Ve ne avevamo già parlato qui: la storia di Alex Tripi e Nello Greco era ed è qualcosa di atipico, di particolare. Ma vi avevamo parlato molto anche di JägerMusic Lab (recuperatevi questo articolo, ad esempio); e pure quella è una loro creatura. Non bastasse, c’è tutta la traiettoria tracciata dalla MAT Academy, ormai una realtà consolidatissima nel campo dell’insegnamento sulle “nuove” musiche, quelle da fare in primis con le macchine. Anche quella storia loro. Ma mettiamo tutto questo da parte. Mettiamo da parte gli errori, mettiamo da parte il business, mettiamo da parte il mercato; mettiamolo da parte, ma per poterlo riabbracciare meglio. Con più consapevolezza. Con più profondità. Con più sicurezza. E con un album davvero intrigante uscito qualche settimana fa, “To The Other Side”, tanto ambizioso quanto inaspettato. Probabilmente il lavoro più ambizioso per un, mmmmh, “progetto di musica elettronica” mai uscito in Italia. Hai detto nulla. Ecco: in tempi in cui tanti, troppi, quasi tutti fanno il compitino e stanno (solo) troppo attenti a presidiare la propria comfort zone, pur dichiarando sempre il contrario, The ReLOUD hanno fatto il “salto” davvero. Ma se leggete con attenzione le loro parole, le loro visioni, le loro considerazioni, capite come questo sia stato possibile. Anzi: capite come sia stato inevitabile.
Vorrei partire con una domanda che mi gira in testa dalle prime volte che ho sentito la versione definitiva dell’album: avete mai avuto paura mentre lavoravate al disco che steste facendo “troppo”? Perché questo è un album molto, molto, molto ambizioso…
Nello: Quando si fa musica si va – o si dovrebbe andare – d’istinto. Abbiamo fatto “troppo”? Più che altro, il dubbio è stato un altro: “Non è che stiamo facendo qualcosa che può piacere solo a noi, e a tutti gli altri invece no?”. Domanda che però durava lo spazio di mezzo minuto, per poi venire spazzata via con un romanissimo “…ma ‘sticazzi!”. Vero: ci siamo chiusi in studio prima di tutto con l’idea di fare qualcosa che piacesse a noi. Non una scelta scontata, perché in passato invece un po’ ci è capitato di stare al gioco di cosa chiedeva l’etichetta, cosa poteva piacere alle radio, cosa avrebbe aiutato a finire nelle playlist di alcuni dj importanti: sì, ci è assolutamente capitato. Il risultato è che ti trovavi a fare delle produzioni che un po’ assomigliavano a quello che c’era in giro in quel momento (e stava funzionando), perdendo però un po’ di libertà artistica. Stavolta, visto che tra l’altro era un po’ che ci eravamo fermati risucchiati dalle altre cose che seguiamo, ci siamo proprio detti “Ok, basta: se riprendiamo a far uscire della musica dobbiamo fare qualcosa che ci piaccia per sempre, che resti nel nostro cuore sempre e comunque”. La verità è che quando fai della musica “calcolata” per funzionare poi, nel momento in cui esce, facile che non ti piaccia manco più. Se non ci metti anima e cuore allo stato puro, le cose deperiscono più in fretta. Almeno dentro di te.
