Il duo newyorkese The Hundred in The Hands ha da poco pubblicato “Love in the Black Stack”, loro terzo album che arriva dopo un silenzio di quasi cinque anni. Fin dal primo ascolto ci siamo accorti del potenziale di questo lavoro che, finalmente, colloca Eleanore e Jason in un punto preciso del mercato musicale. Diciamo questo perché nei loro precedenti lavori il voler far un po’ di tutto non aveva pagato granché: il potenziale c’era, ma non veniva sfruttato. Il consiglio che possiamo darvi è di mettervi comodi e di concedervi cinque minuti di massima attenzione. Perché no, non è stata la solita intervista pre-assemblata, con la risposte date col pilota automatico.
“Love in the Black Stack” è il vostro terzo album ed è il primo per la vostra nuova label New Ancestors. Dopo cinque anni di silenzio tutto questo sembra essere come un nuovo inizio, è così?
Gia, è proprio così, come se ci fossimo ripresi dopo un periodo d’ibernazione. Dopo aver pubblicato “Red Night” siamo stati in tour per molto tempo, eravamo davvero esausti. Ci sentivamo usurati emotivamente e stanchi nel rapporto tra noi e il music business, avevamo bisogno di un periodo di pausa, di chiarire le idee. Pensavamo di essere finiti, devo ammetterlo. Il tempo libero ci ha dato l’opportunità di approfondire altre forme d’arte che da sempre ci interessavano. Eleanore ha studiato architettura e interior design, mentre io ho realizzato installazioni e dipinti. Parallelamente ho avuto modo di creare contenuti per la nostra New Ancestors intervistando Ari Russo per il suo EP, ho scritto delle novelle e ho avviato collaborazioni con Zander Blom, Alexander Taylor e Nadine Goepfert. Tutto questo ci ha aiutato a sviluppare nuove idee per la nostra musica e pian piano, nel tempo libero, siamo tornati in studio, è stata una sensazione fantastica. Eravamo nuovamente connessi tra noi e con i nostri fans, è stato l’inizio di una nuova fase produttiva. Non vogliamo aspettare altri cinque anni, e per questo stiamo già lavorando a qualcosa di nuovo.
Avete dichiarato che le vostre ultime produzioni sono state ispirate dal “catastrofico presente”. Il vostro punto di vista riguardo il presente è davvero così negativo?
Certamente non possiamo paragonare l’occidente attuale a quello del 1945 però continuiamo a mascherare e sottovalutare l’insostenibilità generale del nostro mondo, sia dal punto di vista climatico che infrastrutturale, creata da quarant’anni di politiche economiche neo liberiste, senza parlare dei conflitti in Medio Oriente. Molte di queste problematiche si sono sviluppate in maniera silente e solo adesso ci rendiamo conto di cosa significano per il nostro pianeta. Qui negli Stati Uniti c’è un terrificante aumento delle tendenze neo-reazionarie autoritarie da una parte e, dall’altra, del potere economico e politico crescente – non completamente correlato – accumulato dalle corporazioni della Silicon Valley e da altri misteriosi “leader del pensiero”. Ci sono molti artisti che affrontano il problema, mi vengono in mente le poesie di Claudia Rankin o le sonorità cupe di Chino Amobi, noi con la nostra musica cerchiamo d’individuare il nostro ruolo in questo sistema. Il titolo dell’album, “Love in the Black Stack”, è stato ispirato da Benjamin H. Bratton e dalla sua idea riguardo la “Stack” in cui definisce le crescenti mega-strutture computazionali su scala planetaria che sfidano e approfondiscono le relazioni geo-bio politiche. Dal suo punto di vista noi ci muoviamo verticalmente attraverso sei strati (Terra, Cloud, Città, Indirizzo, Interfaccia, Utente) che controllano e influenzano le nostre vite. Una lettura del nostro mondo davvero interessante; in tutto ciò che ruolo ha l’affetto umano, noi stessi o le nostre comunità? Non dovrebbero essere anch’essi elementi influenti della nostra vita? Se si esaminano i parametri che regolano Spotify o Instagram, troviamo tutti questi modi di quantificare le entità che sembrano dire qualcosa di significativo ma, in realtà, descrivono solo la propria capacità di contare determinate azioni, sono prive di significato. Creano un senso di certezza e un’impressione riduttiva della realtà che è molto difficile da smontare. Ovviamente non prendono in considerazione tutti gli aspetti vitali della nostra esistenza. Ci siamo immaginati questi aspetti non quantificabili come delle griglie irregolari riflettendo su come l’assenza, l’ansia, il romanticismo, la comunità, l’incomprensione e la nostalgia reagiscono e rispondono agli spazi tattili e metafisici ancora non governati da quelle mega-strutture computazionali.
