E’ molto bello poter uscire dalla routine delle “solite” interviste ai “soliti” dj, interviste che tendono dopo un po’ ad assomigliarsi tutte anche perché è sempre più raro, soprattutto fra i dj della nuova generazione, trovare persone di spessore, persone che nel bene o nel male abbiano un vissuto e una visione artistica non scontata e non conforme. Problema che di sicuro con Mike Skinner, aka The Streets, non c’è: grazie anche a Le Cannibale, serata settimanale milanese al Tunnel Club dalle scelte in line up molto “vive”, abbiamo avuto la fortuna di scambiarci una gran bella chiacchierata, con Skinner, dove si è parlato un po’ di tutto e lo si è fatto con grande e rara sincerità. Soprattutto considerando che parliamo di un artista che, col suo ormai abbandonato alias artistico The Streets, è arrivato ad essere una piccola stella del mainstream pop, per quanto in modo irregolare, disincantato, sarcastico. Ora la sua vita, in questo periodo particolare, è un po’ diversa. Ci racconta come e perché…
Beh, partirei subito da questa tua nuova “vita” artistica, quella che ti vede fare il dj e che è il motivo per cui ci stiamo incontrando adesso. Veste per certi versi inedita, no?
Massì, non faccio niente di speciale. Il dj. Come tanti altri, no? Posso dirti che suono soprattutto Bass Music, e poi non manco mai di infilare vecchia roba UK Garage. Una selezione che ha molto senso soprattutto se vivi e arrivi dall’Inghilterra; ma che ha anche senso perché sono faccende musicali che hanno una radice comune rispetto a quello che facevo con The Streets.
Però se uno ci pensa, fa fatica ad immaginarti come “normale” dj da club, dai. Anche perché so bene che il tuo background musicale è molto variegato. C’è stato un periodo, giusto per dire, che andavi in giro a dichiarare il tuo amore per il country!
Vero, il mio background è assai composito. Ma sai qual è il punto? Tutti questi aspetti che, negli anni passati, cercavo di riunire sotto un’unica identità artistica ora sono andati ciascuno per la sua direzione. Ma non parlo solo di musica. Mi è sempre piaciuto raccontare, ok? Ho spinto in là questa cosa, tant’è che ora sono molto concentrato da un lato sull’attività da film-maker, dall’altro sulla scrittura (vedi il mio blog, poi ho anche scritto un libro). E questo soddisfa un lato di me. Poi però c’è tutto il lavoro con Rob Harvey dei The Music nei The D.O.T che serve invece a soddisfare il mio lato più pop, più legato alla forma canzone classica. E poi c’è la mia attività da dj. Perché la club culture è sempre stata una parte di me: facendo adesso il dj, cerco ora di sviluppare questa cosa al meglio.
Quanto sono differenti le sensazioni tra portare avanti il progetto The Streets e farlo invece con The D.O.T?
In realtà sono molto simili. Sai perché? The D.O.T ora è una cosa “nuova” per me, e forse non solo per me, esattamente come lo era The Streets quando è nato. Se avessi portato avanti The Streets ad ogni costo, questa componente di novità sarebbe stata completamente assente. Non ce l’avrei fatta. E infatti, non ce l’ho fatta.
…e magari con questo hai deluso le aspettative di un po’ di persone. Tra l’altro, a proposito di aspettative delle persone: ho sempre avuto il sospetto che, visto il tuo ruolo da astuto narratore + sottile provocatore al microfono la gente quando ti incontra si aspetti da te che sia sempre uno pieno di verve, di trovate verbali, una dalla battuta geniale e corrosiva sempre pronta…
Vuoi la verità? Non sono uno molto socievole. Non parlo tanto in giro con la gente. Sto abbastanza per i fatti miei. Guarda del resto a tutto quello che ho prodotto finora: dischi, post su blob, libri, piccoli film… tutte cose monodirezionali, dal punto di vista della comunicazione, no? Sinceramente: confrontarmi in tempo reale con quello che dice la gente mi interessa ed appassiona solo fino ad un certo punto. Anche perché ok, col tempo lo si è capito, cosa volevo fare ma agli inizi come The Streets la gente mi guadava come se fossi un marziano: “E che diavolo sta facendo questo qua? Che è ‘sta roba?”. C’è voluto qualche anno prima che più o meno si iniziasse a capire davvero cosa stessi facendo…
So che è una domanda difficile, ma di tutti gli album a nome di The Streets qual è il tuo preferito, visto con gli occhi di oggi?
Difficile dirlo. Ognuno è una storia a sé. Il primo era davvero una cosa nuova, inedita; il secondo mi ha reso molto orgoglioso dal punto di vista dei testi, perché sono riuscito a narrare con tutte le tracce una storia unica; ma pure il terzo e il quarto, pur essendo stati accolti meno bene come vendite rispetto ai primi due, mi hanno dato molto. In generale, The Streets mi ha regalato la consapevolezza di essere una persona in grado di raccontare storie interessanti. Che è un’attività dal potenziale immenso.