Alex: Sono per lo più d’accordo. Per rispondere alla tua domanda: sì, un paio di volte ho avuto paura che stessimo esagerando, che stessimo uscendo troppo dal seminato più canonico. E questo mi ha spaventato. Ma attenzione: mi ha spaventato la testa, il cuore è sempre rimasto invece tranquillissimo. E lì capisci che la testa sa farti brutti scherzi. Di tutta la nostra discografia, prima di “To The Other Side” forse solo “Once Again” è stato fatto mettendoci veramente solo il cuore. Il resto è fatto bene: senza falsa modestia, siamo bravi a fare i producer. Quando ci mettiamo a tavolino, vengono fuori cose fatte bene e pure non per forza prevedibili e canoniche, in fondo se ci pensi anche i dischi fatti con Crystal Waters avevano un che di atipico; ma la realtà è che comunque era materiale troppo pensato, troppo “educato” e rifinito. Volevamo magari osare di più, in partenza; ma poi pensavi all’etichetta che doveva dire “Sì”, agli addetti al settore che dovevano dire “Sì”, al pubblico che pure lui doveva dire “Sì”, e mettendo insieme tutti questi pensieri non eri mai veramente, realmente libero. Insomma: con questo album da un lato la testa ci diceva “Ma non è che stamo a fa’ ‘na cazzata?” – e immaginatelo con la voce di Carlo Verdone – ma il cuore ci diceva di andare avanti. Questo album è per noi un vero e proprio “statement”. Magari le nostre prossime uscite saranno meno eclettiche, meno ambiziose, più mirate, più a fuoco con precisione su determinati obiettivi e determinate scelte, che sia un versante più pop, uno più intimo, uno più dance; ma saranno comunque “noi”. Non vogliamo più tornare indietro. Abbiamo assaporato la libertà, e non vogliamo più rinunciarvi. In passato ci capitava anche di tirare fuori delle tracce più intime, più malinconiche, ma finivamo col cestinarle dicendoci “Ma do’ cazzo annamo con ‘sta roba? Siamo nelle chart inglesi nelle categorie dance, dove crediamo di poter andare con un brano voce e chitarra?”. Risultato? Lo buttavamo. Ora basta. Siamo cambiati.
Domanda: quanto siete cambiati voi, e quanto invece è cambiato il mondo della discografia e anche della musica da dancefloor? Perché ho come l’impressione che negli ultimissimi anni sia diventato un po’ più facile produrre leggermente più a trecentosessanta gradi.
Nello: Che noi siamo cambiati, immagino derivi dalla vecchiaia! (risate, NdI) Nel corso della vita una persona matura, e quindi matura – può maturare – anche dal punto di vista artistico e creativo. Se oggi avessimo avuto sedici anni…
Alex: …probabilmente avremmo aperto prima di tutto un canale TikTok. Come peraltro stanno facendo nostri colleghi praticamente nostri coetanei, pur di rimediare due fan nuovi in più.
Nello: Eh… Diciamo che se avessimo avuto sedici anni o venti o quel che è, probabilmente saremmo stati prima di tutto preoccupati di produrre il mood sonoro più attuale e di moda. Ma è normale tutto questo, non lo condanno. Quando ti avvicini ad un mondo, è normale farlo attraverso le cose che ti sembrano più immediate e più forti in quel preciso istante. Approccio che poi col passare degli anni inevitabilmente deve o dovrebbe maturare, imparando a metterci del proprio, a lavorare con la propria personalità. Per noi oggi è in qualche modo più facile prenderci dei rischi: per l’età che abbiamo, per il percorso maturato, per l’esperienza da producer ma anche quella della MAT Academy.
Alex: Il percorso maturato, sì, e la fortuna. Sta di fatto che per noi fare “To The Other Side” come l’abbiamo fatto era una vera e propria urgenza, e a questo siamo stati fedeli. In effetti se provo a fare un’analisi oggettiva da manager ed imprenditore nell’industria musicale, ma anche da artista che vive ed opera in questo contesto, forse il passo che stiamo facendo è appropriato e più sostenibile che in passato, visto il periodo storico. E’, in qualche modo, meno “osceno”. Perché sono crollate tutte le vecchie certezze, quelle che si erano sedimentate per decenni, quindi oggi c’è una specie di “via libera” generalizzato, per chi lo sa cogliere. Prendi Four Tet: se facesse uscire una ballata romantica di sola chitarra acustica, nessuno si sorprenderebbe.
Che poi tra l’altro Kieran arriva in parte anche da lì, da tracce fatte con la chitarra acustica. Oggi lo sanno in pochi, ma lui ha una vita “precedente” a quella che ora si vede nel sistema del clubbing e dell’elettronica.
Alex: Esatto, vero. E quindi appunto tutto ha un senso.
…poi pensavi all’etichetta che doveva dire “Sì”, agli addetti al settore che dovevano dire “Sì”, al pubblico che pure lui doveva dire “Sì”, e mettendo insieme tutti questi pensieri non eri mai veramente, realmente libero
Domanda: sì, ok, ora c’è in parte più un “via libera” rispetto a prima, ma la musica elettronica da dancefloor è stata ed è più schiava delle mode di altre musiche?
