Teho Teardo è uno di quei musicisti davvero impossibili da incasellare e riassumere con poche parole: il grande pubblico lo conosce per via delle colonne sonore firmate per Sorrentino e molti altri registi del cinema italiano, ma la sua storia comincia molto prima e attraversa quasi tre decenni di musica vissuta nella maniera più libera possibile. Dai Meathead alla collaborazione con Blixa Bargeld, passando per Matera, Here, Operator e tutto quello che c’è in mezzo: abbiamo approfittato dell’uscita del suo ultimo lavoro – “Ballyturk” – per incontrarlo nel suo studio nascosto nel cuore di Roma. Doveva essere un’intervista normale, ma è finita per durare un intero pomeriggio.
Di solito, nelle interviste, si arriva a parlare dei progetti per il futuro quando ci si avvicina all’ultima domanda. Con te, invece, mi piacerebbe partire proprio dalla fine, dalle cose su cui stai lavorando ora e che vedranno la luce fra un po’. Ho la sensazione che tu sia più o meno sempre in movimento e che ogni tua nuova uscita venga fuori mentre sei già assorbito dalla prossima cosa che farai. Ci ho preso?
Al di là delle prove sul live di “Ballyturk” che mi tengono molto impegnato – sto proprio cercando di capire come portare questo nuovo materiale dal vivo – nell’immediato mi sto dando molto da fare per questa gigantesca retrospettiva su Man Ray, uno dei miei veri e propri eroi di gioventù. Perché quando da ragazzotto ti capita tra le mani un manuale di storia dell’arte e dentro ci trovi uno come Man Ray, cioè uno che si chiama Uomo Raggio, non puoi non rimanerne colpito. Solo il nome è già una ‘visione’! La direzione di Villa Manin, che è il luogo in cui si tiene questa retrospettiva, mi ha commissionato le musiche per tre dei suoi film tutti girati tra il 1923 e il 1926, roba di quasi cent’anni fa, ma ancora davvero potente. Tre film fenomenali a cavallo tra dada e surrealismo e che sonorizzerò dal vivo proprio a Villa Manin, il sei e il sette dicembre, insieme a degli altri musicisti che si occuperanno degli archi. Sono molto soddisfatto di come sta venendo tutto, tant’è che penso che alla fine li pubblicherò in vinile e download. Poi con Enda Walsh, che è il drammaturgo irlandese che ha scritto ‘Ballyturk’, stiamo ragionando sull’idea di lavorare di nuovo insieme a una sorta di film d’animazione con John Kenn Mortensen, che è un disegnatore danese sbalorditivo, e fra poco inizierò a lavorare anche al nuovo disco con Blixa…
Quindi la vostra è una collaborazione che continua?
Sì sì, guarda: abbiamo già prenotato lo studio per gennaio, a Berlino, anche se… noi abbiamo sempre fatto così, non è che diciamo: ‘Ci vediamo per fare un nuovo disco’, noi in realtà ci vediamo per suonare insieme, che secondo me è una cosa molto più seria, senza obiettivi, e poi se le cose che vengono fuori ci piacciono decidiamo se è il caso o meno di trasformarle in qualcosa di più compiuto. Ti faccio un esempio: fino a poco prima che arrivassi tu qua c’era Joe Lally, il bassista dei Fugazi, abbiamo passato la giornata insieme solo con l’idea di ‘suonare’ senza pensare a se fare un disco o meno. Noi suoniamo, suoniamo e basta, poi se avremmo qualcosa di buono da dire il nostro suonare si trasformerà in qualcos’altro, ma non è scontato. Con Blixa anche è andata così: la cosa curiosa di ‘Still Smiling’ è che davvero senza pensarci ci siamo ritrovati con il materiale per due dischi, solo accumulando le cose che facevano insieme, e a un certo punto ci siamo proprio detti: ‘Oh ma quante canzoni abbiamo fatto?’ e infatti poi è uscito anche l’EP. Per me suonare con qualcuno vuol dire essenzialmente stabilire una relazione, una relazione che non è solo musicale, anzi prima di tutto è personale. Per me è sempre stato così: è esattamente come quando facevo parte di una band. Quando hai una band mica suoni solo per fare i dischi, suoni per suonare e il disco diventa solo una parte intermedia del percorso che poi comprende anche i concerti e tutto il resto.
Una band che, immagino, deve fare un po’ più di fatica per incontrarsi alle prove…
Ma no, anzi: noi ci vediamo molto spesso. Almeno una volta al mese e sempre per più giorni e poi con tutti i concerti che abbiamo fatto quest’anno praticamente ci siamo visti di continuo, abbiamo pure fatto le vacanze insieme, e sono sempre stati incontri produttivi. D’altronde andare in tour vuol dire affrontare un periodo di condivisione molto stretta e nel nostro caso anche parecchio piacevole.
Per altro mi sembra che “Still Smiling” sia stato accolto molto bene ovunque e siete finiti a suonare anche in festival internazionali importanti, no?