L’album è stato creato attingendo da vecchi memo vocali e diverse musicassette, attingendo a pieno dalle vostre esperienze di vita. Che ruolo ha avuto la memoria in tutto questo?
La memoria è un elemento che ha ispirato gran parte dei nostri testi: il recupero, la dislocazione, la sua assenza e il come si ripercuote nel presente. Abbiamo indistintamente preso spunto da memorie personali riguardanti le nostre vite, la nostra città New York e da memorie storiche correlate al nostro pensiero riguardo alcuni aspetti negativi del tecno-utopismo/evangelismo, della gentrificazione e del neoliberismo. L’utilizzo di memo vocali è stato interessante: sono come cartoline digitali che prendono vita nel nostro mondo e uniscono la fisicità di un oggetto alla impalpabilità del mondo digitale; stesso discorso per le musicassette. L’utilizzo di questi materiali mi ha permesso di recuperare demo e registrazioni live di una ventina di anni fa, dove sono ben impresse le mie intenzioni iniziali. Un approccio personale che ha decisamente influenzato la produzione e la scrittura dell’album. Unendo il mio passato a quello di Eleanore abbiamo creato qualcosa di nuovo nel presente. Ho utilizzato delle registrazioni di fine anni ’90 realizzate in Sud Africa nella traccia “Under the Long Swell” per crearne l’intro. Sono nato li, ma sono cresciuto altrove; quando ho avuto l’opportunità di tornarci i suoni e le atmosfere mi hanno davvero impressionato, per questo ho deciso di registrarli. Ora la cassetta in sé è un oggetto che rappresenta la mia memoria, riascoltandola riaffiorano ricordi come l’avvento tecnologico o l’ottimismo di quelle terre post-apartheid. Questa contrapposizione tra la consapevolezza intellettuale dei contesti più grandi e le nostre esperienze personali sono alla base di quest’album.
Avete prodotto l’album con il supporto in studio dei The Rapture, una esperienza tutta nuova per voi. Com’è andata?
Si, Vito e Gabe sono due dei nostri migliori amici. La mia vecchia band, The Boggs, ha affrontato dei tour con loro e io ho diretto il video di “Sister Saviour”. Abbiamo sempre fatto affidamento su di loro per feedback o consigli, finalmente abbiamo avuto l’opportunità di lavorarci a stretto contatto. Abbiamo lavorato in maniera simile anche nelle nostre prime produzioni: preparavamo le tracce e poi producer come Richard X, Chris Zane ed Eric Broucek finalizzavano il tutto. In questo caso siamo andati oltre, in studio ci siamo spogliati del nostro ego, delle nostre convinzioni per cercare qualcosa a cui non avevamo mai pensato. Pezzi come “Red Eyes Rising” sono stati smontati e ricostruiti completamente mentre in “Felt A Love” le sonorità sono cambiate drasticamente in fase di produzione. Vito e Gabe hanno prima compreso e poi aggiunto sofisticando tutto il processo produttivo. Rispetto ai precedenti album questo è stato pensato sin dal inizio come una traccia unica e non come un agglomerato di tracce casuali. Per questo dopo aver lasciato lo studio abbiamo aggiunto intro e outro per legare al meglio tutto il lavoro.
Come già anticipato questo è il primo album per la vostra nuova label New Ancestors. Vi siete sentiti più liberi in fase di produzione, nei testi, nelle tempistiche, nelle sonorità?