Alex: Credo che sia assolutamente schiava delle mode diciamo nell’80% di quello che esce. Pensaci: dal 1999 al 2002 il filone house, poi improvvisamente quella che hanno iniziato a chiamare electro, o fidget, poi è arrivato il momento della big room, poi virata improvvisa verso la tech-house, poi arriva Bodzin e ora tutti dietro a Bodzin… Quello di cui in realtà ci si dovrebbe rendere conto è che tranne alcuni casi fortunati, che hanno fatto le loro fortuna cavalcando scientificamente le mode, gli artisti che resistono realmente nel tempo sono quelli che hanno sempre fatto musica non per imbroccare una moda, ma per una propria specifica esigenza artistica ed espressiva. Bodzin, già citato; o il Fedde Le Grand di “Put Your Hands Up For Detroit”, che al filone electro con quella traccia ha dato vita; o Guetta, che nel momento in cui nessuno aveva pensato di portare l’EDM nel mainstream si mette a fare il disco coi Black Eyed Peas, cambiando quelle che erano le regole del gioco fino a quel momento; o, se vogliamo andare più indietro, Morillo nel periodo 1997-2002. Ecco, questi sono tutti esempi di artisti che arrivano e spiazzano, “rompono” cioè le regole: e ti ho fatto apposta esempi di artisti in ambito commerciale, per far capire quanto questa regola riguardi tutti, mica solo chi vuole stare nell’underground o fare l’alternativo. E’ un discorso che ho fatto più volte con me stesso…
Nello: …ecco, ha iniziato a parlare da solo con se stesso, questo la dice lunga (risate, NdI)…
Alex: …e la verità è che ci sono tanti producer che sono dei bravissimi tecnici ma purtroppo pensano che basti quello a renderli artisti. Credo che esista uno spartiacque vero tra chi vuole fare il follower e gli interessa solo andare a suonare in giro (perché gli piace quel mondo, gli interessa il lato glamour) e chi invece vuole realmente esprimere quello che ha dentro. Il primo magari può anche essere bravissimo tecnicamente; ma il secondo ci mette dentro cuore, anima, tormenti, felicità. Il problema è che l’industria dance ha una “allure” molto scintillante, tra fama, soldi, divertimento: finisce così con l’attirare delle persone magari pure preparate tecnicamente ma che non sono artisticamente dotate, non hanno quella predisposizione, e quindi, come unica arma per stare attaccati al carrozzone, scelgono di stare attentissimi a seguire le mode del momento . Non è nella scena perché ha qualcosa da dire: è nella scena per intercettare quello che funziona.
Nello: Ma storicamente è stato così un po’ in tutti i generi musicali, se ci pensi. Dal blues, al rock, al rap, ma anche al jazz. Arriva un genio; crea un mondo, un immaginario; tutti gli altri iniziano ad andargli dietro. E’ sempre successo e, credo, sempre succederà. Però anche nell’andare dietro a qualcosa puoi sentire – e in maniera chiara – la differenza tra chi fa le cose col cuore e chi invece solo perché interessato allo status di “artista”.
Forse però il mondo dell’elettronica ha qualcosa di speciale e diverso rispetto agli altri mondi musicali nel momento in cui basta imbroccare una o due tracce per poter subito andare in giro a fare dei “concerti”, visto che il dj ne è praticamente un equivalente; in questo modo la catena che porta dal nulla ad essere professionista (magari anche di successo) è molto più corta rispetto ad altri generi, dove un minimo più di gavetta è necessaria. Ecco che la tentazione di sfornare una “instant hit” che sia un copia&incolla del suono del momento si fa ancora più forte, il risultato può essere immediato e pure fruttifero.
Nello: Vero. E’ un altro modo di vivere la musica. Una maggiore velocizzazione, forse pure figlia di un rapporto più stretto con le nuove tecnologie. Ogni innovazione porta novità e cambiamenti. La musica ha dei cicli, ed essi sono dettati anche da come cambiano le tecnologie ad essa connessa. Come in qualsiasi evoluzione, ci sono modi intelligenti per affrontarla, modi rispettosi, modi furbi, modi truffaldini.
(eccolo, “To The Other Side”; continua sotto)
Quanto è traducibile in versione dj set un album comunque complesso come “To The Other Side”?
