita! Da li in poi è stato un continuo studiare, suonare, viaggiare, scrivere, e vivere di musica, senza compromessi.
A leggere l’info sheet di presentazione, arrivi dalla scena punk / hardcore, ovvero in teoria una delle musiche meno “black” possibili immaginabili. Posto che pure Thundercat si è fatto anni a suonare coi Suicidal Tendencies, quindi figuriamoci, la tua transizione verso le sonorità black quali tempi e quali tappe ha avuto?
Si, esattamente, il punk è stato sicuramente il primo nodo cruciale, importantissimo. Mi ha insegnato a stare con le altre persone, a remare tutti verso una direzione! Un ragazzo penso abbia bisogno di questi tipi di stimoli nella vita: ti fa capire che se ragioni da solo, vai a sbattere contro un muro! Sia la black music che il movimento punk e HC avevano poi radici comuni, si nutrivano di quella forza “critica” e “dal basso” che affrontava il mondo da un altro punto di vista. A me questo piaceva parecchio. Quando ero teenager era facilissimo che mi passassero dalle mani contemporaneamente dischi dei Minor Threat e dei Gorilla Biscuits da un lato e dischi del Wu Tang e del Colle dall’altro… Negli spazi di controinformazione si ragionava attraverso canoni “di attitudine” e non estetici: era più importante quello che avevi da dire, e questa cosa per me è imprescindibile dal fare musica. Col passare del tempo mi sono sempre più appassionato alla musica black: al funk, al soul, al jazz e all’hip hop come sua naturale evoluzione, l’apertura verso questa cultura mi ha fatto crescere molto e apprezzare tanta musica diversa che viene da epoche e culture spesso differenti. Il digging è uno stile di vita! Ho poi unito tutto.. basso elettrico, beat making, elettronica, controcultura eh.. boh è uscito fuori Kidd Mojo..
In quanto tempo è stato composto “Dyionisia”? Come ti sei diviso il lavoro fra ciò che era “tutto tuo” e lì dove invece c’è l’intervento di strumentisti ospiti?
“Dyonisia” è un lavoro lungo due anni! Ma io sono lento eh! …a parte gli scherzi, negli ultimi anni son sempre stato molto impegnato con il Black Beat Movement, un collettivo nu soul che ho fondato nel 2012 insieme a Naima Faraò, di cui sono bassista e produttore artistico. Mi ha dato tante soddisfazioni artistiche e umane impagabili che tengo sempre nel mio cuore, dal suonare allo Sziget festival a date con Hiatus Kaiyote, De la Soul, collaborazioni con Dead Prez, eccetera. Vivere in una band di sette elementi è come avere una seconda famiglia, con i pro e contro del caso. Nell’ultimo periodo volevo scrivere invece una cosa che fosse più mia e non proiettata in altre direzioni, quindi ho deciso di iniziare questo percorso da solo. All’interno del disco, a parte il featuring con Georgia Anne Muldrow, non ci sono “ospiti” ma ci son dentro fratelli. Non sarebbe stato possibile fare altro per me. Io da solo valgo ben poco, come tutti, credo. Ho chiesto di accompagnarmi in questo viaggio prima di tutto a Veezo (LoopTherapy, Black Beat Movement, Jaxx Medicine, eccetera). Due parole su di lui sono per me fondamentali: senza il suo talento artistico, la sua capacità di tradurre, limare e commentare il mio linguaggio, l’album non suonerebbe come suona. Non ne sarei stato proprio capace! Abbiamo passato gli ultimi tre, quattro anni a fare beat insieme, a lavorare a stretto contatto, a conoscerci e sopportarci. Io lavoro per i suoi progetti, lui per i miei, è un cerchio che fa suonare tutto bene, familiare e unito. E poi c’è la fratellanza che è la cosa che ti fa lavorare meglio! Gli altri compagni sono stati Jacopo Boschi, con il quale lavoro da dieci anni sia nei BBM che in altre realtà, chitarrista straordinario e anomalo per linguaggio, sound e pronuncia. Conosco tutto di lui e lui conosce tutto di me. Per finire voglio nominare Ferdinando Faraò, uno dei più forti batteristi jazz che abbiamo in Italia (Lee Konitz, Steve Swallow, Enrico Rava, Paolo Fresu, Massimo Urbani, Larry Schneider, Mal Waldron, Steve Lacy… il suo curriculum artistico fa paura), direttore di Artchipel Orchestra. È dotato di una creatività e di un feeling che non è descrivibile. Suona come un folle! Quando dai in mano il tuo materiale scritto a qualcuno c’è sempre un po’ di paura: la traduzione tra un soggetto all’altro lascia sempre qualcosa sul campo, e io avevo un po’ paura che lavorare con altri snaturasse un po’ la mia idea finale. Ho scelto per fortuna il team migliore possibile! E li ringrazio!
Come sei entrato in contatto con Hyperjazz? Quando hai capito che sarebbe diventata l’etichetta del tuo EP d’esordio? E quando è nata l’idea di avere la Muldrow ospite in una traccia?
Se c’è una cosa che mi è sempre piaciuta dell’era digitale è sicuramente la possibilità di poter valicare i confini della “distanza fisica”, e cercare altri sentieri in giro per il globo! Quando finii il beat di “Pearls” ero veramente soddisfatto e sentivo che quel pezzo poteva essere cantato da qualcuno di forte con una sensibilità particolare. G.A.Muldrow è una delle artiste che seguo da più tempo, una vera e propria bandiera del sound di Los Angeles! Decisi di mandarle il pezzo.. e lei mi rispose che il beat era una bomba! Dopo essermi ripreso, il pezzo era praticamente già pronto! C’est la vie, come dire? (ride, NdI). Hyperjazz è stato il passo più naturale: Raffaele e Sergio sono stati entusiasti di accogliermi nel loro roster, e io onorato. Penso sia una delle realtà più interessanti italiane, anche per il loro rapporto con artisti da tutto il mondo. HJ è una realtà globale, che vede molto più in là.. e io sono felice di collaborare con loro!