La sesta edizione di Terraforma è prossima a schiudere le porte della magnifica Villa Arconati, accogliendo i suoi ospiti per tre giorni di musica e cosmiche armonie. A raccontare un Festival quest’anno incentrato sulle tipologie e sfumature del linguaggio, sull’impegno nella sostenibilità e sul creare un cosmo parallelo in cui sintonizzarsi su frequenze interstellari, abbiamo invitato i loro curatori, Ruggero Pietromarchi e Leone Manfredini.
In una intervista di qualche mese fa, DVS1 ha lamentato la fagocitazione delle realtà di nicchia ad opera dei festival di massa, soffermandosi sulla “logica da main stage” che impoverisce le sottoculture. Terraforma non ha raggiunto ancora dimensioni gigantesche, almeno al momento, ma cresce e si estende di anno in anno: seppur ideologicamente lontano dalla commercializzazione, qual è il compromesso raggiunto per conservarne l’identità, l’anima e i valori?
R: Questo è un tema fondamentale in questa industria, in questa scena della musica elettronica ormai divenuta qualcosa di gigantesco. Dipende tutto da come si fanno le cose: dal mio punto di vista è una questione di proporzioni e di prospettive, dell’essere in grado di bilanciare l’esposizione di contenuti di nicchia che, in quanto tali, vanno preservati per la loro intimità e delicatezza, cercando però al tempo stesso di aprire gli orizzonti di un pubblico che secondo noi è giusto venga esposto alle novità, a cose sconosciute. Ci siamo posti l’obiettivo di creare un clash, di accettare la sfida del portare avanti contenuti delicati e sofisticati facendoli conoscere però ad un pubblico più ampio, che potrebbe non avere la possibilità di fare questa stessa ricerca e di imbattervisi, ma che sicuramente messo di fronte a certi suoni e stimoli ne otterrebbe per sé valore aggiunto. A Terraforma si realizza un incastro, si crea cioè l’equilibrio fra un pubblico non per forza esperto, conoscitore della proposta musicale o in generale artistica, ma che di suo ha comunque un’apertura tale per cui è curioso e volenteroso di scoprire nuovi suoni.
Dal mio punto di vista, non posso che darti ragione. La ricerca e la raffinatezza della line up contraddistinguono effettivamente il vostro lavoro, che sembra accarezzare i diversi stati d’animo dei partecipanti al Festival: li accompagnate in un viaggio emotivo, dal mattino alla notte, come a prevedere quanto di cui possano avere sonoramente bisogno, o possa meglio stimolarli. Come avviene la selezione degli act e come il bilanciamento fra di loro? Anche in termini di artisti più “elettronici” e legati alla console, rispetto ad altri più diciamo più “performativi”…
R: Questo è un altro bellissimo incastro di equilibri, che impegna ormai l’attività di tutto l’anno: un percorso che si snoda nei tre giorni come un’equazione dettata da moltissimi fattori. Da un lato, cercare di creare il percorso, dall’altro costellarlo di elementi di cui teniamo conto strutturando tale tipo di selezione – ad esempio, bilanciando un certo numero di artisti italiani, o femminili, alcuni performativi, altri più dance. E’ una grandissima ricerca che faccio che tiene conto di molteplici fattori, cercando di modellare il programma sulla linea delle ore del giorno e della notte, immedesimandomi nel pubblico e provando a pensare quale sia il suo stato emotivo in quel determinato momento della giornata e cosa vorrei ascoltare io in primis in quel momento, contesto, situazione. Calandomi insomma io nella parte, come fossi in quel luogo e in quell’istante, e mettendo insieme suoni e culture, nasce il nostro programma. Poi ci sono tante altre piccole sfide fondamentali, di provocazione, di decontestualizzazione, di acts che non ci si aspetterebbe in quell’ambiente: sono tentativi.
Vi è capitato di non essere stati capiti? Incompresi in questa scelta?