Alex: Eh, buona domanda. Ci abbiamo riflettuto molto. Come si può vedere, stiamo cercando di creare un vero e proprio “viaggio esperienziale” attorno a questo disco, un viaggio che vuole diventare anche “fisico”, CoVid permettendo. “To The Other Side” vuole essere non solo un album ma una vera e propria esperienza multimediale, fatta di storytelling a trecentosessanta gradi, dove ogni brano viene sviluppato in maniera specifica e ogni brano ha un’integrazione che non è solo musicale ma è anche altro, è una narrazione visuale. L’obiettivo finale sarebbe presentarlo in un evento-mostra-installazione che sia lungo una settimana e che venga coronato alla fine da un evento live vero e proprio, che ci stiamo immaginato proprio in versione full band o comunque con strumenti suonati (synth, drum machine, chitarre elettriche) e che parta prima da bpm lenti e poi vada via via in crescendo, fino a coronarsi in “Lenta Bellezza”, in un’apotesi finale marcatamente dance. Ma non finisce lì: terminato il live si passerebbe ad un dj set, il tutto senza soluzione di continuità. Ma anche per quanto riguarda il live, vogliamo mettere una visione “da dj”: l’intenzione è quella di ricreare un set up che permetta in qualche maniera di “remixare” in diretta i pezzi mentre vengono suonati, rendendo così ogni esecuzione dal vivo unica ed irripetibile. La parte finale in chiave dj set è comunque importante, anzi, fondamentale, per dare un senso a tutto questo viaggio. Magari qualcuno è venuto lì solo per sentire noi e i brani dell’album: invece noi vogliamo regalare un universo “completo”, fatta anche di musica altrui che ci ispira. Fa parte dell’esperienza da vivere.
Quanto è difficile relazionarsi con la parte più underground della musica elettronica? Parte che tende, magari in parte anche a ragione, a vedersi e sentirsi come un’aristocrazia, che non si abbassa ad inseguire le regole del mercato ma che afferma di seguire solo un certo tipo di valori più puri e fondanti. Trovo interessante fare questa domanda a voi perché se da un lato come producer siete sempre stati un po’ più sul versante commerciale della dance, nell’attività sia della MAT Academy che soprattutto con l’avventura dello JägerMusic Lab siete entrati in contatto con nomi forti di techno e house nella loro accezione più (apparentemente) underground ed alternativa…
Nello: E’ l’atteggiamento un po’ di ogni nicchia, “Quello che è nostro è giusto, quello che non è nostro è per forza sbagliato ed impuro”. Noi partiamo dal presupposto che per noi non esiste il giusto o lo sbagliato, ma solo il bello o non bello. Ed è un discorso che travalica il senso delle nicchie. Detto questo, ci relazioniamo bene con entrambi i mondi da dancefloor, sia quello più commerciale che quello più alternativo. Pensiamo di poter usare entrambi, col giusto rispetto, nel momento in cui ci mettiamo qualcosa di “nostro”. Sono convinto che questi due mondi possano benissimo convivere senza il minimo problema e senza che uno turbi l’esistenza e le dinamiche dell’altro, nel momento in cui entrambi decidono di riconsocersi nel concetto di “bellezza”. Non sono ingenuo: so benissimo che se l’undeground disprezza il pop, è perché considera il pop nella sua veste di “compitino fatto per le radio”. E ci sta. Ma in questo modo si dimentica che esiste anche il pop fatto bene, creativo, originale, ed è giusto – anzi, è molto importante – imparare a dargli peso e a valorizzarlo. Ad ogni modo sì, noi in qualche maniera abbiamo imparato a condividere e dialogare con entrambi.
Rischiando però di scontentarli tutt’e due, o alla lunga di essere guardati con sospetto da tutt’e due.