Dai, anche con Warp abbiamo sempre avuto massima libertà. Volevamo soltanto qualcosa in più, che ci permettesse di raggruppare più forme artistiche, di lavorare a diversi progetti senza rincorrere e rispettare le scadenze imposte dal business. Oltre che una label, New Ancestors è anche un magazine dove raccontiamo di collaborazioni tra artisti, pubblichiamo interviste e predichiamo la “slow culture” così da dedicare a ogni cosa il giusto spazio, tempo. Forse l’avrai capito, ma siamo molto critici rispetto alle attuali modalità di fruizione musicale. Questa ideologia del mercato libero alla Ayn Randian che coinvolge multinazionali quali Spotify o Amazon non ci convince. Ormai ci sembra tutto normale, ma questa idea in cui possiamo essere tutti imprenditori (anche fuori dal music business, penso a Uber o Lyft) in cui la logica infallibile del mercato produrrà meritocrazia e compensi è dimostrabilmente falsa. Tutto questo ha creato un indebolimento dei “solidarity networks” a favore di un mondo in cui viene ricompensato soltanto ciò che è facilmente accessibile e quantificabile. Da qualsiasi punto di vista l’idea utopica della “lunga coda” applicata alle piattaforme digitali si è dimostrata errata. Qualche giorno fa ascoltavamo in podcast “Il grande Gatsby”. Ovviamente oggi è considerato il racconto “definitivo” dell’era jazz ma ai tempi venne bistrattato sia dal pubblico che dalla critica. Voglio farti notare come la cultura, il popolo non voleva riconoscersi in quel libro. Oggi abbiamo una situazione simile: l’arte che non è conforme al mondo in cui viviamo viene bistrattata e scoraggiata. Questo non vuol dire che non ci siano artisti che rischiano e vanno controcorrente, penso a Jlin e Holly Herndon che davvero cercano di spingersi oltre i confini sicuri. Ci sono molti artisti che cercano di creare qualcosa che il grande pubblico oggi non riesce a capire e, per farlo, cercano supporto istituzionale che li schermi dalle forze di mercato. Questo dovrebbe essere oggi il lavoro di una label. Farsi forza dei numeri, del successo di un artista campione (pur restando spesso in perdita) e spiegare quanto sia importante difendere il suo operato anche se impopolare. Fantastico è il modo in cui alcuni riescono oggi a finanziarsi grazie ai fan, nella maggior parte dei casi questo succede soltanto a chi propone qualcosa di già visto, di già sentito che non sia troppo distaccato da quello che già “funziona”. Ovviamente noi non abbiamo la soluzione a queste problematiche, cerchiamo soltanto di dare spazio a chi è più introverso, a chi ha materiale valido da proporre.
Ok, adesso abbiamo molte informazioni riguardo l’album e la vostra visione globale ma vogliamo spiegare chi sono Eleanore e Jason. Perché producono musica, perché insieme?
Inizio con il dirti che durante il nostro periodo “off” ci siamo sposati. Abbiamo iniziato lavorando insieme come collaboratori e man mano il rapporto si è intensificato. Penso che la sfera sentimentale ci abbia aiutato parecchio, non so se senza di essa saremmo stati in grado di lavorare insieme. Il modo in cui facciamo le cose insieme ci porta a litigare spesso: seppur simili siamo fortemente indipendenti e nessuno dei due cede facilmente. Odio davvero le discussioni che abbiamo, ma credo anche che in alcuni casi ne abbiamo avuto bisogno entrambi. Ci obbligano a sfidare le nostre proprie convinzioni e a spingerci fuori dalla nostra comfort zone. Da Eleanore ho imparato molte cose riguardo il mondo della musica, ho iniziato ad ascoltarla in un modo diverso e lei continua giorno dopo giorno ad ampliare il mio punto di vista riguardo l’arte in genere. Entrambi scriviamo i testi delle nostre canzoni, li integriamo confrontandoci e sistematicamente il risultato è migliore, in ogni traccia riconosco una parte di me, di lei e di noi.