R: Certo, e me ne sono reso conto in alcune occasioni. Il primo anno la programmazione è stata abbastanza audace: ricordo che invitammo a suonare Bee Mask (Chris Madak), il venerdì notte in chiusura, cioè a seguire Voices From The Lake e un dj set di Morphosis, verso le tre del mattino. Un set di 40 minuti di musica totalmente sperimentale, droni e suoni concreti. Non è stato semplice, il pubblico è stato messo a dura prova essendo proiettato ormai sul dancefloor piuttosto che a sedersi fermo ad ascoltare qualcosa. Dal mio punto di vista, questa esibizione avrebbe dovuto proiettarti nell’iperuranio e dunque a dormire alle tende, ma è stato un tentativo, forse, per la prima edizione e per quel contesto, abbastanza tosto. Sempre il primo anno, il sabato sera abbiamo invitato a suonare Heatwick (Steven Warwick), un ragazzo che pubblica per Pan, chiedendogli di fare un extended live set di più di tre ore, un set dance ma estremamente sperimentale e giocato su sensazioni dettate dalla ripetitività incessante di una Casio ipermelodica e super mellow; tre ore dello stesso jingle in ripetizione, insomma. Chi lo ha capito è andato in brodo di giuggiole, chi no si domandava stranito cosa stesse ascoltando. Ma è stato un bel tentativo!
Il Festival assume, musicalmente, due volti: quello familiare e accogliente delle sue grandi conferme (Paquita, Ivkovic, Marco Shuttle, Dozzy), e quello dell’avanguardia, scommettendo su nomi meno noti, ma prossimi a essere riconosciuti da tutto il mondo. Siete stati trampolino di lancio per nuove scoperte? Qualcuno fra gli artisti più “freschi” ha trovato nella fiducia riposta da Terraforma una sua consacrazione?
R: Me lo auguro! Sicuramente il lavoro che cerchiamo di fare con gli artisti che invitiamo al Festival è di offrire loro la possibilità di esprimersi e farsi conoscere, ma non solo: cerchiamo di creare rapporti duraturi anche al di là del festival costruendo un percorso insieme, di successo o meno. Cerco di costruire delle legacies, interessanti per me come curatore, ma anche per l’artista e per il pubblico che se ne rende conto, perché quando un artista è messo nella condizione di lavorare bene, si nota. Ad esempio, con Plo Man il rapporto sta evolvendo e stiamo per annunciare una residenza di Plo Man al Nextones, un altro Festival che curiamo come Threes. Arriverà da Berlino con la crew della label Acting Press (sono in tre, Plo Man, Cedric e un terzo dal Canada), presentando nella location della cava per la prima volta uno show audiovisivo il sabato sera, mentre la domenica si cimenteranno in un ibrido live-djset come Acting Press Soundsystem, tutti e tre insieme. La natura del nostro rapporto, quindi, si è espansa, prendendo altre radici e ramificazioni.
Giunti al sesto anno e guardando indietro alla prima edizione, quali sono gli elementi evoluti e quali quelli conservati che avete portato con voi? Dal cambiamento della programmazione, agli obiettivi, alla visione di insieme… Se Terraforma sta diventando grande, per età, spazi e opinione pubblica favorevole, è merito immagino di un processo in cui innovate voi stessi.