Sì siamo stati anche al Primavera che è universalmente riconosciuto come uno dei festival più importanti del mondo e quella cosa lì me la sono vissuta proprio tutta, è stata un’esperienza indimenticabile e pure parecchio emozionante, tra l’altro ci avevano pure messo in un orario comodo. Devo dire che noi siamo stati proprio fortunati: nel corso di questo tour europeo abbiamo suonato in posti molto belli e dall’acustica strabiliante. Come a Lubiana, per esempio.
Beh per te, friulano, suonare a Lubiana è come suonare a casa, praticamente.
Sicuro! Io quando abitavo in Friuli ci mettevo sicuramente meno ad andare a Lubiana che ad arrivare a Milano o in altri posti d’Italia. Poi è un città splendida, piena di locali dove la musica si vede e si sente benissimo, ma mica solo lì eh: ricordo questo posto spettacolare, un palazzone a Berlino, non mi viene in mente il nome, dove abbiamo suonato noi e qualche giorno dopo sono tornato a vederci gli Swans, che avevo già visto proprio in quello stesso tour al Circolo degli Artisti, e che comunque conosco bene, quindi so come suonano e quello che fanno, e sembrava tutt’altra band. Noi in Italia siamo abituatissimi a suonare in situazioni difficili e spesso molto approssimative, mentre basta uscire un attimo fuori per notare che c’è una cura diversa.
Parliamo un po’ di “Ballyturk”: tu hai sempre detto che quando componi per il cinema lo fai leggendo il testo scritto e non sulle immagini. Suppongo quindi che scrivere per un film o per uno spettacolo teatrale sia per te essenzialmente uguale, mentre si tratta di un’esperienza profondamente diversa per il pubblico. Giusto?
Esatto, sono proprio due cose diverse, perché uno spettacolo teatrale ha comunque più a che vedere con la performance. Con Enda, che è lo sceneggiatore e il regista, ci siamo conosciuti per un motivo interessante: lui aveva ascoltato il mio disco precedente, “Music for Wilderman”, che è un album legato a un libro fotografico, e non so se sai che, di solito, quando un regista vuole parlarti del lavoro che dovresti fare sul suo film, ma non ha ancora niente da farti leggere o vedere, finisce per mostrarti una valanga di libri fotografici. Qui invece è successo il contrario: lui ha ascoltato il mio disco e ne ha tratto ispirazione per scrivere “Ballyturk”, mi ha contattato via mail e mi ha chiesto di pensare a delle musiche per un’opera che comunque nasceva da cose che avevo composto io.
In pratica ti ha chiesto di partire da te stesso per poi andare da un’altra parte…
Infatti la prima cosa che mi ha detto quando ci siamo visti è stata: ‘Devi scordarti di te!” anche perché in quel caso la tentazione di tornare su terreni già battuti era più che alla portata di mano. Mi ha dato una grande mano proprio la storia che “Ballyturk” racconta, che ha un sapore davvero distante da quello del mio disco precedente, per cui io ho cercato utilizzare alcuni miei cromosomi musicali, per poi distaccarmene completamente. Enda in questo ha avuto un ruolo davvero centrale, perché mi ha fatto parlare molto. Abbiamo discusso tantissimo insieme delle musiche e della direzione in cui dovevano andare. Poi lui ha una conoscenza più che buona dell’argomento, quindi è stato anche facile. Ricordo la prima volta che ci siamo visti e dopo un quarto d’ora che discutevamo ho avuto la sensazione di conoscerlo da sempre, non lo dico tanto per dire. Sai quando due persone fanno click? Ecco. Tant’è che il clima dell’incontro, che fino a quel momento era molto formale, è diventato subito amichevole e produttivo.
Ti è capitato di vedere lo spettacolo dal vivo?
L’ho già visto una ventina di volte, poi ho preferito smettere perché è devastante, quasi insostenibile. ‘Ballyturk’ inizia con la gente che ride a crepapelle e più la storia evolve e più l’atmosfera in sala cambia e si arriva alla fine dove non riesci più a tenere le lacrime. Prima ti contorci per via delle risate, poi perché stai male e ti senti quasi in colpa per avere riso fino al momento prima. È stata un’esperienza incredibile, gli attori sono straordinari e pure i contesti in cui abbiamo lavorato sia in Inghilterra che in Irlanda. Purtroppo non potremmo mai portarlo qui, perché la gente in Italia non capisce l’inglese ed è un vero peccato.
Per certi versi, allacciandomi a quello che hai detto prima sul tuo lavoro con Blixa, sembra quasi che tu utilizzi la musica per costruire rapporti umani.