Ascoltando cronologicamente i vostri tre album è facile individuare molti punti in comune e un’evoluzione costante come contenuti e sonorità. Release dopo release il vostro lato pop (avant-pop/synth-pop) è scomparso lasciando spazio a sonorità electro, indie e ambient.
Credo che ognuno dei nostri lavori sia stato influenzato da quello che stava accadendo nelle nostre vite. Quando abbiamo pubblicato il nostro primo EP “This Desert” eravamo eccitatissimi per quello che ci stava succedendo e tutto era molto “poptimistico”, non solo per noi ma per la musica in genere. Abbiamo pensato di sperimentare producendo qualcosa di nostro che rispecchiasse le nostre influenze e tutta la musica che avevamo amato fino a quel momento. Dovevamo imparare come fare musica e come sfruttare al meglio le opportunità di collaborare con ottimi artisti come Jacques Renault. Durante la produzione di “Red Night”, invece, ci trovavamo in una situazione perfettamente opposta: eravamo in un bunker, letteralmente e metaforicamente parlando. Avevamo due anni di tour sulle spalle e tentavamo di nasconderci dal resto del mondo, nel nostro studio. Un periodo freddo, una piccola stufa riscaldava lo studio mentre nulla riusciva a riscaldare il rapporto tra me ed Eleanore. Per tutti questi motivi è stato un disco pesante da realizzare che raccontava a pieno le nostre personalità e difficoltà. Tutto questo ci ha portato a produrre il nostro ultimo album con la consapevolezza che luoghi e stati d’animo ne avrebbero influenzato il risultato. Prima e durante la realizzazione ho ascoltato molta elettronica sperimentale e jazz, da Archie Shepp ad Albert Ayler e ho scoperto un album del 1969 Ghetto Music di Eddie Gale di cui mi sono innamorato. Abbiamo prodotto l’album in un’atmosfera eterea, questo ci ha allontanato dalla classica struttura produttiva pop, strofa/ritornello e ci ha fatto scoprire nuovi modi di lavorare insieme. Attualmente stiamo già lavorando, in uno spazio nuovo con nuove sensazioni e ispirazioni e quello che sta venendo fuori ha le stesse sonorità del nostro EP di debutto.
Avete pianificato qualche video clip per “Love in the Black Stack” o avete investito tutte le risorse nella virtual album cover?
Si, stiamo registrando adesso uno short movie che sarà il video clip di “Red Eyes Rising” e “Pale Moon Out”, speriamo di pubblicarlo al più presto. È stato divertente lavorare al progetto della virtual album cover, spero che sia stata apprezzata anche dal pubblico. C’è questo aspetto techno-utopico, transumanistico che crede nella singolarità tecnologica, che ci vede vivere in una simulazione blah, blah… che è un punto di vista fin troppo religioso del discorso. Parte del linguaggio visivo della cover gioca, in realtà, con la semantica dell’occulto: le lune, i diagrammi criptici e il codice esadecimale. Il linguaggio dell’occulto poi ben si collega al discorso che affrontavamo prima riguardo la dislocazione e l’incomprensione. Tutte queste idee sono diventate una specie di gioco per rappresentare la metafisica dell’ordinario, per guidare l’utente verso la scoperta del suo significato e riuscire a dargli un senso.
“Keep It Low”, una traccia del vostro secondo album è stata scelta come colonna sonora della serie tv “The Originals”. Che rapporto avete con il cinema, il teatro o la letteratura. Sono fonte d’ispirazione per voi?
