Prendiamo il caso di Apparel: un po’ perché è una label che amiamo tanto, un po’ perché hanno dato alle stampa un libro assolutamente splendido (accompagnato da doppio vinile), “Apparel Music B-Day 10”, dove dieci anni di attività trovano nuova vita in un volume delizioso dal punto di vista grafico – come sempre d’altro accade con la label di Dj Kisk – e che raccoglie tutto assieme, con precise descrizioni, un patrimonio musicale davvero notevole a livello qualitativo nel campo della musica “da club” (e dintorni). Vedere una label che ama così tanto (e così bene) il proprio operato tanto da desiderarne una “espansione su carta” per celebrare degnamente il decennale è un messaggio importante per tutti, a maggior ragione in tempi in cui è tanto, troppo facile aprire una label ma la stragrande maggioranza nascono e muoiono nell’arco di un pugno di release fatte per soddisfare l’uzzolo del momento. Ma un messaggio molto più importante l’etichetta lo ha dato stamattina, schierandosi decisamente contro ogni forma di razzismo, discriminazione, ingiustizia e brutalità poliziesca.
Sì, stiamo parlando del caso George Floyd. E stiamo parlando di come chiunque adotti&ami alfabeti musicali che sono stato modellati in primis dalla cultura nera (e qui non serve e non è dirimente una discussione su quanto questo influsso sia stato esclusivo o mescolato ad altri), ovviamente techno, house, jazz e derivati fra questi, dovrebbe sentirsi personalmente indignato, anzi, infuriato per come l’America abbia sottovalutato negli anni, anzi, nei decenni il problema della violenza e della discriminazione su base razziale, e di come ancora oggi il suo “commander in chief” democraticamente eletto – qualunque sia la vostra opinione su di lui – stia gestendo in maniera inadeguata e rivoltante la situazione. Vorremmo fosse così per tutti. Vorremmo veramente tante prese di posizioni in tal senso. Inutili? Facili? Scontate? Retoriche? Fatte più per prendersi visibilità che altro?
Chi se ne importa: intanto, fatele. Perché veramente dobbiamo creare un ambiente collettivo per cui il razzismo sia sistematicamente visto come una posizione inaccettabile, nel ventunesimo secolo, nella società contemporanea, e soprattutto sia visto come una vigliaccata ipocrita, nel momento in cui – quando ci fa comodo, quando ci piace – prendiamo pezzi di blackness a nostro uso e consumo, magari senza nemmeno saperlo (e chiunque ascolti la musica di cui parliamo noi, qui su Soundwall, e di cui voi leggete quando capitate su queste parti, si immerge in qualcosa che è stato forgiato in modo decisivo dalle comunità nere e, in genere, dalle minoranze discriminate).
“I don’t want to see stores looted or even buildings burn. But African Americans have been living in a burning building for many years, choking on the smoke as the flames burn closer and closer. Racism in America is like dust in the air. It seems invisible — even if you’re choking on it — until you let the sun in. Then you see it’s everywhere” Kareem Abdul-Jabbar
A livello internazionale c’è una presa di posizione importante, con un “Black Out Tuesday” che coinvolgerà alcuni giganti dell’industrial culturale. Questo è molto importante. Ma nel suo piccolo, ciascuno di noi può fare qualcosa. Poi chiaro, si possono fare mille discussioni su quanto le devastazioni siano qualcosa di fuori luogo ma – come dice Kareem Abdul-Jabbar in un fondamentale editoriale da cui sopra abbiamo estratto una significativa quote – un conto è farlo dalla tranquillità della propria casa e del proprio quotidiano dove i problemi sono mille ma non la discriminazione, un conto è farlo quando per il solo, semplice colore della tua pelle sei un obiettivo continuo di sospetti e repressione indiscriminati e, purtroppo, sistematici.
Non è la stessa cazzo di cosa.