Certo, perché la musica è una cosa che si fa con le persone. Non è una cosa gerarchica anche se è chiaro che ognuno ha il suo ruolo, sa cosa deve fare lui e cosa deve lasciare fare agli altri. Ma l’aspetto umano è fondamentale. Ogni volta che suono con Joe, per esempio, finisce che passiamo più tempo a parlare che realmente sugli strumenti ed è giusto così. Perché per quanto mi riguarda parlare è già suonare, emergono percorsi comuni che poi per forza di cose finiscono per influenzare la musica che si compone insieme. E non è una roba che accade con tutti, anzi, altrimenti non sarebbe speciale, ma quando accade il risultato è esplosivo. Ho fatto un sacco di collaborazioni nella mia vita e ho la testa piena di altre che mi piacerebbe andassero in porto, anche perché col tempo ho capito che le collaborazioni non te le scegli, sono cose che succedono, basta essere un po’ ‘sulle mappe’.
Sulle mappe però bisogna anche saperci stare: non a caso mi sembra che tu abbia da sempre cercato contatti che ti permettessero di guardare fuori dall’Italia. Sarà che sei di Pordenone che a me è sempre sembrato uno di quei posti che ti spinge ad andare via.
Pordenone è un posto piccolo e soprattutto molto isolato: le strade, in quella zona d’Italia, sono una novità abbastanza recente. Guarda invece quante ce ne sono qui, e poi c’è anche il famoso detto, no? Tutte le strade portano a Roma, e non è un caso, mentre non tante strade portano a Pordenone. Questo isolamento si riflette anche nel carattere delle persone che ci abitano. C’è una chiusura nei confronti di tutto quello che arriva dall’esterno, d’altronde lì davanti ci sono le montagne e le montagne, a meno che tu non abbia dei mezzi particolari, dicono che lì ci si deve fermare. Qui non è così, ma non è solo una questione di mentalità e di cultura, ma c’entra tanto pure la geografia. Io, semplicemente, cercavo della musica e la musica che si faceva in Italia allora, Guccini, cose così, a me non interessava. Quindi ho cominciato ad ascoltare da subito, quando ancora ero molto piccolo, roba che arrivava dall’estero e più ascoltavo certe cose e più mi veniva voglia di andare a vedere come funzionava nei posti dove quella musica nasceva: Londra, Berlino e poi dopo anche New York. Anche perché devi pensare che nel mondo underground dell’epoca ancora si mettevano gli indirizzi sui dischi e io sono stato fin da subito uno di quelli che se scopriva una band nuova, poi gli scriveva. Sono entrato a far parte di quella cosa che allora chiamavamo “Tape network” e con molta di quella gente sono tutt’ora in contatto. Per questo non ho mai pensato alla mia musica come vincolata solo all’ambito italiano. Anzi, penso che adesso, in maniera pure molto grave per chi la musica la fa, ci sia fin troppa autoreferenzialità. Come se la musica italiana fosse sempre unica, originale e innovativa, quando in realtà è sempre più derivativa.
Più che altro è molto strano che questo succeda adesso che i confini sono molto più labili: ora non devi spedire lettere a nessuno, fai il disco a Roma e domani qualcuno lo può ascoltare in streaming in Sudafrica…
È questione di confini mentali, infatti, e non fisici. Io ricordo quando vennero in Italia i Sonic Youth per la prima volta e andai a vederli dal vivo a Treviso, in un Ex Macello: non avevo sentito una nota delle loro canzoni, perché all’epoca c’era pure il problema che i dischi mica li trovavi così facilmente, non sapevo che faccia avevano, ma sapevo chi erano, che ruolo avevano nella comunità musicale di New York e all’epoca se un gruppo così passava dalle tue parti, tu andavi a vederlo. C’era curiosità per questo genere di cose e un senso di comunità che ti spingeva anche a fare chilometri per poi magari scoprire che ‘sti quattro tizi da New York arrivavano con un furgone scassato e lo facevano per pochi soldi. Adesso se Lee Ranaldo viene in Italia è tanto se vanno a vederlo centocinquanta persone, mentre un nome italiano che magari da Lee Ranaldo ha copiato tutto ne fa mille in più. E questo perché a un certo punto, come accade in ogni paese, sono cominciate a circolare le versioni italiane, in italiano, della roba che andava forte fuori. I Sonic Youth italiani, gli Smashing Pumpkins italiani, ma senza che nessuno avesse la potenza di fuoco per arrivare dove erano arrivati i modelli stranieri, come se ci fosse uno specchio deformante.
Beh, devi pensare però che il pubblico italiano è esterofilo per vocazione e…
Pure per necessità.
Anche, quello che dico io però è che pure chi prova a tentare la strada dell’estero spesso lo fa solo per avere una news in più per farsi bello qui in Italia. Come se bastasse avere il disco distribuito da Rough Trade per fare una carriera. Sono in pochi quelli che si confrontano davvero col mondo “fuori” come hanno fatto, per dire, gli Zu.
