Sono ormai più di quindici anni che, in una maniera o in un’altra, Jeff Mills presenta in situazioni selezionate in giro per il mondo l’avventura sonora a nome “The Trip”: qualcosa che è molto più di un semplice dj set ma è, al tempo stesso, più mutante e “djistico” di un tradizionale e canonico concerto. Per quanto ci riguarda abbiamo potuto vederne una declinazione qualche anno fa all’ADE e, sinceramente, è stato uno dei momenti più magici ed incredibili in oltre vent’anni – no vabbé, sono anche di più – di dj set e concerti. Soprattutto nella parte dello show, poche volte c’è stata una esperienza così profondamente avvolgente: e questo non puntando forte sull’impatto scenografico gigantista, su visual pantagruelici, ma davvero con la sola forza del calibrare bene ritmi, pad atmosferici, de-tonazioni, strutture narrative in suono ed intensità. Momenti di pura bellezza, che ci porteremo sempre dietro.
Sapevamo che approcciando una resa discografica e “in studio” dell’avventura “The Trip”, che in una maniera un po’ pomposa ma non inesatta viene definita apertamente “The world’s first cosmic opera”, non sarebbe stata la stessa cosa: ma sentendo l’album che Mills ha fatto uscire per la sua Axis giusto ieri abbiamo recuperato più d’una traccia della magia che tanto ci ha sedotto. E questo è un gran bel segno.
Purtroppo, dall’ascolto abbiamo recuperato anche altro. Che ci ha preoccupato. Perché è lo stesso tipo di problema che da anni flagella il suo “family tree” originario, ovvero Underground Resistance, e che Mills in qualche maniera era finora riuscito ad evitare – anche grazie all’intelaiatura sonora della sua proposta musicale.
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Di che si tratta? Detto in parole molto semplici, la musica elettronica – e in primis la techno – dipendono molto anche dalla sapienza e conoscenza tecnologica. Siamo d’accordo su questo? Lo dice la ragione sociale stessa di questo genere musicale, in fondo: la tecnologia non è solo concetto, e anche pratica; e la conoscenza nel far progredire artisticamente ed espressivamente il genere techno nasce anche dalla consapevolezza tecnologica, dal suo progresso. Tutto questo vale nella techno più che per il folk, il jazz, più che per il genere che volete voi. Giusto? Vi fila?
Ora. Sarebbe ingiusto condannare la techno all’extra-responsabilità di essere sempre innovativa, sempre all’avanguardia, sempre rivolta al futuro anche nei processi produttivi utilizzati per forgiarla. Un fardello non corretto. La techno si è guadagnato sul campo i galloni e i meriti per poter essere anche neo-classica, per citare e riciclare se stessa e i suoi momenti migliori, per farsi forte di una sua essenza storica già codificata (e peraltro magnifica, che ha cambiato la vita di migliaia, anzi, milioni di persone), ed usarla.
Volando meno aulico, e andando sul concreto: se tu producer vuoi fare techno “alla vecchia”, usando strumentazione datata decenni, andando anche a citare suoni già usati e già codificati, hai tutto il diritto di farlo. In fondo è un genere musicale che esiste suppergiù da quarant’anni: ha il diritto di godersi i meriti acquisiti e di riutilizzare ciò che l’ha reso visionaria ed illuminante.
Bene.
In tutto questo però non si può ignorare, e in un genere come la musica techno lo si può appunto ignorare meno che in altri generi, la questione della qualità del suono. Della ricchezza delle frequenze. Dell’importanza strategica di master e mixing. Proprio perché è una questione che è strettamente intrecciata col lato tec(h)nologico della questione, ovvero della “sostanza” creativa. Epperò la storica techno di Detroit, e pensiamo non solo ai tre di Belleville e ad UR ma purtroppo anche alla genìa successiva (i Craig, i Larkin, anche uno colpevolmente sottovalutatissimo come il meraviglioso Claude Young, eccetera eccetera…), da tempo arranca. E per “da tempo” intendiamo: da decenni. O arranca, scenario numero uno, venendo fuori con delle release che sono gravemente insufficienti dal punto di vista dell’ingegneria del suono e della compattezza, oppure alla Carl Craig si gioca paraculmente di rimessa accontentandosi per lo più di zompare sul carrozzone tech-house più di mestiere, senza sbattersi più per cercare (antiche?, irripetibili?) magie – e questo è lo scenario numero due.
