Purtroppo, lo spunto per parlarne è dei più tristi: è di oggi ci ha lasciati GianLuca Galliani, uno dei membri fondatori della band Gaznevada. Ecco: il punto è che per molti di voi “Gaznevada” evocherà gli anni della prima italo-disco, di quegli anni ’80 che improvvisamente scoprivano la vena aurifera del synth pop virato sui gusti e sui sapori del dancefloor dell’epoca. Qualcosa che già da anni ha culto all’estero e che da un po’ di tempo anche qui stiamo rivalutando: effettivamente, al di là dei giudizi sulla musica, ci sono delle storie bellissime. E per quanto riguarda la musica, tutto quel filone aveva una stranissima “plasticità” obliqua che in più di un passaggio è stata genialità vera, consapevole o inconsapevole che fosse.
Però ecco, per una volta che vorremmo che in un magazine dedicato prima di tutto alla club culture come il nostro si saltasse questo immediato rimando pavloviano, e se di Gaznevada bisogna parlare allora sarebbe il caso di andare ancora più indietro. Non sono nati facendo hit da discoteca pop, loro; sono nati da una storia molto più complessa, caotica, maledetta e creativa, qualcosa che sarebbe bello si rimanifestassi (con altre formi, altri modi, altri esiti) anche in anni, come questi, che iniziano ad essere un po’ troppo “safe” per quanto riguarda l’arte. Oggi la musica (e le visioni artistiche in musica) si creano sempre più spesso solo in camera o in qualche studiolo. Oggi sono tutti accorti. Oggi sono tutti bravi a “leggere” le regole del gioco e ad uscire con la release giusta al momento giusto, o almeno questo è quello che sempre più si tenta di fare (anche quando si dichiara di fare il contrario: perché è diventato un modo di pensare endemico). Ma se andavi nella Bologna della seconda metà anni ’70, col cazzo che le cose stavano così. E se ancora di più andavi in un appartamento quasi sotto le Due Torri, un porto di mare ribattezzato dai suoi stessi inquilini (e dalle centinaia di persone che ci transitavano a caso o meno) Traumfabrik, “Fabbrica dei sogni”, le regole era quella di un vivere caotico, comunitario, confuso, promiscuo, provocatorio, col gusto della beffa e dell’ironia.
E’ lì che nascono artisticamente i Gaznevada (oltre che forse il più grande fumettista italiano di tutti i tempi, Andrea Pazienza). Nascono inseguendo il modello più “malato” dell’epoca, il post-punk newyorkese (che a Bologna attecchì come forse da nessun’altra parte in Europa, in un’epoca in cui non c’era internet e le informazioni circolavano col contagocce). Ovvero una musica irriguardosa e che si divertiva a mescolare le carte, sorprendere, spiazzare, provocare. Nulla di strano che fra le prima gesta famose dei Gaznevada ci fosse quella roba assurda di “Gaznevada sing Ramones”: tre sere consecutive di concerti in cui la band suonava, per ore, cover dei Ramones a velocità ancora maggiore e in maniera ancora più approssimativa e stralunata. Così, giusto per farvi capire lo spirito.
E paradossalmente proprio questo spirito – oltre alla lecita voglia di soldi – portò alla normalizzazione, alla commercializzazione, a quella che allora per la stragrande maggioranza dei musicofili italiani era “musica di merda senza qualità”, ovvero l’italo-disco fatta con le tastiere e poco altro. Per certi versi, mettersi a fare questo tipo di musica era lo sberleffo supremo: sono così alternativo e controcorrente che guarda, mi metto a fare la musica che piace ai fighetti con la camicia e la felpina sulle spalle in discoteca. E ci faccio pure dei soldi, fanculo. Anche se poi loro degli elementi di caos finivano sempre col metterli.
(li conoscete più probabilmente così; continua sotto)
Ora, l’epopea italo-disco meriterebbe ovviamente approfondimenti molto più elaborati e complessi (e da una costola dei Gaznevada nacquero i Datura, così come nei Gaznevada gravitò per un attimo anche uno dei personaggi-chiave nella storia del clubbing italiano, Nicola Guiducci). Ma questa componente c’è. E questa è la componente con cui vogliamo ricordare GianLuca Galliani, aka Nico Gamma. Oggi forse è giusto così. Perché lui e tutta la sua esperienza nel mondo della musica raccontano di una scintilla sporca, cattiva ed irriguardosa che ritradotta oggi con altri alfabeti potrebbe scuoterci dal torpore per cui iniziamo a dare troppe cose per scontate e iniziamo a vedere spegnersi troppi luoghi di ritrovo veri, in favore di una asetticità da Netflix, da Boiler Room o della “logica dell’evento” che sta dietro ai festival. Chissà se in questo momento, senza che noi lo sappiamo, c’è qualche Traumfabrik 2.0 in giro per l’Italia, pronta a fare cose ci lascino perplessi, sgomenti, offesi, indignati, entusiasti, fiancheggiatori, sognatori irriguardosi sì, ma nel qui&ora, in modo “fisico”. Prendendo ad esempio i modelli più sporchi, discutibili ed “alieni”, non i più fruttuosi e rassicuranti. Ogni tanto, ci vuole. Forse proprio in questo periodo storico incomincia ad essercene bisogno più che in passato.
Poi magari ci litigheremmo, ci starebbe altamente sul cazzo lì per lì, troveremmo discutibili un sacco di cose. Possibile. Eccome. Ma anche questo andrebbe bene. Vita, scontro, vitalità, amore per l’arte e lo scombinare le regole.