E’ uscito da qualche settimana un piccolo oggetto a suo modo molto, molto prezioso. Ancora più prezioso, forse, per le persone che non sanno chi era Dino D’Arcangelo e che negli anni ’90 non c’erano ancora (perché non nati, o perché troppo giovani). Ovvero, gli anni in cui sull’Italia è calata l’onda lunga della club culture, dei rave, delle discoteche che smettono di essere balere ed iniziano a flirtare con innovazione e tendenze, con ricerca e nomi di spessore europeo; non tutte chiaramente, ma le migliori sì.
C’era una caratteristica in tutto questo: un fenomeno che sotterraneamente prendeva davvero un numero enorme di persone, ma che era completamente ma proprio completamente ignorato dai media mainstream. Se non con delle finestrelle idiote come la famigerata “Pompa inaudita” giulianoferraresca (…che sì, fa ridere, ma in realtà mette anche molta tristezza). Ecco. In questo panorama disperante, c’è stata per anni un’unica, stranissima eccezione: gli articoli – brevi ma incisivi, col dono della chiarezza che non andava a scapito dell’emozione, del “senso di meraviglia” – di Dino D’Arcangelo su Repubblica, in particolar modo sulla finestrella settimanale nel supplemento Musica.
Perché “meraviglia” era. Chiaro, c’era anche tutta una “dark side” sui brutti tic di artisti, addetti al settore, management, sui localari e sulle dozzinalità commerciali anche allora; forse volendo anche più di adesso; ma era comunque tutto molto più territorio vergine, inesplorato, e quindi c’era una componente di creatività, di emozione e rischio (vincente) diffuso, lo potevi avvertire. Era insomma un mondo strano, alieno già per chi gli dava vita, figuriamoci per chi lo viveva dall’esterno poco o nulla. E te lo dovevi andare a cercare con, appunto, un “senso di meraviglia”: un amore misto a senso di stupore per quello che stavi raccontando. In D’Arcangelo, questa cosa è stata cristallina.
Non aspettatevi da lui analisi approfondite e concettuose, citazioni da esperto maniacale, notazioni da accigliato cultore underground: avesse fatto così, non sarebbe servito a nulla. Con la sua chiarezza e il suo sincero entusiasmo e la adorabile curiosità, D’Arcangelo ha creato a piccole dosi una “finestra” perfetta per raccontare la club culture emergente dei ’90 in Italia – quella post balere, post “Febbre del sabato sera”, quella a matrice anglosassone e germanica – a un pubblico vasto, un pubblico decisamente a digiuno di tutto ciò. E questo è un ruolo fantastico e, ri-usiamo un aggettivo citato all’inizio, incredibilmente prezioso: mettere in contatto realtà emergenti col grande pubblico, riuscire a portare la nicchia in superficie dopo aver indagato, aprire nuovi scenari è infatti uno dei compiti più nobili del giornalismo. Probabilmente più nobile del sapere mille nomi, mille etichette, diecimila sottoetichette, e citare sempre tutto per dare sfoggio di sapienza.
Dino D’Arcangelo ci ha lasciato vent’anni fa. Per una malattia che fino all’ultimo ha voluto tenere nascosta. Il suo collega Pierfrancesco Pacoda e la magnifica Nico Note (che ha avuto modo di invitare più volte D’Arcangelo nel suo antro personale, il Morphine degli anni d’oro, al Cocoricò), con la collaborazione di Doc Servizi, hanno creato prima un premio annuale intitolato a Dino, per premiare i più illuminati protagonisti del mondo della notte in senso lato, e ora hanno portato a termina la realizzazione del volume “Tenera è la notte”, che fino a quando le librerie saranno chiuse per lockdown potrete ordinare tranquillamente via web.
Potete scoprirne di più tra l’altro proprio oggi 2 aprile, dalle 17 alle 18, ovviamente on line, dalle parole di uno dei due curatori. Qui tutte le informazioni.