Alex: Certe dinamiche, è curioso notarlo, si ripetono uguali sia nel pop che nell’underground: ad esempio un certo sussiego, ogni tanto, da parte di chi è molto in alto nel proprio mondo, lì improvvisamente le differenze si azzerano, pop e underground in questo sono uguali. Anche il mondo undeground può essere fatto di formalità, di luoghi comuni. Non lo si può ignorare. Al tempo stesso ci tengo a sottolineare che alcuni dogmi ed alcuni principi portati avanti dall’underground sono comunque dei fari fondamentale nell’evoluzione di un discorso artistico. Questo dovrebbe essere chiaro a tutti; per noi lo è, e accidenti quanto questa cosa ci ha aiutato. Ti faccio un esempio: Lele Sacchi a “Top Dj” inizialmente ci ha guardato un po’ con la puzza sotto il naso; e, ora lo posso dire, aveva pure ragione. Lì puoi fare due cose, anzi tre: fartela scivolare addosso; offenderti; iniziare invece a chiederti “Ma perché determinate persone che stimo molto per quello che dicono e quello che fanno ci guardano così con sospetto? Non è che stiamo sbagliando qualcosa?”. Quest’ultima domanda è importantissima. Farci questo tipo di domanda ci ha infatti dato la spinta decisiva per crescere, migliorarci, alzare il livello. Avere difficoltà ad entrare in determinato contesto, trovare barriere all’entrata, è insomma molto importante. Perché traccia dei confini, dei perimetri, e in questo modo ti aiuta ad avere l’idea più chiara della reale mappa delle cose. Per andare proprio sull’esempio concreto, mettendo in gioco noi in prima persona: noi ormai conosciamo un po’ tutti, no? Un perché siamo romani e simpatici, un po’ perché abbiamo dimostrato che dal punto di vista del business due o tre cose le sappiamo fare: il risultato è che chi ci parla e ci incontra tendenzialmente ci tratta con rispetto e pure con interesse. Ok. Ma con la musica questa regola non vale: puoi essere simpatico quanto vuoi, puoi essere un potenziale socio d’affari e uno che si sa muovere bene, puoi avere contatti, soldi, ma ad un certo punto se la tua musica non ha qualità non vai da nessuna parte, soprattutto sul medio-lungo periodo, che è quello che conta veramente. Ecco, questo è il punto: come artisti, non ci sono scorciatoie. E se devi passare sotto una gogna, venendo messo sotto esame, lo fai, se vuoi fare le cose come vanno fatte. Sempre tornando a Lele, che appunto a “Top Dj” ci ha fatto un culo tanto, dopo aver sentito l’album ha iniziato a considerarci in maniera diversa, diventando uno dei nostri primi sponsor. Non perché l’abbiamo coinvolto in qualcosa, non perché gli abbiamo promesso o offerto qualcosa, ma semplicemente perché ha sentito il disco. “Avete fatto un album della madonna, è bello in ogni sfaccettatura. E’ bella la parte pop, è bella la parte da club. Quindi, avrò il piacere di parlarne in giro”. Tutto questo ti fa capire come la qualità sia, alla fine, l’arma migliore. Quella più solida. “To The Other Side”, ne siamo consapevoli, è un disco che parla molto di più alle nicchie che al mainstream: perché è un lavoro complesso, devi avere un certo tipo di attitudine per “sopportarlo”, per capire il senso di alcune scelte. Ma essendo pare un buon lavoro, anche una certa parte di non-mainstream ha iniziato a prenderci sul serio, ad “ascoltarci”. Cosa che prima non avveniva. Prima, noi eravamo i due fenomeni di “Top Dj” vestiti col papillon e con le mani in alto che facevano una roba che non si capiva bene cos’era (e, ti dicevi, non valeva manco la pena di stare lì a capirla).
Nello: Capisci, la cosa buona è che sia che si tratti di pop, techno, underground, mainstream o quello che vuoi, la qualità alla lunga emerge sempre. In qualsiasi campo.
Alex: Ti faccio un altro esempio: Bawrut. Quando scendo a far fare un giro al mio cane, mi ascolto in cuffia un po’ di playlist sparse, senza stare lì a seguire brano per brano di che si tratta – il classico ascolto da streaming, insomma. Bene, nell’ultimo anno mi è almeno cinque volte di dirmi “Uh, ma che bella ‘sta roba” e poi nel momento in cui vado a controllare era sempre immancabilmente una traccia di Bawrut o un suo remix. E questo senza che lui abbia fatto nessun investimento di marketing che sia andato a raggiungermi o influenzarmi. Quando qualcuno ha stile, ha polso, ha un modo specifico di interpretare e reinterpretare le cose, lo senti. Ti arriva. Le presunte scorciatoie di un tempo sono, oggi, molto meno efficaci: c’è gente che faceva uscire un disco su Spinnin’ alla settimana, e oggi è a casa a farsi i video per TikTok…
Nello: Chiaro, i segmenti di mercato ancora esistono, ma in questa fase storica i gusti e gli ascolti si sono talmente “liberati” che se hai qualità prima o poi arrivi un po’ dappertutto. Quando ci sono quelli che dicono “Eh, io non sono famoso e non sono conosciuto abbastanza perché la cosa che faccio è troppo particolare, troppo ricercata” la prima cosa che penso è che no, non è troppo particolare o ricercato quello che stai facendo, è che sei tu che lo stai facendo male, o non abbastanza bene. Principio che vale per l’underground come per il pop, in scala coi relativi contesti.
