“I’m retired after 20 years of making music. Thank you” (“Mi ritiro dopo vent’anni di attività nella musica. Grazie”). Così esordisce, uno stato lapidario, pubblicato dal profilo Facebook, lo scorso 12 Aprile, di uno dei nomi di Detroit che da sempre ha rifiutato il compromesso della notorietà, suo malgrado. Ambasciatore fino al midollo dell’imperativo “keep it underground”, il producer in questione è Terrence Dixon, parte di quella seconda generazione di artisti ma rimasto, per la maggiore, al riparo dai riflettori (al contrario dei colleghi Jeff Mills, Robert Hood e Carl Craig), con l’eccezione di qualche sporadica apparizione come il live show di NYC per Boiler Room.
In due decadi di musica, l’eredità che ci tramanda è ricca di spunti e sorprese destinate a diventare veri e propri classici del genere. Basta pensare al suo primo album sotto l’alias Population One, “Unknown Black Shapes”, un innesto scuro e confuso di sonorità analogiche, seguito da “From The Far Future”, un undici tracce dove passato, presente e futuro vengono sublimati in un’unica entità indipendente da qualsivoglia schema sonoro convenzionale. Passando per il 12” “Room 310”, dove tocca derive jazz con i mix di Upperground Orchestra, quello di Terrence Dixon, costituisce un viaggio cosmico che prosegue con “From The Far Future Pt.2”, più flessibile del primo e contaminato da altri stili. Infine, aveva da poco rilasciato la sua ultima fatica, “Badge Of Honor”, dove in forma splendida, esplorava il lato più tribale e duro della techno senza dimenticare l’approccio sperimentale. Paradossalmente, quest’ultimo LP avrebbe potuto rappresentare uno spiraglio di luce, la conquista di un meritato posto in superficie tra la rosa dei produttori della Motown. Come non detto.