A me vengono in mente pure i Pankow, ancora prima degli Zu, un altro gruppo che è riuscito a farsi notare fuori proprio per via della sua originalità. Ma i Pankow, partendo da Firenze, e con dei primi album davvero epocali, sono finiti per diventare un’influenza per gente come Nine Inch Nails. Però non è che sono poi in tanti gli esempi del genere, anzi, li contiamo sulle dita di una mano. Pensa se adesso qui ci fosse una macchina del tempo che ci facesse tornare in un negozio di dischi del 1995 con ventimila lire in mano, un disco dei Sonic Youth e uno dei Marlene Kuntz, con cui ho collaborato e sono anche degli amici, io comunque finirei per prendere il disco dei Sonic Youth perché, per carattere e mentalità, sono portato ad andare alla fonte, a cercare gli originali e questo vale pure se parliamo di gruppi americani di oggi che sono gruppi di cloni di trent’anni fa, non è un discorso solo italiano. Però a me sembra che al pubblico di casa nostra manchi proprio il coraggio e la curiosità di risalire alla fonte. Il problema è che spesso manca anche ai musicisti.
Quindi è la curiosità il motore di tutto?
Ti racconto una cosa: io a un certo punto ho perso la testa per un certo tipo di suoni, un certo modo di fare i bassi, e invece di cercare di rifare a casa mia, male, una roba che sentivo fare benissimo altrove, ho scritto a Mick Harris dei Napalm Death e degli Scorn e gli ho proposto di collaborare. Ho fatto la valigia e sono andato quattro mesi a Birmingham quando qui l’idea di un certo suono di basso, l’idea di drum’n’bass, ancora non era arrivata dalle nostre parti. Mi ricordo che io dicevo di volere fare dei pezzi drum’n’bass e le persone con cui suonavo mi dicevano: ‘Ma il resto quando ce lo metti?’. Per cui sono andato a Birmingham e ho scoperto che nello studio dove registrava Mick c’erano pure gli Ocean Colour Scene, capito, gli Ocean Colour Scene, un gruppo pop rock, ma pure un sacco di tizi di colore che facevano dub e hip hop e Surgeon che faceva techno e quel modo di far suonare i bassi, quei bassi che volevo io perché si sentivano fino a tre case dopo la mia, nasceva dall’insieme di tutto questo. E sono dovuto andare lì per capirlo. Così come quando, dopo, mi è venuta l’idea di costruire un album di canzoni partendo proprio dalle cose che avevo fatto a Birmingham con Mick, quindi da basso e batteria, sono dovuto andare a New York per trovare qualcuno con cui collaborare perché qui mi prendevano per scemo. Lì invece ho incontrato Jim Coleman dei Cop Shoot Cop e insieme abbiamo fatto gli Here e ci hanno dato una mano il bassista degli Swans, Lydia Lunch, Scott dei Girls vs Boys, con cui poi ho fatto anche un album, tutta gente per cui quello che volevo fare, quello che avevo in testa, non sembrava strano, ma normale. Mentre qui si stupivano perché volevo fare un disco rock, ma usando due campionatori. ‘Ma come, c’è il campionatore, è elettronica, non è rock?’, mi dicevano.
All’epoca una certa visione della musica era piuttosto comune anche tra il pubblico, mentre ora le cose sono cambiate.
Certo, ma non stiamo parlando di quarant’anni fa, ma di quindici anni fa ed è comunque incredibile, no? Prima parlavamo di Man Ray e lui, con Breton e gli altri surrealisti che frequentava, facevano cose come vedersi un pomeriggio e darsi l’appuntamento per il giorno dopo con un film fatto e finito. E per loro fare un film voleva dire tornare a casa, prendere degli oggetti, metterli sulla pellicola, sviluppare tutto nella camera oscura e montare. Per me con la musica è la stessa cosa: non è importante cosa usi per farla, conta la visione che hai, l’idea che hai in testa. Il resto, gli strumenti, sono solo oggetti che servono per sviluppare un’idea”.
Questo approccio ce l’hai avuto fin dall’inizio. Penso ai Meathead che erano visti come un gruppo molto trasversale…
Perché i Meathead non erano un gruppo, venivano venduti come tale, ma la band non esisteva. Guarda ho qua il primo disco, l’ho ritrovato l’altro giorno mentre sistemavo lo studio, guarda la copertina: ci sono io, OK, ma gli altri quattro sono amici miei che nel disco non suonano neanche una nota. L’album l’ho fatto così: spedendo nastri in giro per il mondo, la gente ci suonava e me li rimandava indietro. Infatti neanche facevamo concerti, almeno all’inizio, fino a che non c’è stata l’esigenza di mettere su un gruppo vero e proprio. Ma pure a quel punto non è che da una roba nata così poteva venire fuori il classico gruppo rock tradizionale, quindi c’era un batterista, e c’era uno che suonava il campionatore, etc etc… Forse hai ragione, forse non ho mai abbandonato l’approccio che avevo all’inizio e pur facendo cose molto diverse da allora il modo che ho di vedere la musica è rimasto identico. Quella dei Meathead è stata un’esperienza molto divertente, tieni conto che era il 1992, quindi non era facile fare un disco in questo modo, mi ricordo che nessuno voleva pubblicarlo perché c’erano dei beat hip hop e poi dei campionamenti presi dagli Unsane, avevo preso due sette pollici loro e li avevo usati per costruire le canzoni, perché mi piaceva questa idea di fondere il noise con la ritmica del rap e i Pussy Galore, peraltro facendo suonare la batteria proprio a Bob Bert. Io il gusto per questo genere di esperimenti non l’ho mai perso, in pratica ho fatto una roba molto simile anche col Balanescu Quartet.