Esiste uno spartiacque vero tra chi vuole fare il follower e gli interessa solo andare a suonare in giro (perché gli piace quel mondo, gli interessa il lato glamour) e chi invece vuole realmente esprimere quello che ha dentro. Il primo magari può anche essere bravissimo tecnicamente; ma il secondo ci mette dentro cuore, anima, tormenti, felicità
Domanda solo apparentemente semplice: quanto conta davvero essere preparati tecnicamente, come producer?
Nello: Beh, con la MAT noi insegniamo ad esserlo. E’ che spesso ci chiedono “Ma pensate che ci siano delle regole matematiche precise da seguire, in musica? E’ in qualche modo un processo quasi scientifico, fare le cose bene?”. Risposta: è una via di mezzo. Perché poi invece ci sono anche ragazzi che mi dicono “Ma sì, ma a cosa mi serve sapere tutte queste cose… Ci metto la creatività, questo è l’unico aspetto importante e che fa la differenza”. Fa la differenza davvero? Sicuro? Vediamo quanta rilevanza avrà davvero quello che fai, lì fuori nel mondo, se parti con questo approccio… In questi casi faccio sempre l’esempio dell’ingegnere: vuoi fare un palazzo spettacolare, tutto in diagonale, architettonicamente ardito, ma se non conosci bene la statica – che è una roba molto tecnica e noiosa – quel palazzo, beh, crolla subito. E’ importante conoscere molto bene la parte tecnica proprio per poterla evadere. Puoi fare qualcosa di realmente personale solo se hai un ottima conoscenza delle basi. In questo l’avanzamento della tecnologia ha un po’ complicato le cose, perché con una spesa e uno sforzo molto basso puoi riuscire a sfornare prodotti dalla qualità sonora più che accettabile, lì dove un tempo serviva un banco mixer da 200.000 euro. Oggi con un po’ di plug in “giusti” puoi già fare delle cose che, a livello sonoro, sono professionali.
Alex: E’ paradossale quello che succede nel nostro mercato (…perché succede nel nostro credo molto più che negli altri): la gente pensa di poter diventare un numero uno ma praticamente senza fare un cazzo, o quasi. Cristiano Ronaldo non è che non si allena mai perché è baciato dal talento; Cristiano Ronaldo è invece probabilmente lo sportivo che si allena di più al mondo – e per questo è diventato Cristiano Ronaldo. Nel mondo dance e dell’elettronica invece c’è al convinzione che può bastare una DAW craccata (quindi manco lo sforzo economico devi fare…), dei sample pack altrettanto craccati, li prendi, fai qualcosa, ti aspetti finisca in classifica e che subito ti chiamino a suonare in giro per il mondo. Ah sì? Davvero? Prendiamo pure il caso della trap, che in apparenza mette in gioco dinamiche simili: i trapper bravi, quelli che funzionano, anche quando sembrano dei fancazzisti stai sicuro che si sono ascoltati e riascoltati migliaia di volte i brani del genere, per riuscire a darne una loro interpretazione convincente… un processo che magari fanno senza nemmeno pensarci, ma lo fanno. Lascia stare che in tutto questo discorso noi siamo di parte, ci abbiamo costruito sopra una azienda come la MAT che è pure ciò che in primis ci dà da vivere, ma noi a diciannove anni ci scaricavamo e compravamo i manuali di teoria del suono, i manuali di sintesi, passavamo la notte a studiarli.
Nello: Oggi invece c’è gente che compra un synth e non si pone nemmeno il problema di dare un occhio al libretto delle istruzioni.