Hood e Mills, i più rigidi nell’inseguire una versione assai scarnificata e ritmicamente impietosa dell’alfabeto detroitiano, sono quelli che hanno passato meglio il test del tempo (…e che, guarda caso, più hanno mercato oggi come oggi: non sempre il mercato è un pessimo giudice, ogni tanto dà anche adito a considerazioni ed esiti interessanti). Il dubbio però è: e se questo accadesse perché proprio l’essenzialità e l’avanzare più serrato dei BPM aiutano a “mascherare” dei limiti? E se fosse che sono loro a permetterti di dribblare la necessità di rifinirsi e contemporaneizzarsi dal punto di vista del suono?
Questo dubbio già serpeggiava da un po’, per quanto ci riguarda. Ma si è manifestato in tutta la sua evidenza proprio grazie alla bellezza di “The Trip”, alla forza del suo concept, al coraggio artistico che lo anima. Tutto bello, tutto affascinante, una sfida confrontarsi con un effort artistico-concettuale del genere; ma Mills nelle sue produzioni inizia a suonare davvero datato, davvero inadeguato. Inizia a sembrare un demo, anche leggermente frettoloso, costruito agilmente sui pre-set.
Non è così, ovviamente. Mills da come lo conosciamo mette anima, cuore e concetto in quasi ogni cosa che fa, così come anche etica del lavoro e perfezionismo. Vivaddio che esiste, in una scena musicale dove ormai sempre più spesso e sempre più sistemicamente conta più il tuo social media manager delle tue idee, del tuo coraggio artistico, del tuo talento. Ok. Ma forse l’aura di incriticabilità che lo ha circondato negli ultimi vent’anni ora inizia a fare vedere il suo “lato cattivo”: quello dannoso, quello che un po’ ti impigrisce, quello che ti atrofizza lo slancio qualitativo.
E allora sì, detta come va detta: alle nostre orecchie, e con tutto il rispetto, “The Trip” suona come un’opera di alte, altissime ambizioni sì, ma di insufficiente rifinitura e perizia tecnica nella realizzazione.
Proprio in un lavoro che esplicitamente parla di spazio, di “perdersi” in un buco nero, dando così un’idea di dinamicità e di frontiera, stona sentire delle drum machine e in certi momenti anche dei pad che paiono quelli di tuo cugino che sta imparando a fare la techno (oggi, grazie alla tecnologia, anche se sei alle prime armi puoi già tirare fuori delle cose più che dignitose). E questa imperizia emerge ancora di più quando si tenta l’esperimento “chitarroso” e rockeggiante della traccia numero otto, ed improvvisamente ti pare di essere giudice di un rock contest promosso dal Comune di Cividale del Friuli (…se qualcuno che ci legge è di Cividale, non si offenda), giusto con un esotico cantato giapponese sopra.
No, non va bene.
No, non ci basta.
…e sì, pensionare anche Mills fra i miti di cui bisogna parlare bene a prescindere, perché troppo grandi sono i suoi meriti storici ed intellettuali per permettersi anche mezza critica, ci fa tristezza. Quasi quanto – o forse altrettanto – un o una dj che si costruisce la carriera a furia di mossette e balletti dietro la console. Non vogliamo che accada. Ma per non farlo accadere, siamo convinti che ci sia (più) bisogno di qualcuno che (gli) dica: bello, “The Trip, coraggioso “The Trip”, ma anche un po’ brutto, anche un po’ approssimativo.