Mi fa ridere questa cosa che tu hai scritto a Bob Bert e lui subito ha accettato, mentre magari ti sarà capitato mille volte di essere rifiutato da altri musicisti italiani.
Eh, certo! Un sacco di volte. Mi ricordo che a un certo punto mi era venuto in mente di mettere su un lavoro ispirato a Pasolini utilizzando solo due archi, un violoncello e un contrabbasso, e poi io che mi occupavo di chitarra, effetti e campionatore. Ho scritto a un musicista, un violoncellista, delle mie parti e lui mi ha risposto di no. È stato onestissimo, gliene devo dare atto: mi ha scritto proprio che non voleva suonare con me perché riteneva la mia musica allucinante, in senso negativo, e non capiva cosa avremmo potuto fare insieme. Lo stesso pomeriggio, preso un po’ dallo sconforto, ho scritto a quello che secondo me è uno dei più grandi musicisti viventi, Erik Friedlander, il violoncellista che collabora con Zorn in Masada, e lui mi ha risposto immediatamente. Quel disco l’abbiamo fatto un po’ a Brooklyn e un po’ a Pordenone e lavorarci è stato un soffio, è venuto tutto naturale. Da lì ho capito che nella vita, e nella musica, non bisogna avere paura di chiedere. Chiedere ti aiuta a capire se esiste un posto dove si possono fare le cose che vuoi fare, nel modo in cui vuoi farle. E di solito quel posto c’è sempre. Quella volta lì non era la prima, e non è neanche stata l’ultima, che mi beccavo un ‘no’ da qualcuno con cui volevo collaborare qui in Italia, ma mi ha aiutato a capire che se il modo non va bene per qui, allora andrà bene altrove. Non lo dico per snobismo, ma proprio per opportunità.
Mi sembra di capire che la tua vita artistica si sia sempre mossa attraverso percorsi accidentali: come sei arrivato al cinema?
Per caso. Ci sono arrivato per caso: ho incontrato Federico De Rubertis, che è un musicista che all’epoca collaborava attivamente con Gabriele Salvatores, in uno studio a Pisa. Lui è rimasto colpito dalla mia musica e l’ha fatta sentire a Gabriele e insieme mi hanno chiesto di fare qualcosa per ‘Denti’ che era il film su cui stavano lavorando in quel momento. È stato molto interessante perché fino ad allora non avevo mai capito che potevo stabilire un rapporto tra la mia musica e le immagini e che nella musica che faccio c’era anche un aspetto cinematografico e narrativo. Jim Coleman, con cui come ti ho detto ho collaborato molto, ha fatto le colonne sonore per diversi film di Al Hartley, quindi ero abituato a vedere gente confrontarsi con le immagini, ma non mi ero mai cimentato in prima persona. Da lì in poi si è instaurata una sorta di reazione a catena, anche perché col cinema non puoi fare cose se non in questo modo: è un ambiente molto chiuso, tu puoi contattare chi vuoi e non ti risponde mai nessuno. Le cose si possono fare solo per caso ed è surreale perché poi magari scrivi a Clint Eastwood e dopo una settimana ti arriva una risposta. Non scherzo. Ci ho provato davvero.
Eppure, in relativamente poco tempo, il tuo modo di comporre è quasi diventato uno standard…
Perché mi imitano un sacco!
Beh, nel mondo delle colonne sonore imitare è quasi consentito, no? Mi sembra una cosa abbastanza risaputa.
In Italia, sì. In Italia è sempre andato fortissimo il tarocco. Ogni tanto capita che qualcuno mi dica: ‘Ho sentito il pezzo che hai messo in quel film, non ti è proprio venuto bene’, parlando di una cosa che in realtà non ho composto io e che quando l’ascolto poi quasi mi sento male.
Ma di chi è la colpa, secondo te? Dei produttori? Dei registi? Sei tu che sei troppo costoso?
