I Knife, anzi, i The Knife, sono un pluripremiato gruppo synth-electro-glitch-glam-pop svedese composto da due fratelli, Olof e Karin Dreijer. I Dreijer dirigono una loro etichetta indipendente, la Rabid Records, e suonano insieme da oltre dieci anni e sei album. Pur essendo mondialmente conosciuti ed apprezzati, sono schivi e introversi, non si sentono delle star, raramente appaiaono in pubblico e odiano i red carpet, tanto che una volta hanno mandato al posto loro due amici vestiti da gorilla a ritirare il Grammi, l’equivalente per la Svezia dei Grammy Awards, di miglior gruppo pop svedese. “Bisogna tornare a concentrarsi sulla musica, anziché sulle persone”, si giustificarono all’occasione.
Ecco, la musica: la musica dei The Knife è un delicato e mai stucchevole equilibrio elettronico di synths very very 80’s, percussioni ipnotiche e voci eteree sessualmente poco identificabili. I loro video sono ricercate e conturbanti opere d’arte visiva, che ti incantano e ti lasciano quasi sempre con un punto di domanda, così come le loro performances live, in cui la componente visiva e scenografica è parte integrante e fondamentale dell’esibizione stessa. Vedere per credere. Insomma, uno dei gruppi preferiti da Ziggy Stardust e H.P. Lovecraft, sono sicuro.
Li ho sentiti la prima volta qualche anno fa, con Silent Shout, il loro terzo album in studio, e li ho immediatamente “likati”, “followati” ed inseriti nella mia personale lista, per la verità non troppo lunga, di gruppi da vedere in concerto. Ecco perché, appena saputo della tappa italiana del tour per il nuovo album Shaking The Abitual, è stato naturale il percorso Ticket One, B&B, Milano, Alcatraz.
Premessa: ho letto di recensioni e commenti negativi da parte di gente che si lamentava dei kilometri di autostrada percorsi o delle 3 ore di pullman, quindi ci tengo a precisare che sono arrivato a Milano alle 19.30, partendo da Bari con il treno alle 10 di mattina, dopo aver miseramente perso l’aereo delle 8.30. A questo aggiungeteci che a Bari il termometro segnava 27 gradi ed il sole spadroneggiava, mentre a Milano si paludeggiava con 18 tremendi gradi macerati nel 90% di umidità. Tutto questo non per giocare a ‘chi la fa più lontano’, sia chiaro, ma solo per dirvi che in mezzo al meravigliosamente e sessualmente variegato pubblico di hipsters della city ed electro-lovers di provincia, che affollavano un Alcatraz per la verità non proprio pienissimo, c’era anche chi vi scrive, letteralmente stanco morto, che cercava di reintegrare i liquidi dispersi nella stagnante aria milanese, sorseggiando pessima birra alla spina da 6€ al bicchiere, in un ‘mood’ personale che definirei non proprio da concerto.
Premessa fatta, veniamo al dunque. Ore 21.30, iPhone al cielo, tutti si aspettano qualcosa. Quel qualcosa arriva, ed è un grido in inglese, “Hello Milano!”. Proviene dal palco laterale dell’Alcatraz. Autore del grido è il warmupper più warmupper che io abbia mai visto: un tipo in calzamaglia azzurra, con barba e parruccone biondo, truccato, ingioiellato e microfonato, che incita il pubblico a muoversi al ritmo di electro-disco, come fosse una lezione di acqua gym in un villaggio turistico. Qualcuno non capisce (o non vuole capire), qualche altro inizia a muoversi e… a divertirsi. Io, complici anche i 18€ di birra che mi scorrono in corpo, sono tra questi ultimi.
Dopo un quarto d’ora ed un successo non proprio unanime, il nostro kitch Capitan Jane Fonda Sparrow abbandona lo stage laterale, le luci si spengono e gli iPhone ottengono quello che vogliono: i fratelli Dreijer, illuminati da un blu funereo, appaiono sul palco principale, incappucciati. Parte il kick ed inizia il concerto, o meglio, il live. O meglio, la performance. O meglio, il problema.
Si, il problema. Perché nella successiva ora e mezza sul palco vengono eseguiti solo un paio di pezzi live, che a dire il vero di live hanno solo la voce. Forse. Tutto il resto è playback, ma non certo noia: i Knife si mascherano, strimpellano strumenti improbabili e soprattutto ballano come invasati, con tanto di gruppo di ballo al seguito e coreografie degne di un musical di Broadway, in un potpourri di effetti luce, giochi d’ombra, costumi fluorescenti e proiezioni d’ogni sorta. Con picchi di puro nonsense, come quando l’intero corpo di ballo è rimasto immobile per 4 minuti di canzone, indossando dei costumi da guerrieri Sith di guerre stellari.
Il concerto insomma non è stato un concerto, quanto piuttosto un godibilissimo spettacolo audiovisivo. Chiamiamolo ‘balletto 3.0’, và.
Questo ha inevitabilmente diviso il pubblico in due squadre contrapposte, ‘incazzati’ vs. ‘divertiti’. Il match tra le due squadre è iniziato immediatamente, durante il concerto, nei bagni, dove al ragazzo incazzato, tatuato e con la barba fino al petto che sosteneva: ‘rimanevo a casa a vedermi i video su Youtube e guadagnavo 30€’, rispondeva il ragazzo divertito, tatuato e con la barba fino al petto con: ‘che te ne fotte, balla!”. Match che, of course, è proseguito sulla rete, fra gente che minaccia di non comprare mai più un disco del gruppo e gente che risponde “se non vi sta bene, andatevi a sentire Vasco la prossima volta”. Nulla di nuovo? Non esattamente.
Ovviamente la genialità di un gruppo che nel suo stand del merchandising espone un avviso del genere, sta tutta nella provocazione e nella capacità di suscitare emozioni forti. Siano queste emozioni profondamente negative o profondamente positive, poco importa. Fin qui ci siamo.
Ma c’è dell’altro. Non so se il mio modo easy di vedere le cose sia in realtà una deformazione professionale di chi per passione e lavoro, ascolta, mixa e scrive di musica elettronica, una musica che a detta dei nostri padri è ossessivamente tutta uguale e preconfezionata, ma di sicuro a me piace la musica elettronica, di sicuro la musica ‘seria’ e seriosa non mi è mai piaciuta e di sicuro un gruppo che si prende gioco delle esasperazioni del suo stesso pubblico, cercando in tutti i modi di farlo ballare, merita la mia stima e la mia approvazione. Quindi, se vi chiedete qual è il senso di un ‘concerto ballato’ in playback, dovreste anche chiedervi qual è il senso di assistere ad un concerto senza mai spegnere quel benedetto iPhone, qual è il senso di condividere la tua posizione, di taggare o di applicare il filtro all’instragrammata del cantante scattata da sotto il palco… Non lo trovate, vero? Allora la prossima volta fate come me: investite 24€ in birra sgasata e lasciatevi semplicemente andare.