R: Assolutamente. Il fattore è quello di non porsi dei limiti in quanto tali, non porsi dei dogmi da rispettare conditio sine qua non. Cercare di spingere l’asticella più in alto in base alle possibilità, mantenendosi coerenti con il proprio animo. Non dire “Non mi confronto con alcuni artisti” per partito preso. Alla base di Terraforma c’è sempre stato il concetto di non avere un headliner in quanto tale, un nome pop e di richiamo; l’anno scorso, però, l’abbiamo sfatato invitando Jeff Mills, quest’anno Laurie Anderson. Non siamo venuti meno a un credo; semplicemente, cerchiamo di evolvere e svilupparci con coerenza rispetto alla nostra idea e filosofia. Jeff Mills invitato sì, ma all’interno di una edizione molto specifica in cui si sono affrontati certi temi: stava infatti tenendo una residenza su NTS per la Nasa, e poteva quindi legarsi all’installazione di Caterina Barbieri del Planetario e al lavoro di Emanuele Marcuccio. Laurie Anderson, allo stesso modo, presenta in Italia per la prima volta “The Language of the Future”, inserendosi in un discorso avviato con Nathalie Du Pasquier. Eravamo intimoriti di rovinare l’intimità di Terraforma con Jeff Mills, perdendo la dimensione umana del Festival che ci sta molto a cuore, avendo paura di infrangerla; ma non vogliamo neppure sederci, chiudendoci in una cerchia di amici. A volte servirà fare un passo indietro, ma fermarsi non è la cosa più corretta da fare anche dal punto di vista dell’audience. Ci rendiamo conto che è un Festival, per ora, molto legato alla città di Milano (che dista 25 minuti), ma sarebbe un peccato non dare la possibilità anche ad altre persone curiose di venire a contatto con Terraforma. Sarebbe più semplice barricarsi al suo interno con tremila aficionados che ci conoscono e tornano a trovarci ogni anno (come succede al Freerotation in Inghilterra), ma anche lì ci priveremmo di una sfida, quella di farsi conoscere da un numero di persone che non ha idea di cosa facciamo. Lasciamo la porta aperta, perché noto che tanto nuovo pubblico che viene al Festival senza esserci mai stato viene contagiato dal suo zoccolo duro, la comunità di Terraforma che abbraccia i nuovi arrivati e indirizza e incanala il mood dei tre giorni in una direzione che ogni anno mi sorprende di più. Un’armonia collettiva e contagiosa.
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L’edizione 2019 è dedicata al tema del linguaggio nelle sue molteplici declinazioni: artistica, sonora, psichedelica, culturale, spirituale. Nel complesso, un linguaggio universale che ben si presta alla comprensione ad opera di utenti del Festival provenienti da tutto il mondo. Se il linguaggio è il veicolo, lo strumento di trasporto, qual è il messaggio che Terraforma si propone di trasmettere?
R: The message is the Music. Questo è sempre stato un elemento fondamentale per me, perché ci siamo detti: “Noi non parliamo soltanto di musica, noi facciamo musica”. Noi parliamo solamente attraverso la musica, cerchiamo di veicolare il meno possibile tramite parole e messaggi espliciti di cui non c’è bisogno in un mondo già troppo pieno di claim. La programmazione del Festival, infatti, per certi versi è molto asciutta: la linea curatoriale è molto precisa, sviluppandosi nei tre giorni con uno stage alla volta, una performance dopo l’altra e molto concentrata su quella che è l’esperienza musicale.
C’è nella storia di Terraforma un act rimasto nel tuo cuore? Qualcosa di indimenticabile? O quale act aspetti con maggiore trepidazione per quest’anno?
R: Rispetto al passato è veramente difficile scegliere. Parliamo del futuro: è talmente un tale incastro di cose differenti fra loro, che è complesso citarne solo una. Sicuramente il live di Sote, uscito con l’album “Parallel Persia” su Diagonal, è una delle cose che più mi ha sconvolto quest’anno e in generale questo momento concertistico del sabato sera, fra le otto e le dieci, che è sempre uno dei momenti più delicati. Sei a metà del percorso, la gente è stanca e provata da diverse ore di musica, eppure rimane uno dei momenti più magici. Lo scorso anno c’era Mohammad Mortazavi ed è stato sensazionale; quest’anno Sote presenta il disco con due musicisti tradizionali iraniani all’interno del Labirinto e dopo di lui Stargate, altro highlight cui lavoriamo da diversi anni con Lorenzo Senni e che siamo finalmente riusciti a portare. Quella fascia oraria è uno dei miei momenti preferiti della programmazione, anche quest’anno sono molto curioso! Sote è un musicista che amo da sempre, scoperto perché aveva pubblicato su Warp diversi anni fa e poi su Morphine. Sono sempre stato un grande fan della sua musica, questo ultimo disco mi sembra la perfetta sintesi tra il suo lavoro e la sua ricerca.