Ma io non sono costoso, dico davvero. Credo sia una combinazione di cose: pigrizia, miopia e la convinzione che ognuno possa suonare qualunque cosa. Alla fine che cos’è il tarocco se non la rappresentazione massima della presunzione che ha uno che crede di sapere suonare in un modo che non gli appartiene? Il mio modo di fare musica è solo mio, è figlio di un percorso che nasce alla fine degli anni ottanta e arriva a quello che sto facendo oggi, è un suono che ha tante sfaccettature ma che è tipicamente mio, è uno dei miei codici. Io non suono le musiche degli altri, forse l’ho fatto in passato ma quelle influenze me le sono scrollate tutte per trovare uno stile che mi appartenesse totalmente. Quando ascolti un disco mio, io non sono lì con te. È la musica che deve parlare da sola e deve trasmettere quella che è la mia essenza, e quando uno si appropria delle idee di un altro non può che risultare goffo, falso, e te ne accorgi. Quelle cose non durano, fanno poca strada. Anche perché io mi sono già spostato altrove, e quella che stai cercando di catturare e rifare è solo una piccola parte di me. Basta ascoltare la colonna sonora di ‘Diaz’ e ‘La ragazza del lago’ per accorgersi che sono diversissime l’una dall’altra. Si capisce che sono io, ma si capisce pure che sono ancora in movimento.
Qual è la colonna sonora a cui sei più legato?
Ci sono delle cose che mi piacciono ancora molto, sparse tra le varie colonne sonore che ho fatto, però quella a cui sono legato quasi in modo irrazionale è quella de “La ragazza del lago”. In questi giorni stavo guardando “Les Revenants” e più di qualcuno ha riscontrato delle similitudini proprio con “La ragazza del lago”. C’è gente che mi scrive da mezza Europa per chiedermi se la sigla, che in effetti fa un uso del violoncello molto vicino al mio, sia stata composta da me. Credo che i Mogwai abbiano fatto un ottimo lavoro, molto raffinato, e ho la sensazione che chi ha realizzato quella serie forse un po’ si sia ispirato anche a “La ragazza del lago” visto che le atmosfere, e l’ambientazione sono molto simili. Comunque in ogni film a cui collaboro c’è una traccia che poi diventa la pista da seguire per il lavoro successivo.
Mi ha sempre colpito, come dicevamo prima, il tuo dichiarare apertamente di non scrivere sulle immagini, ma di creare la musica a partire dal testo. Ribaltando un po’ l’idea comune di colonna sonora. Ho la sensazione che tu faccia così anche per avere le mani più libere. Giusto?
Beh, se esiste un’idea comune vuol dire che probabilmente è già stata utilizzata, quindi è necessario andare oltre. Tecnicamente suonare su delle immagini è qualcosa che risale all’epoca del cinema muto e poi qui in Italia abbiamo avuto gente che l’ha fatto ai massimi livelli. Penso a Rota, a Fusco e ovviamente anche a Morricone. Tu credi che io sia anche solo minimamente in grado di competere con quelli lì? Se io penso alla colonna sonora di ‘Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto’, non ho chance, non esco vivo da lì. Cosa mi metto a fare? Mi devo davvero confrontare con questo?
Però inevitabilmente, essendo italiano e lavorando per il cinema, il confronto con quei nomi è quasi automatico.
Lo capisco, certo. Che poi io Morricone l’ho scoperto quando l’ha suonato Zorn, perché comunque non è che prima di ricevere tutti quei premi e quelle onorificenze all’estero fosse così celebrato qui da noi, anzi. Al di là di tutto, quel modo di commentare le immagini con la musica è un sistema ben codificato e che ha avuto il suo picco massimo negli anni settanta. Ora non è più quel mondo lì, è cambiato tutto, è cambiato il cinema, ed è necessario tentare di avvicinarsi alla musica da film in un altro modo. La sceneggiatura è la prima cosa a prendere vita in un film, magari il regista ha un’idea in testa, un storyboard, ma ancora non ha girato nulla e quello è il momento in cui io posso permettermi di essere il più creativo possibile. Poi è chiaro che quando arrivano le immagini devo rimetterci mano, non è che io consegno e poi chiudo e chi si è visto si è visto. Nella fase di produzione di un film io sono il primo a cominciare e l’ultimo a finire, perché non mi limito a seguire solo fino alla fase di montaggio, ma arrivo fino al mix, fino a quando non vedo il mio nome scritto sui titoli. Quindi la musica viene comunque sempre reinventata, ma essendo stata registrata prima permette sia al regista di girare utilizzando già quella che sarà la colonna sonora vera e proprio e al montatore di avere delle scene che ritmicamente creano già un ponte tra immagini e suono.
Che rapporto hai con i registi con cui collabori? Ti lasci consigliare da loro?
Io preferisco avere un rapporto di condivisione quasi totale con i registi per cui compongo, e anche con i montatori. Mi piace proprio farli venire qui in studio e provare con loro a intervenire sulla musica, aprire e chiudere i canali, accendere e spegnere gli strumenti. Per prima cosa perché non è il mio film, ma è il film del regista, e poi perché per me è interessante avere dei pareri da qualcuno che non è un musicista e che però ha una visione del film che magari è molto diversa da quella che ho potuto scegliere io. Questo scambio continuo mi ha fatto cogliere degli aspetti e prendere delle direzioni che io non avrei mai neanche immaginato. È un vero e proprio dialogo e se le persone coinvolte sono aperte e intelligenti diventa un dialogo fruttuoso. Per me è come se la musica la facessimo sempre in tre: io, il regista e il montatore.