Certamente, guardiamo moltissimi film spesso traiamo spunti e idee da essi. Il mio film preferito di tutti i tempi è “L’Atalante” di Jean Vigo. Pensa che nel nostro primo viaggio insieme, un mese e mezzo di tour attraverso gli Stati Uniti, io ed Eleanore abbiamo passato la maggior parte del tempo nel van guardando film di Buster Keaton. Spesso mi diverto a immaginare i nostri brani come colonne sonore di film o documentari e proprio per questo il progetto di cui ti parlavo prima, lo short movie per “Red Eyes” e “Pale Moon”, è stato ispirato dai testi dei brani nati parlando del film “Born In Flames” di Lizzie Borden. Cerchiamo di frequentare il più possibile le gallerie d’arte di New York, ci piacciono le opere di Janet Cardiff. Mentre registravamo l’album abbiamo avuto modo di visitare esposizioni di El Anatsui, Mark Bradford e Sarah Sze e una installazione a cura di Jason Moran che ho appena intervistato per il nostro magazine. Devo citare anche un’ottima retrospettiva di Jim Shaw al New Museum of Contemporary Art. Altri artisti che hanno influenzato positivamente “Love in the Black Stack” sono Ben Lerner, le poesie di Terrence Hayes, le opere di Octavia Butler e Alexandra Kleeman. Mentre Alasdair Gray, Samuel Beckett, David Markson e Raymond Queneau sono da sempre i miei personali punti di riferimento.
State pianificando un nuovo tour? Vi piace l’atmosfera del live, che rapporto avete con il palco e con il vostro pubblico?
A entrambi piace suonare live e ci manca quella sensazione, specialmente a Eleanore. Questo album è nato prevalentemente come uno studio project; sin dall’inizio l’abbiamo immaginato come una colonna sonora per grandi installazioni e performance artistiche. Sarebbe fantastico suonarlo dal vivo in uno di questi eventi quindi, se ci sono gallerie o artisti europei interessati beh, fatevi pure avanti.
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“Love in the Black Stack” is your third album and is the first on your own label New Ancestors. After five years of silence this looks like a rebirth, a new beginning for the The Hundred In The Hands, it’s true?
Yes, it’s true! It feels like we’re coming out of hibernation.
After the touring cycle for “Red Night” we were really worn out; worn out emotionally and worn out with the music business. To be honest, we were struggling, and needed to sort of pull up and get clear. When we walked away, we kind of thought we were done.
The time off gave us a chance to re-focus on other things as artists. We both spent the period getting back into visual art practices. Eleanore was studying interior architecture and design and I was working on installation art and painting. I also began interviewing artists for New Ancestors, released EP’s by Ari Russo and novellus, my own collaboration with the South African painter Zander Blom, a web-art collaboration called HeapCuts.com with the digital artist Alexander Taylor and a few other projects like a clothing line that I produced with textile designer Nadine Goepfert that will be released this fall.
Then, little by little, we were working on these scraps on our own and felt our way back into the studio to work together and the album then developed around a whole lot of these ideas we had during the time off. It’s been really great pulling it together and reconnecting with fans and it does feel like closure and the beginning of a new stage. We’re already working on new things… it’s definitely not going to be another five years before the next one!
Your latest productions have been inspired by the “catastrophic present”. Your vision of the world where we live in is really that bad?
Well, here in the West, it’s certainly not at all as bad as say, 1945. But, that privilege of place masks fractured and unsustainable realities including looming environmental collapse, massive structural inequalities imbedded in forty years of neoliberal economic policies and, of course, more than fifteen years of devastating foreign wars in the Middle East.
Many of these destructive forces have been developing below the surface for a long time and are only now starting to become visible. Here in the States, there is this terrifying rise of neo-reactionary and authoritarian tendencies on one hand and the – not entirely un-related – growing economic and political power being amassed by corporations in Silicon Valley and by other mystical libertarian “thought leaders”. There is a lot of great art made that is confrontational and takes some of these forces head-on – the poetry of Claudia Rankin and the fractured and violent soundscapes of Chino Amobi come to mind – but, ours is a more damaged response; more us trying to get a sense of ourselves within this cataclysmic setting.
The album is named loosely after the work of theorist Benjamin H. Bratton. Bratton’s idea of the Stack defines the growing planetary-scale computational mega-structures that both challenge and deepen geo/bio political relations. As he sees it, we yo-yo vertically through six stratum (Earth, Cloud, City, Address, Interface and User) by which transnational cloud platforms, rare-earth mineral supply-chains, smart-city infrastructures, subterranean power-grids etc. are all exercising control and power over our lives. This is interesting as a framework but what happens to something as basic as human affection within these structures and what happens to the bits of us and our communities that are not, can’t or shouldn’t be under their observations and control?