Cosa di Terraforma ti sorprende dopo sei edizioni? Un valore aggiunto di cui sei felice, che ti rende contento e lascia a bocca aperta in qualità di curatore e padre del Festival?
R: Il pubblico, assolutamente. Ogni anno mi trovo in mezzo alla gente e mi guardo in giro e non mi capacito. Vorrei chiedere ad ognuno da dove venga, chi è e cosa fa. Lo trovo speciale! Trovo incredibile come un progetto che usa strumenti canonici di comunicazione riesca a creare qualcosa di così magico. Abbiamo sempre avuto qualche difficoltà a parlare di Terraforma sin dal primo anno, essendo un progetto talmente variegato, sfaccettato e di complessa definizione che alla fine ci ritroviamo a dire che l’unico modo per capirlo davvero sia viverlo. Ogni volta mi stupisco di come riesca ad aggregare un tale numero di persone riuscendo ad essere strabiliante, coeso, curioso, armonioso, interessante.
Parlando di sostenibilità, trascorriamo qualche momento con Leone.
Terraforma si presenta dal titolo incentrato sul pilastro della sostenibilità: una dichiarazione d’intenti per la quale avete posto le basi dal principio, sei anni fa, ben prima che il dibattito divenisse caldo nelle piazze. Avete anticipato i tempi per quella che, da comune civiltà per l’ambiente, è diventata oggi un’urgenza e un tema sull’agenda di moltissimi – anche di insospettabili. Immaginavate che l’impegno speso per questa causa vi avrebbe distinto fra tutti e caratterizzati a tal punto?
L: Abbiamo sempre intrapreso il discorso sulla sostenibilità non tanto come progetto volto a portare a casa risultati specifici, ma come filosofia, approccio, modus operandi da adottare per poi trasformarlo in azioni. L’obiettivo è pensare a come fare le cose e farle nel modo più rispettoso verso la natura, le risorse, lo spazio in cui ci inseriamo. Inizialmente questo approccio non era così evidente nei singoli progetti, ma nel lungo periodo in modo graduale se ne sono tutti accorti sempre più; questo mi stimola molto, e vedo che il nostro pubblico si rende conto dei nostri sforzi e si mette in gioco in un momento come un festival che sarebbe (ed è) di svago, divertendosi con coscienza.
Quali sono dei punti di forza, obiettivi cui un Festival come Terraforma si promette di restare fedele per confermarsi “sostenibile”?
L: Uno dei valori più importanti in ogni progetto è quello di mettersi sempre in discussione: c’è sempre qualcosa che si può migliorare, qualcosa su cui fare luce, principio che io applico a tutto per migliorarsi. Un altro è l’essere curiosi, guardare fuori dalla propria porta e cogliere le critiche del pubblico o del proprio staff, costruttivamente traendone spunto per migliorie. Mi piace molto andare in giro per il Festival ascoltando qualche critica! Diverse accelerazioni su determinati temi le abbiamo avute perché ci hanno fatto notare dei limiti, delle problematiche.
Rispetto alle passate edizioni, quest’anno il valore aggiunto di Terraforma in tema di sostenibilità, oltre ad azioni concrete, si riflette nel lancio di un “Bilancio di Sostenibilità”, documento ordinariamente pubblicato dalle società quotate. Scelta particolare per un festival.