Immagino che tutti ti chiedano sempre di Sorrentino. Un po’ per quello che rappresenta, ma parecchio anche per l’uso che lui fa della musica nei suoi film. È uno che sembra realmente connesso con il commento sonoro che sceglie. È così?
Tutti i registi con cui ho collaborato hanno uno spiccato senso per la musica e spesso costruiscono le scene anche in funzione della canzone che vogliono usare. Sicuramente Paolo Sorrentino è uno di questi, ma posso dirti lo stesso di Daniele Vicari e Andrea Molaioli. Non sono in pochi a ritenere la musica un elemento determinante.
Ormai comporre per il cinema è diventato il tuo lavoro, ma ti entusiasma ancora farlo?
Certo, mi piace da impazzire! E mi piace ancora di più l’idea che facendo questa cosa mentre continuo a fare dischi di altro tipo, come quello con Blixa o le altre robe che faccio per me, tutto si mischi con tutto. La musica è la mia vita, tutto si fonde nello stesso piano ed è bello vedere come i miei lavori si leghino gli uni agli altri influenzandosi a vicenda.
Non so se ti è capitato di leggere l’intervista che Pitchfork ha fatto con Aphex Twin qualche mese fa e dove diceva che per lui è più divertente costruire studi di registrazione che fare dischi. Quanto conta per te “lo studio”?
Beh, guardati un po’ intorno! Questa è la mia tana, mi piacerebbe potere costruire un altro piano, ma il comune di Roma non mi dà l’agibilità, quindi resterà così. Lo studio è determinante, ma a me diverte anche molto lavorare fuori. Con Blixa, mentre eravamo in tour, abbiamo registrato ovunque: nei bagni degli hotel, una volta pure in treno. E mi fa impazzire lavorare negli studi degli altri, perché è lì che davvero entri in contatto col modo di pensare e di vedere la musica di una persona. Per esempio, io penso che se qualcuno venisse a fare delle cose qui diventerebbe matto, perché tutto è pensato a mia immagine e somiglianza: per un sacco di tempo ho usato un banco, ora invece ho deciso che per quest’anno passerò tutto dentro due Pre per poi mixare solo col left & right, mentre per l’anno prossimo cambierò di nuovo metodo. Mi sto facendo costruire un nuovo banco di soli otto canali, mi piace sondare le possibilità e anche i limiti dati dall’utilizzare solo determinati strumenti.
Lavori ancora solo in analogico, vero?
Sì, sì, il computer lo uso solo come registratore, ormai non utilizzo neanche più i plugin. Ho deciso di sposare una filosofia quasi radicale: se posso ottenere il suono che voglio da uno strumento lo ottengo, altrimenti cambio strumento, oppure mi attrezzo con quello che ho. Come ti dicevo prima, almeno una volta l’anno cerco di riorganizzare lo studio, cambiare assetto, tolgo degli strumenti, ne tiro fuori altri, cambio i collegamenti, e questo ovviamente modifica anche l’approccio al suono. Mi piacerebbe riuscire a rimettere in piedi un vecchio Atari a sedici tracce e usarlo. Per me la musica è sempre di più far succedere qualcosa in una stanza e documentarla. Il suono deve essere vero, e non lo dico perché sono un maniaco del vintage. La parola vintage non mi è mai piaciuta, ma se una cosa mi serve la uso, io non ho nessun pregiudizio nei confronti della tecnologia. Per me il digitale deve essere ‘originale’, la tecnologia è utile soprattutto se non serve per replicare il suono degli strumenti veri. Gli archi finti mi fanno schifo: non ho un quartetto d’archi? Non li uso, userò un’altra cosa.
Posso chiederti qual è il tuo rapporto con la musica degli altri?
Eh guarda quelli, sono tutti dischi nuovi, a parte quello di Fela Kuti che è splendido. Io compro continuamente dischi, sia roba vecchia che roba nuova, mi piace muovermi senza regole tra le epoche e i generi.
Non sei uno di quelli che si vanta di non ascoltare mai musica, né la sua e né quella degli altri. Guarda che ce ne sono!
Il problema è che si sente. Si sente che c’è gente che vive solo nel proprio mondo e non compra un disco e non va a un concerto da una vita. Poi se vivi nel tuo mondo e sei Coltrane va benissimo. Ma Coltrane era uno che usciva tutte le sere a sentire la musica degli altri e anche io sono così. Perché imparare a suonare, alla fine, è facile, lo potrebbero fare tutti, ma poi devi anche imparare a confrontarti con l’esterno. Godersi la vita è importante e per me godersi la vita vuol dire anche imparare dagli altri.
