Giunto alla sua quarta edizione, Terraforma continua ancora rivolto verso natura e cultura, eliminando le opposizioni, creando relazioni e nuovi linguaggi.
Dopo una cena veloce, si prende la macchina. I minuti che separano me da Villa Arconati sembrano essere accettabili, giusto il tempo di dare una riletta alla line-up e prepararsi psicologicamente all’incontro con tantissime anime unite dalla stessa curiosità.
Davanti a noi la villa barocca, elegante e maestosa apre le porte ad un bosco sensuale, vivo che descrive precisamente l’estetica della vecchia borghesia milanese. Appena superato il desk per la vendita dei biglietti, i dubbi creati dal bollente clima lombardo si dissolvono in un millisecondo. Ci ritroviamo in un esedra fatta di brecciolino e statue monumentali rinascimentali. Un posto fantastico, dove la sua connotazione spirituale sembra entrarti dentro nell’immediato.
Il sentiero che porta al Main Stage, allestito con strutture triangolari luminose, segna l’inizio di un viaggio e di un’esperienza particolare quasi al limite del lisergico. Il triangolo rappresenta la madre terra solida e concreta. Forma geometrica fra quadrato e cerchio, commistione fra sostanza spirituale e materiale; il Terraforma è anche questo.
Il sentiero di triangoli lo si percorre con molta curiosità, per lo più con lo smartphone in mano cercando di immortalare queste forme illuminate che ti spingono ad addentrarti verso le ombre di persone che l’occhio percepisce in modo sempre meno confusa.
Mentre mi incammino verso questa psichedelica avventura, un bambino biondo di circa quattro anni mi taglia la strada rincorso dal giovane papà. Il desiderio di una bella birra ghiacciata si frantuma di fronte ai miei occhi: davanti ad una lunghissima fila di persone volenterose di cambiare i soldi in token.
Scelgo l’atarassia e assetata corro verso il secondo stage dove Gas aka Wolfgang Voigt mette in atto la propria performance presentando il nuovo album ”Narkopop”. Progetto nato da esperimenti giovanili con l’lsd durante sessioni di autoisolamento nel parco di conifere tedesco Königsforst a Kohn. Notturno, austero, profondo, aiutato dalle riprese di fronde di alberi e giochi di luce create dai raggi del sole. ”Voglio portare la foresta nel disco o viceversa’‘ dice Voigth e devo dirvi che è riuscito molto bene nel suo intento. Il contatto con il terreno e l’odore degli alberi hanno creato un atmosfera rilassata, quasi religiosa; così attenta da vedere attorno a me solo occhi rapiti. L’aria lisergica del disco viene espressa attraverso gli ambienti sonici naturali evocati dal produttore tedesco, in una dialettica dove synth e droni non fanno altro che pulire la mente da pensieri, rendendola leggera.
Il Main Stage si tinge di un colore fumoso rosa violaceo. Gerald Donald aka Arpanet, pioniere della musica elettronica ex componente dei Drexciya, con il volto coperto da una maschera nera. Nei molti alias il filo conduttore sono la tecnologia e il concetto di Zeitgeist: lo spirito culturale che determina il sapere e la cultura di una determinata epoca, un concetto filosofico tedesco ottocentesco. Con Arpanet sembra che i due concetti si siano fusi, raccontandoci attraverso il suono la velocità di un’era che ha cambiato paradigma attraverso l’uso spasmodico dei network digitali e della tecnologia. Un set electro dai suoni analogici più puliti, pop e shi-fi di quelli a cui di solito siamo abituati. Non avevo mai ascoltato il buon Gerald sotto queste spoglie, un set sicuramente sexy, divertente e ballereccio, ma lo preferisco più nelle vesti di paranoico alchimista amante della telecinesi e del suono sporco.
Durante il cambio palco decido sia il momento di un giro perlustrativo. Mi rendo conto sin da subito delle energie e della imponente natura che mi sovrasta. Le luci, basse, bastano per percepire la bellezza della natura che mi circonda: pini, coapini e zanzare, tante. Ma gli insetti non ci fermeranno. Aurora Halal comincia la sua performance, mi spiace dirlo ma un po’ noiosa e “dritta” per i miei gusti, un set decontestualizzante senza tante emozioni e probabilmente pretese. Poi la volta di Objekt il giovane ragazzo che dell’hype ne ha fatto fortuna. Per la prima mezz’ora ha dimostrato la sua capacità nello scegliere con cura e con linearità le tracce, ma passati i primi quaranta minuti sfocia in un un set incerto techno-acid, dai beat wonky ma dal suono troppo commerciale. Una delusione, ma mentirei se vi dicessi il contrario.