Ecco, dicevi come il terzo e il quarto disco non siano stati accolti bene come i loro predecessori. Onestamente: questo progressivo calo di popolarità ti ha preso male?
Sì, all’epoca sì. Bisogna essere onesti con se stessi, soprattutto quando ti guardi indietro, e sì, te lo confermo, è stato così. Ma ora guardo a ciò con grande serenità: sai, ci sono dei momenti in cui chi crea non riesce a far “risuonare” bene le idee che ha in testa, non riesce a farle capire. I primi due dischi erano andati benissimo, certo; ma tentare di ripeterli sarebbe stato molto stupido. Perché quando sei nel pop se decidi di insistere su una formula solo perché essa fa successo, beh, allora non sei molto diverso da Justin Bieber. No? E questo non mi interessa. Zero.
Ad ogni modo, hai passato della fasi personali anche abbastanza turbolente. Sbaglio o tu per primo hai citato quella storia di Paul Oakenfold, nel dietro le quinte di uno studio televisivo dove condividevate il l’area backstage, ad un certo ti ha mandato un biglietto con sopra scritto “Calmati! Stai calmo!”…?
Ah sì sì, se non sbaglio è un aneddoto che ho riportato anche nel mio libro! Eh, diceva che ero troppo ubriaco… In effetti, come dargli torto? Ero molesto quella sera, saltavo in giro, buttavo cose per terra a caso… ma non è che ce l’avessi con lui in particolare, eh! Non in quel momento della mia vita almeno… Comunque fu gentile, dai: mi allungò una canna dicendo “Fumati questa, vedrai che ti rilassi…”.
Ammetterai che farsi riprendere da Oakey, non propriamente uno stinco di santo, è un po’ preoccupante…
Ma guarda, in tutte le volte che l’ho incrociato non mi è mai sembrato ‘sto gran party animal. La vera cosa che mi sconvolse, e che ancora adesso mi fa ridere al solo pensarci, è quando volai a Los Angeles ospite del bassista dei Sex Pistols, Glen Matlock, che ora vive lì e porta avanti un programma alla radio, dove invita un sacco di gente inglese: bene, mi chiama, arrivo, parlo alla radio, un po’ sovrappensiero metto dentro un po’ di parolacce tra una frase e l’altra, e lui sai che fa? Mi riprende! Mi riprende tutto il tempo! “Oh, cerca di moderare il linguaggio”. Lui! Proprio lui! Quello che quando i Sex Pistols andavano in televisione era il più sboccato di tutti!
Mica male, cambiano i tempi, cambiano le persone… e cambia anche la musica. Senti, come vedi lo stato di salute della musica inglese, oggi come oggi?
La nostra fortuna sono i giamaicani. Il loro arrivo, negli anni ’50, ci ha permesso di avere sempre un elemento in più, una spezia in più nella nostra scena musicale, in particolare quella legata al ballo e ai club. Gli stessi mods erano assai influenzati dalla scena reggae, tanto per dirti. Ma guardiamo all’oggi: la Bass Music non è altro che una versione fortemente giamaicanizzata delle forme di musica dance. Stessa cosa che è successa con la drum’n’bass prima, lo UK Garage poi. In questo modo, siamo sempre stati in grado di offrire qualcosa che fosse profondamente originale e significativo. E’ stato così anche con la dubstep, che ora pare un fenomeno passato, ma vedrai che arriverà di nuovo qualcosa di molto interessante e con un’attitudine simile.
Come ti trovi quando giri da dj? Ti piace l’atmosfera del club, ti piace il mondo di chi ci lavora?
Sì. Ma sai cos’è il punto principale? Fare il dj è fantastico perché mi aiuta a sentirmi più giovane. Mi mette sempre in stretto contatto con la contemporaneità. Sai, quando arrivi ad una certa età è facile mollare un po’ gli ormeggi, stufarsi di stare a contatto con le cose e le loro evoluzioni: essere aggiornati è faticoso, se non c’è niente o nessuno che ti obbliga a farlo, beh, non lo fai. Invece se fai il dj è assolutamente obbligatorio, per te, ascoltare ciò che è nuovo, capire cosa succede in giro, anche perché se non lo fai col cazzo che riesci a reggere una serata in un club. Appunto: ascolti, e ad un certo punto capisci, capisci davvero, capisci perché certe cose musicalmente funzionano. Anche quelle che all’inizio ti sembravano, come dire?, un po’ così. E’ una sensazione molto bella, credimi.
Quali sono i dischi che non falliscono mai e dico mai sul dancefloor, fra quelli che suoni?
Beh, “Vibrate” di Long Jawns e Billy The Gent, un pezzaccio moombathon, è qualcosa che funziona davvero ovunque! Ma il disco che amo suonare di più è “Burnin’” dei Daft Punk. Lo metto sempre dopo che ho suonato una serie di pezzi nuovi-nuovi, magari roba molto varia, che spiazza un po’… e poi all’improvviso piazzo “Burnin’”, un pezzo che è un treno totale e che ormai è storico, e la gente va in delirio. Sempre. Che tu ti trovi in Russia, Germania, Australia – o sotto casa tua a Londra.