Non so se ti è capitato di vedere “Sonic Highways”, il documentario a puntate girato da Dave Grohl, che alla fine ruota tutto intorno a questo tema qua…
Certo, fighissimo. Io apprezzo molto lui, quello che fa per la musica, perché è uno davvero potente, che potrebbe fottersene di tutto e farsi solo i fatti suoi, ma che si spende tantissimo per gli altri e ricorda continuamente da dove viene e perché. Il mio compagno di banco delle superiori aveva un fratello che ascoltava musica sperimentale, mentre io ero un fissato dei Black Sabbath, quella roba lì. Insomma, mi passano dei dischi, ce li ho ancora qui peraltro, e di colpo scopro un universo inesplorato e per me del tutto inedito: Nurse With Wound, Current 93, e come ti dicevo prima su questi dischi c’erano gli indirizzi. Io ero proprio un bambino, ripeto, ma ho scritto a tutti questi dicendo che volevo fare la musica che facevano loro e questi mi hanno risposto: ‘Ma no, sbagli! Tu devi fare la musica tua” e tieni conto che tra una lettera e la sua risposta in mezzo c’erano due mesi, perché non c’era la mail. Insomma io gli dico che OK, mi sarebbe piaciuto fare musica mia ma non sapevo proprio da dove cominciare e loro, come se niente fosse, m’invitano in studio. A Londra. C’era Mark Almond, i Coil, Derek Jarman e io ero proprio un ragazzino e sono rimasto allibito da vedere gente così aperta e disponibile, e questa roba me la porto dentro sempre. Non l’ho mai dimenticata.
E come ti poni quando sei tu a ricevere mail del genere?
Io rispondo a tutti, anche perché mi piace proprio entrare in contatto con le persone. Poi adesso che magari capita che qualcuno si approcci a me in maniera un po’ da fan, sono sempre un po’ curioso di scoprire come sono arrivati alle mie cose. Non puoi capire quanto mi fa incazzare quando qualcuno dice di apprezzare la mia musica e poi tira giù una lista di cose insostenibili, e io sono lì che chiedo: ‘Ma davvero ti piace la mia musica e pure ‘sta merda?’ e da lì nascono degli scambi incredibili, pure formativi. Però sì, a me piace rispondere alla gente, infatti ho una lista di richieste per cortometraggi infinita e accetto spesso di lavorarci e quasi sempre lo faccio gratis.
Ah non sei uno di quelli che schifa a priori i cortometraggi…
Per niente. Noi sappiamo come sono quelli in giro, ma al tempo stesso io sono convinto che ce ne sono tanti altri, bellissimi, che non riescono a venire fuori. Lavorare con i registi dei corti ti aiuta a capire che direzione prenderà il cinema. È la stessa ragione per cui scelgo quasi sempre di cimentarmi con le opere prime: amo farmi sorprendere. Cosa può darmi l’ennesimo film di Ermanno Olmi, con tutto il rispetto? Preferisco di gran lunga collaborare con un ventenne. Per me è fondamentale avere le antenne dritte, altrimenti sei solo e più andrai avanti e più resterai solo.
Posso chiederti il tuo punto di vista sul cinema italiano?
Col tempo ho capito una cosa: di solito i complimenti per una colonna sonora mi arrivano se questa è associata a un film di sostanza, anche dopo diversi anni. E questi complimenti arrivano da ovunque e solo per film che hanno un certo spessore come ‘La ragazza del lago’, ‘Diaz’, ‘Il divo’. In un momento di crisi come questo sono tutti impegnati a fare commediole sciocche, tutta roba che passa via senza neanche lasciare un segno e spesso neanche al botteghino. È proprio in un momento difficile che secondo me bisognerebbe avere il coraggio di rischiare di più, che tanto non c’è niente da perdere. E invece mi sembra che siano tutti attenti a cercare ‘il colpetto’ dal punto di vista economico. Che poi, che colpo vuoi fare?
È importantissimo anche saper scegliere, quindi?
Quello è importante in generale. È un qualcosa che riguarda la tua persona. Io ho semplicemente scelto di fare solo quello che mi piace fare. Anche nella musica. Mi sono state offerte tante cose, anche molto importanti, a cui ho detto no perché non sentivo di potere dare un contributo che mi permettesse anche di crescere e che non fosse solo utile per mettere un piede in altri contesti. Un po’ di tempo fa, ho chiesto a un amico in comune che ho con Henry Rollins se lui fosse a conoscenza dei motivi che hanno spinto Rollins a ritirarsi dalla musica e la sua risposta è stata illuminante: ‘Perché non sente di avere più nulla da offrire’. Bisogna avere sempre qualcosa da dire, altrimenti diventa solo lavoro e, OK, io ho anche una famiglia che devo mantenere ma vorrei continuare a farlo, come adesso, facendo solo cose che mi piacciono, perché è lì che posso essere davvero più presente e dare un contributo sostanzioso e infatti succede che la gente si ricorda e cita cose di vent’anni fa perché sono rimaste e hanno colpito quelle persone al cuore. Io non faccio musica commerciale, quindi cerco almeno di fare cose che abbiano la loro bella solidità.