Ore tre e trenta, si torna a casa un po’ delusi dagli ultimi set ma abbastanza speranzosi per la giornata successiva.
Sabato, trentasette gradi. Sofferenza e umidità tangibili e riscontrabili nei volti dei reduci ancora svegli. La foresta risvegliatasi sotto i droni e le atmosfere ambient artificiali di Dozzy appare ancora più bella. Un set di tre ore, etereo, seminale e armonico, in grado di farci dimenticare il disagio da clima tropicale, portandoci in una dimensione altra.
Sembra di stare nelle Filippine, o da qualche parte nel nord del Brasile, non si respira ma ad un tratto una dolce brezza ci conduce verso il piccolo sound system, denominato “Dummy Tent”. Vestito di arancio, il polistrumentista Laaraji intona la sua elegia accompagnandosi con dulcimer e zither. Il suono alterato del gong si intesse perfettamente con i pattern ritmici degli strumenti, creando un’armonia spirituale e cosmica trasposta in suono che rilassa il controllo della coscienza affidandolo a quello dell’immaginazione.
Finalmente Rashad Becker raggiunge Villa Arconati, i suoi strumenti erano stati persi. Chino sulle sue macchine dà vita a rumori e suoni animaleschi, come provenienti dalla fitta foresta. Un trattamento sonico dissonante, astratto e melanconico. Emergono silenziosi riferimenti a musiche lontane. Accenni di tradizioni e lamenti del Medio Oriente. Unisce e separa allo stesso tempo, quel tipo di separazione che porta all’introspezione: all’ascolto del io. Le sue narrative sonore avvolgenti e immersive disturbano, rendendo inerme e disarmato chi lo ascolta.
Un boccone al volo e si va verso il labirinto. In via di restauro e disegnato secondo disposizioni cosmiche, è qui che Susanne Ciani, con una blusa di pailletes nere, in piedi al centro del labirinto di carpini, allestito con un sistema quadrifonico, diffonde impulsi sonici in ogni angolo del labirinto. Il sole tramonta mentre la Ciani è impegnata con il suo Buchla, fatto di cavi colorati e diodi. Le onde sonore continue prodotte dalla pressione del dito divengono tensioni soniche, disegnando un universo in espansione. Un suono caldo, organico e improvvisato dove la modulazione sonora diventa un tutt’uno con la foresta e chi la abita.
Oltre alla sperimentazione artistica il Terraforma è un luogo di incontro dove limiti territoriali e culturali sembrano eliminarsi. Un festival che cerca di fornire una visione ampia della scena elettronica e non del panorama internazionale. Puoi ascoltare i Kafr con le loro sperimentazioni soniche indonesiane e libanesi, Mala con i suoi bassi Inglesi, Kiki Hitomi con il suo enka nipponico dub, oppure il set dell’artista italiana Paquita Gordon e Ece Duzgit artista turca che vive a Londra.
Questa commistione di suoni differenti provenienti da luoghi lontani creano legami indissolubili fra l’essere umano, l’arte e la natura, dando vita a performance differenti, fatte da diversi modi di approccio musicale. Insomma una dislocazione artistica territoriale che però si riunisce in un punto preciso che è il Terraforma.
Sono all’incirca le dieci e il Main Stage è avvolto in una nube rossa ecco i Kafr, il progetto indonesiano libanese dove si vede Rabih Beaini (Morphosis), Rully Shawara e Wukir Suryadi (Senyawa) impegnati in una delle performance più potenti del festival.
La voce profonda di Rully Shawara, attraverso la creazione di armoniche e vocalismi crea un effetto polifonico. Una commistione di suoni metallici limati dall’elettronica di Rabih Beaini e dal bambuwakir di Wukir Suryadi, uno strumento autocostruito e composto da corde di metallo e bamboo che rilascia suoni luciferini. Architetti del suono astratto, in grado di creare disegni cosmologici sonori fuori dal comune.