If you look at the metrics that govern Spotify or Instagram, you see all these ways of quantifying things that seem to say something significant but really only describe their own ability to count certain limited actions and are fairly meaningless. They create a sense of certainty and a reductive and self-reinforcing impression of reality that is very difficult to unseat. They obviously don’t take into account all kinds of vital aspects of our experience. We thought of these spaces between the quantifiable parts as slipped grids and we were thinking about how absence, anxiety, romance, community, incomprehension and nostalgia react and respond to the tactile and metaphysical spaces that are still ungoverned by those computational mega-structures. To think of how love exists in the Black Stack, is both to acknowledge the impenetrability of the Stack and also to go searching for these slippages and connections that still exist in the void between the nodes.
The album was made with some old material like cassettes and voice-memos?
One of the big lyrical arcs moving across the record relates to memory: the reclamation and dislocation of memory, its absence and its connection to the present. Both as a personal narrative – as in Eleanore and my life together or our memories of New York, which has changed so dramatically – and as something more expansive that relates to our thinking about the more negative forces of techno-utopianism/evangelism, gentrification and neoliberalism I’ve mentioned.
What I found interesting about using these physical objects and scraps of digital ephemera is both how they exist outside of that infrastructure – as with the cassettes – and within it, as with the voice memos recorded on our phones. And in using some of these materials, for me, this becomes both literal and figurative. Most of these cassette tapes that were made as demos and field recordings, for instance, are around twenty-years old and so, there is my very real connection to whatever my original intention was and the physical degradation that the tape records incidentally, marking the passage of time like the rings of a tree. That is all a specific and very personal look at my own past but then it becomes shaped into something that has it’s own lyrical or emotional arc across the whole album, intersects with Eleanore’s material and her reaction to what I’ve made and it’s all then manipulated ending up another thing entirely.
Many of these details are abstract. There are moments of “empty space” throughout the record made from tape hiss and on “Under the Long Swell” for example, there are scraps of street noise I recorded in South Africa in the late 90’s. I was born there but left when I was young and even then, going back was like entering a memory. All the smells and sounds hit me really deeply and I walked around recording things on this cheap tape-machine. And now the cassette tape is itself an object of memory, partly obsolete, and its impossible for me to encounter any of these layers without also thinking about the technology, the aspirational era of the neoliberal “end of history” and the post-Apartheid optimism that was around at the time. This tension between an intellectual awareness of larger contexts and the unknowable, incommunicable and ephemeral parts of subjective and collective experience is one of the major themes of the album.
And the album was produced with the support of The Rapture. This is a new studio approach for you?
Yeah. Vito and Gabe are some of our very best friends. My old band, The Boggs used to tour with them and I directed their video for “Sister Saviour”. They are two people we have always relied on for input and feedback. I’m so glad we finally got a chance to work together like this.
We did do a similar thing on our first records in which we developed the songs extensively on our own and then got with various producers, Richard X, Chris Zane and Eric Broucek to push them the rest of the way. I think we went even further than that this time around. A lot of what went on in the studio was like stripping our egos and affections down to search for something we hadn’t thought of. Some of the songs, like “Red Eyes Rising”, were really broken open and rebuilt and others, like “Felt A Love”, were more about widening them sonically and looking for those finishing touches. In both cases, Gabe and Vito brought so much understanding, musicality and sophistication to the process.
Something that was different this time around was that from the beginning we really thought of it a singular piece rather than a series of tracks. After we left Gabe and Vito’s studio, we went back through things on our own, edited it down, worked on some additional material, and reworked some of the intros and transitions thinking of the album as a whole.
So, we already say New Ancestors is your own label. That help to do all you really want without restriction? I’m talking about sounds, lyrics, time needed for production and other else.
