Nella prima metà dell’anno avevamo speso parole importanti sui Technoir: già bravi di loro, ci erano sembrati in interessantissima evoluzione nell’EP pubblicato in quelle settimane, antipasto di un album in arrivo. Tutto ciò perché Alexandros Finizio e Jennifer Villa potevano stare in una formula preconfezionata nobile sì ma di nicchia, in cui probabilmente sarebbero stati comodi e rassicurati (chiamiamolo trip hop 2.0); invece, entravano una vena rock e in generale eclettica che li portava lontani e dissonanti rispetto a una linea ideale, oggi molto battuta e “nitida”, che si perimetrava tra Bristol, il nu soul e Flying Lotus, con Gilles Peterson di guardia ai cancelli.
Quello che si intuiva in nuce con l’EP, ha trovato piena realizzazione nell’album, in uscita oggi 30 ottobre: ora lo possiamo dire. “Hayami / Better Awakening”, il pezzo che presentammo a maggio in premiere, è ancora lì ed è ancora una traccia della madonna; ma adesso è circondato da altre tracce decisamente alla stessa altezza. I momenti meno forti dell’LP sono forse proprio quelli dove si va più sul sicuro, con la perimetrazione di cui sopra e richiami espliciti a un certo tipo di scena black di area Low End Theory (ad esempio “Haters Hate”); nel momento in cui invece ci si avventura come non mai in sapori blues rock (“The Dreamer”, “Il male”) o da pop “gotico” (“The Beauty We’re Losing”, o la “Nomad” che pare proprio chiamare un video della Sigismondi), i Technoir dimostrano di essere davvero una delle realtà più interessanti in Italia. E non solo in Italia.
(Ascoltare per credere; continua sotto)
Ricordiamo infatti il clamore di quando scoppiò il fenomeno Tv On The Radio, col loro rock “nero” ed ipermoderno: colonizzarono le copertine dei magazine specializzati (…quando ancora contavano qualcosa), qualcuno se lo ricerderà. Ecco, i Technoir sono meglio. O, come minimo, valgono altrettanto. Giocano con un sincretismo stilistico in modo naturale ed altamente qualitativo, sapendo giostrare gli arrangiamenti con inventiva e maturità (le chitarre acustiche di “Insomnia” sono azzeccatissime, ad esempio). Se fossimo in altri periodi, se li sarebbe già accalappiati una major anglosassone (o una semi-major, alla Domino), ma evidentemente siamo ancora troppo in territori urban e meno invece in quelli del rock evoluto ed adulto, come hype-del-momento. Anche se si vedono i primi segni in arrivo di un cambio della guardia.
Ecco: magari è una previsione azzardata, ma la tentazione è quella di dire che “Never Trust The Algorhithm” è una affascinantissima anticipazione delle svolte prossime venture del nostro panorama musicale. Un innesto cioè di ritorno delle chitarre da un lato, e consapevolezza black con arrangiamenti che iniziano a stufarsi dell’essenzialità trap dall’altro. Poi chiaro, gli indirizzi stilistici e i “suoni” sono sufficienti di per sé per gli hype e per chi tratta la musica come un accessorio da, ehm, matchare con le sneaker, per fare davvero la differenza ci vuole la capacità di scrivere: e quella i Technoir ce l’hanno e anzi, proprio con questo album dimostrano di averla accresciuta tanto, tantissimo. Il rischio è che questo possa diventare un grande disco “dimenticato”, o apprezzato solo dalla critica di nicchia. L’esempio da manuale in tal senso sono The invisible: in particolar modo il loro album d’esordio, prodotto tra l’altro da Matthew Herbert, è un capolavoro incredibile che fece incetta di premi ma non rapì mai realmente il cuore del pubblico (in Italia fecero tre concerti, tra l’altro in double bill con Mica Levi, non raggiungendo mai i cento paganti). Ma erano altri tempi, le attenzioni hipsteriche si stavano preparando a riversarsi su cose più urban e più zarre e più kardashianiche – come in effetti poi è stato, pesantemente.
(Uno dei dischi più belli dai tempi di “Kid A”, passato sotto silenzio: recuperatelo; continua sotto)
Un decennio più tardi, forse le cose potrebbero cambiare: i cicli vanno e vengono. E se ritorna in auge musica come questa di “Never Trust The Algorithm” (polemica verso i trend hipsterici già dal titolo), tra blackness, rock, cuore e competenza, con un soffio di elettronica, ne soffriranno magari i dentisti che placcano d’oro gli incisivi, ok, ma ne guadagna l’emotività e la profondità dei nostri ascolti. Noi ci stiamo, a questo trade off. Eccome. Ad ogni modo, riassumendo: i Technoir hanno fatto un album della madonna. Ascoltatelo, acquistatelo, sostenetelo.
Foto di Giacomo Carlini