Ed e proprio dopo questo rito di iniziazione furioso e provocatorio dei Kafr che lo stage del Tropic Sound System diviene una foresta di gambe sotto la potenza dei bassi di Mala. Oltre a proporci brani come ”Changes” e ”Skeng” di The Bug, ascoltiamo ma sopratutto balliamo molte tracce del suo ultimo album ”Mirrors” uscito la scorsa estate. Pieno di influenze sud amerindie, concepito perlopiù a Cusco la città del Perù e ex capitale dell’impero Inca regno del re Atahualpa.
Ce ne andiamo contenti, ubriachi e soddisfatti ma un po’ rattristati al pensiero di essere a ridosso della fine del festival.
La domenica inizia presto con il set dei Tropic Disco Sound System e Paquita Gordon con Ece Duzgit. Il caldo sembra abbia deposto le armi, quindi dopo la solita tappa birra decido di andare a sentire John Swing e David Soleil Mon. Una dolce sorpresa per chi come me non li conosceva così bene. Giocano combinando stili e suoni lontani, passando dalla deep alla Chicago house, dalla dub al reggae. La voce calda di David Soleil Mon da propulsione e vita accompagnandosi perfettamente al grove funky-raw di John Swing. Una delle jam più sensuali del festival.
Ed eccoci davanti ad un nuovo tramonto e il techno duo Dreesvn lascia spazio a Kiki Hitomi, ultimo set annunciato in line-up. In una fusione di reggae, dub e enka anni ’50 giapponese, un patto di sangue fra Giamaica e Giappone. Una perfomance energica ed eclettica.
Uno degli elementi fondamentali del festival Terraforma è che, a differenza di quasi la totalità delle rassegne presenti in Europa, non vi sono sovrapposizioni, dando così la possibilità di assistere a tutti i set senza perdersi nessun momento del festival. Senza sbattersi per raggiungere uno stage piuttosto che un altro o imbattersi in affaticate staffette. Tre giorni di immersione totale dove la musica e l’arte non lasciano spazio alla noia.
Ed è così che, a sorpresa quando tutti pensavamo di dover tornare a casa, attraverso una soffiata scopro che Dozzy ci regalerà, ancora una volta, un altro set. Anche questa volta una performance epica che, attraverso una selezione di vinili proveniente dai primi ’90 fino ai nostri giorni, ripercorre alcune tra le sonorità più rappresentative della musica elettronica e della bass culture. Tra questi anche molti risalenti al periodo in cui Donato partecipò assieme a Riccardo Petitti e Andrea Lai ad alcuni degli esperimenti più riusciti della club culture romana. Le Rythm Metiz, Le Confort Electronique, Microhouse e infine Agatha, che visse per molti anni nello storico locale romano Brancaleone. Donato suonava per lo più trip-hop e slow house, sporadicamente il venerdì sera si concedeva alla drum’n bass, di cui il vero divulgatore è sempre stato Petitti e di cui Donato ha in dono alcuni vinili dall’archivio personale. Un set totalmente diverso dalle digressioni di droni e armonie della mattina precedente. Dagli 80 ai 180 bpm fisici. Downtempo, trip-hop, drum’n bass, techno spezzata, acida e post rave. Un set assurdo dove con una traccia hard core ha mandato in delirio i ravers incollati sotto cassa concludendo il set con la traccia degli Zerkalo “Invisible”. Ennesima conferma della sua bravura e curiosità con cui si relaziona alla musica e al suono: un approccio scientifico.
Quasi seimila persone hanno ballato, sudato, urlato, fatto l’amore al Terraforma, un festival che dell’amore appunto ne ha fatto manifesto. Si sono scambiate energie, sorrisi e parole in un momento storico in cui l’Italia sembra capitombolare verso il nulla, dove l’arte e la cultura sono messe in un angolo buio e polveroso e dove la mercificazione culturale da spazio a “poche cose, fatte male”.
In un paese dove la musica elettronica di un certo tipo e la sperimentazione è stata quasi sempre messa all’angolo dal cattivo gusto.
La direttrice fondamentale su cui muove il Terraforma invece è sicuramente quella della sperimentazione e della sostenibilità non solo ambientale ma artistica e culturale.
La musica è e deve essere una chiave di lettura del mondo, una particolare forma di conoscenza un tramite per percepire la realtà e i suoi cambiamenti socio culturali attraverso una particolare attenzione e cura nell’ascolto, che non faccia perdere la capacità critica di rielaborazione e interpretazione. Terraforma ci porta su questa strada che però ha ancora bisogno di essere tracciata e sviluppata ulteriormente.
[Pics by Michela Di Savino]