L: In realtà è strano per l’Italia! Avendo questa idea in mente, e facendo ricerche in merito ai festival in vari paesi – anche non musicali – ho scoperto che fosse una pratica avviata altrove in modo determinante. Una bella sfida, prendendo spunto da documenti tipici delle società per azioni, ma con lo spirito di Terraforma, promuovendo un’idea e un approccio, da non raccontare solo nelle parole, ma legando dei fatti e delle misurazioni. Non lo faremo anno dopo anno, ma solo quando avremo nuovi progetti da implementare. Stiamo collaborando con A Greener Festival, associazione olandese che aiuta a misurare le criticità e a valutare aspetti di sostenibilità: sono stati ospiti lo scorso anno e lo saranno anche questo. Trovo importante non auto-dichiarare delle cose, ma disporre di una fotografia oggettiva e realistica anche confermata esternamente.
Villa Arconati è la splendida cornice che accoglie l’evento: con la vostra opera, avete creato una evoluzione moderna di un capolavoro seicentesco. Mi riferisco al labirinto di siepi al suo interno, che lo scorso anno ha accolto alcune performance, o al parco architettonico. Quest’anno, introducete il Kioske à Musique, in una commistione di arti visive, sonore e architettoniche.
L: Una delle cose che ci piace e in cui crediamo di più è il contrasto fra tradizione e modernità, ci piace portare nel contesto italiano qualcosa di fresco, innovativo e sperimentale non solo in ambito musicale, ma come filosofia in un luogo che è parte della storia nazionale. Se il contrasto funziona, è molto potente e ci interessa molto. Il Kioske à Musique, ad esempio, è un elemento cui teniamo molto, un riscontro della sostenibilità che promuoviamo in quanto amplificato grazie a pannelli solari: è il progetto specifico di un allestimento in cui proviamo a veicolare tante cose. La tradizione dei chioschi in cui si esibivano le bande del Novecento, la sostenibilità, la musica e la sperimentazione. Prendiamo i nostri valori, li fondiamo insieme e diamo luce a un nuovo momento e area del Festival. Una nuova scommessa.
(Villa Arconati domina sullo sfondo; continua sotto)
Dedicando il tema di quest’anno al linguaggio, Terraforma si conferma angolo di dialogo non soltanto musicale: diverse le attività collaterali che circondano il Festival come momento di scambio, di energie (l’angolo dello yoga lo scorso anno è stato uno dei più affollati), e intellettuale, tra talk e letture. Puoi raccontarci?
L: Quest’anno proviamo per la prima volta ad approcciare tematiche che vadano al di là della musica, lo faremo ad esempio con Stefano Mancuso che è per noi molto stimolante: parla di natura, ma anche del linguaggio con cui la natura comunica e gli alberi parlano fra loro. Un percorso che vorremmo intraprendere in questa direzione, che abbiamo avviato con il Labirinto facendo noi opere di riqualifica e di ripiantumazione ed ora indagando sul linguaggio delle piante e il loro mondo, provando insomma ad “offrire” qualcosa e non solo ad essere ospiti del parco. Ci sono attività varie, talk, sessioni di yoga, sino alla stessa dimensione del campeggio: il percorso musicale ci piace sia accompagnato da un’esperienza di totale immersione in una comunità, lontana dalla maggior parte dei festival dove la centralità della persona, dello spettatore potrebbe mancare in favore di altre componenti. Per noi l’esperienza è tutto: immedesimandoci nello spettatore e chiedendoci quali potrebbero essere le attività che tengano fra loro un fil rouge e possano permettere alla persona di trascorrere tre giorni in una Villa avendo tutto quello che più desidera in quel momento, rimanendo cosciente e con la mente accesa. Tutto serve a svegliare, non ad anestetizzare! Chi viene per la prima volta, scopre un universo che non percepiva: questa dimensione è per noi uno dei maggiori valori, quando qualcuno va via da Terraforma e dentro tiene impresso il festival e quello che ha provato partecipandovi, consapevole di aver vissuto qualcosa di nuovo. Non c’è mai un punto di arrivo, ogni risultato è un punto di partenza, un motore, anche nel tema della sostenibilità: mi tiene stimolato a guardare al domani nel mio lavoro. E nella mia vita.