Alex: E’ il grande tarlo di questa industria: si sono create delle false aspettative, quando invece la vera realtà è che tutti quelli che “arrivano” in modo serio e consistente si sono fatti un mazzo tanto.
Nello: La botta di fortuna può arrivare, ma se non sei pronto, se non hai una forte preparazione di base, stai sicuro che sparisci in breve tempo. Farsi un gran culo, per anni ed anni, è necessario. Quando invece il messaggio che passa è “Ah, guarda, lui ha fatto un disco, è subito in classifica, ora gira il mondo e guadagna un sacco”.
Alex: Per fare “To The Other Side” abbiamo suonato venticinque strumenti diversi, venticinque!, dai più canonici ai più assurdi. Negli ultimi quattro, cinque anni ci siamo dedicati a studiare chitarra e pianoforte: è stato fondamentale. Ora posso abbozzare delle canzoni, delle linee melodiche, solo per voce e chitarra o pianoforte e ti assicuro che dà un senso di libertà incredibile, oltre ad aiutarti ad avere molto più idee. Ma questa cosa non è arrivata dal nulla: ho utilizzato nottate intere per capire bene come funzionano gli accordi. La musica è anche uno sforzo. Un impegno.
Nello: Purtroppo, o per fortuna, non hanno ancora inventato la chiavetta USB che ti attacchi addosso e voilà, sai già tutto. C’è sforzo, c’è dolore, le mani fanno male quando si suona il pianoforte a lungo, la chitarra ti fa venire i calli alle dita. Se si ha davvero una passione, quello dello sforzo, del dolore, della fatica è un passaggio obbligato.
Vorrei riprendere, prima di finire, il discorso sul concetto di “lavoro” e su quello che è la MAT per voi. Quanto è difficile conciliarla con quello che è il vostro essere artisti?
Nello: Ci abbiamo messo due anni a scrivere un album, basta come risposta? (risate, NdI) A parte gli scherzi, noi prima ancora di fondare l’Academy già avevamo un lavoro che non era quello di fare solo gli artisti, e per produrre musica ci chiudevamo in studio tutte le notti (eravamo giovani e forti, avevamo ancora la tempra per potercelo permettere senza diventare degli stracci il giorno dopo…). Oggi, avendo una struttura solida attorno a noi e con dei veri e propri angeli custodi che ci aiutano in tutto e per tutto, è tutto in qualche modo più facile. Però sì, inutile negare che gli impegni per la MAT hanno allungato di molto i tempi di creazione e lavorazione di “To The Other Side”. La grande fortuna è che il lavoro per la MAT ci dà lo stesso tipo di passione che ci dà il lavorare sui nostri progetti personali. Una cosa molto importante da dire è che nel momento in cui cresceva la MAT, allo stesso modo sentivamo crescere anche le nostre idee e consapevolezze personali come producer.
Alex: Questo album non esisterebbe, non ci fosse stata la MAT. Noi abbiamo raggiunto la pace dei sensi quando, con una mossa apparentemente folle e coraggiosa, abbiamo lasciato i nostri lavori “normali” per dare vita a questa Academy. Ci siamo dati due anni di tempo, per vedere se stava in piedi o meno. L’asticella era alta: manteniamo con essa noi stessi e le nostre famiglie, e ovviamente i nostri dipendenti. E’ andata bene. E il fatto che sia andata bene, ci ha dato una grandissima serenità. Ci siamo resi conto che, per campare di musica, non eravamo più obbligati a contare solo sulle immediate revenue delle nostre produzioni e accidenti se questo c’ha liberato. Siamo entrati in studio, per lavorare sul materiale “nostro”, con uno spirito completamente diverso. Con lo spirito che ti porta a fare e a concentrarti su quello che ami, e basta. Non ci fosse stato tutto questo, avremmo rifatto un disco, bello, fatto bene, sì, ma di plastica. L’altra cosa da dire è che tutta l’attività della MAT ci ha permesso di allargare molto di più il nostro network di contatti e conoscenze. Siamo arrivati al punto che la gente ci conosce perché siamo “quelli della MAT”, non più i due ReLOUD. Avendo ormai millecinquecento studenti, è quasi inevitabile; di sicuro, è molto bello, ci piace, ci dà un bel tipo di equilibrio. Quell’equilibrio che ti fa stare bene, vivendo nel mondo della musica.