Well, Warp always gave us a lot freedom and time so it wasn’t that exactly. But, we did want to set up something that would allow us to work on different projects and to do so on a timetable that is different from the immediacy of the music industry and the attention economy. Besides being a label, we also print a newsprint New Ancestors journal that focuses on fostering collaborations between artists as well as publishing interviews and essays predicated on an idea of slow culture and allowing things to find their own space.
You probably can guess but, we’re very critical of the structures behind the way music is consumed now. There is a deeply Ayn Randian free-market ideology underpinning the way corporations like Amazon and digital platforms like Spotify are designed. These are ideas with a long history and an ideology that is so deeply internalized by all of us that it’s hard to even recognize. This idea that – whether we are Uber/Lyft drivers or musicians – we can all be entrepreneurs and that the infallible logic of the market will produce a meritocracy in which the good is rewarded, this is demonstrably false. But, it is foundational to the way the Valley is built going back to at least the early 1970’s. What it has really meant has been an erosion of solidarity-networks and an environment that primarily rewards the immediately accessible and easily quantifiable. By almost any meaningful metric however, the utopian idea of the long tail and that digital platforms will support a diverse economy has proven to be a fallacy.
The other day we were listening to a podcast about The Great Gatsby. Of course, it’s now the definitive chronicle of the Jazz-Age but when it was first published it was largely savaged or disregarded by the press and public. I think it’s worth noting that the zeitgeist didn’t see itself in that book, or maybe didn’t want to see itself. We have an environment now that is very unforgiving to art that doesn’t conform to the moment and to the zeitgeist’s sense of itself.
That’s not to say that there aren’t great things, challenging things, being made that reflect the times, because there most certainly are, and there are artists like Jlin and Holly Herndon that are truly pushing boundaries. But there is also a lot of art that is trying to say something else, something we maybe can’t recognize yet, and that art is now struggling to find the kind of institutional support that can shield it from market forces. This is what great record labels did. There was strength in numbers and they could use the success of one artist to champion – often taking a loss – to defend work they believed was vital if unpopular. It’s great that certain artists are now able to thrive with direct support via crowd-funding and the like but, what ultimately gets rewarded are the things that we already know we like and it’s hard to see how this helps artists who don’t have an obvious fan base or are making complex, uncomfortable work. We don’t have answers to any of this, but we felt it was important, and more reflective of who we are as artists, to try and make something that was maybe a bit more introverted and could exist in its own space.
Ok now we have some info about the album but we have to explain to our audience who are Eleanore and Jason, why they do music and why together?
Well, another thing that happened during our time-off is that we got married! When we first met we were working collaborators but there is this other side of our relationship that is much more personal. It’s good that we have that affection for one another because, to be honest, I don’t know if we would be able to work together otherwise. It’s really contentious the way we make stuff. In so many ways we’re very much alike, but we are also fiercely independent and neither of us backs down very easily. I truly hate the arguments we get into but, I also think we both have at times maybe needed that fight. It forces us to challenge our own assumptions and get us out of our comfort zones. I have learned so much about how music works from Eleanore. I hear things in ways I never did before and she is constantly teaching me new ways to think about art and music. We both write lyrics and bring in tracks that the other works on and the final piece is almost always something better than what we would have done on our own. At the same time, I think we are still able to make things that retain our individual voice.
Listening consecutively to your albums, from the oldest to the latest, it’s easy to find some common points and it’s easy to identify a growth. Release by release the pop-side (avant-pop / synth-pop) gone and more electro, indie and ambient come. Is your evolution?
I think all our records are very reflective of things that are going on in our lives. That period when we released the first album and the This Desert EP, we were really excited by everything! It was a very poptimistic time not just for us, but I think generally. It really felt like a challenge to try and understand how pop music worked, in this way, it was properly experimental for us and we were digesting all these classic albums we loved and filtering it through how much we were learning about how to make music and collaborating with all these great people like Jacques Renault. By Red Night we were in a really different place. We were kind of in a bunker, literally and metaphorically. We had basically been on tour for two years and were then hiding away from the world in our studio. It was really cold in there, Eleanore was huddled next to the space-heater, I was often there working really long late at night and at the same time we were going through some hard personal things and our relationship was splintering. It’s a heavy record in that sense but it’s also much more personal and I think you can hear us trying to work through it.
For all the reasons I mentioned, I think this new record is really reflective of where we were while making it and the emotions and ideas we were thinking about. I wasn’t feeling the guitar so much. I was listening to a lot of experimental electronic music and free jazz, Archie Shepp and Albert Ayler. I got really infatuated with a record from 1969 by Eddie Gale called Ghetto Music. We were in a more heady space and all of that led us in ways that meant stripping the pop form, avoiding verse/chorus structures and looking for new ways to work together in the studio. But, I think already, we are in a different place and the kinds of things we have started now are going to be different and in some ways, might feel like they have more in common with the first EP.
Do you have video clips project for some tracks of “Love in the Black Stack” or you’ve preferred to focus your resources for the virtual album cover?
Yes, we are actually cutting a little film that stretches over Red Eyes Rising and Pale Moon Out and will release that soon.
Thank you, the virtual album cover has been fun to make, I hope people check it out. There’s this aspect to the techno-utopianism – transhumanism, belief in the Singuarity, living in a simulation blah, blah – that is really occultist and religious, not even quasi-religious but just straight up religious. Part of the visual language in the cover is playing with the semantics of the occult – the moons and cryptic diagrams etc. and the hex-code cover and poem that extends through this album. The occult language also relates to ideas of dislocation and incomprehension that I was talking about earlier. And before we got into Bratton’s Stack layers, we had also been writing with this movement through our own layers, from high above the earth to below the ocean. All of these ideas became a kind of game of constructing our own way to picture the metaphysics of the ordinary. There is also this arc across the record that I mentioned and the cover is a way of guiding anyone who cares to search for it and a way of making sense of that. In its way, the video project is another way of doing that.
“Keep It Low”, a track from your second album, was included in “The Originals” soundtrack. What relationship do you have with the arts: cinema, theater, literature; they are a source of inspiration?
Oh yeah, absolutely. We watch a lot of movies and are constantly referencing ideas from films while we are writing and producing. Maybe my all time favorite movie is Jean Vigo’s L’Atalante and when Eleanore and I first got together, we were on a month and a half long U.S. tour and a big part of that was the two of us sitting in the back of the van watching Buster Keaton films together. He is someone that has a special place for both of us. I often see the lyrics I write in a cinematic setting. That’s how this film project with Red Eyes and Pale Moon started actually, as something very specific I saw taking place between the final verse of Red Eyes and the first verse of Pale Moon. While making the record, I remember us talking about Lizzie Borden’s Born In Flames and being really taken by the sound-design in The Fits.
We also try to get out to the galleries in New York as much as possible. One artist we reference a lot is Janet Cardiff. We were looking at El Anatsui, Mark Bradford and Sarah Sze around the time of the recording as well as the installation work of the jazz pianist Jason Moran whom I just interviewed for N|A. At the same time, there was a huge retrospective of Jim Shaw’s work at the New Museum and that really fed into some of the ideas we were developing about the occult and everything.
Fiction too, certainly. On this record, I was very much influenced by the fiction and poetry of Ben Lerner, the poetry of Terrence Hayes, the work of Octavia Butler and Alexandra Kleeman’s You Too Can Have A Body Like Mine which, like Jim Shaw’s work, gave me an access point to thinking about technology and the occult. Perennial favorites of mine are Alasdair Gray, Samuel Beckett, David Markson and Raymond Queneau.
Are you planning a tour, a series of live shows for this album? Do you enjoy performing live, what relationship do you have with the stage and the audience?
We both love playing shows and really miss it, Eleanore most of all. This album was such a studio project though. Right from the beginning, we were thinking of it as a soundtrack to a larger installation/performance that would present the album itself as a live concert and bring many of these ideas we’ve been talking about to the surface. It’s an idea we are still trying to develop and it would be incredible to bring it to Europe. If you know of any galleries or adventurous venues in Italy who want to help stage it, tell them to hit us up!