E quindi, risolto il mistero. Tiger & Woods sono Valerio Del Prete (un tempo col nome d’arte Delphi, soprattutto i romani lo conoscono) e Marco Passarani, sì, “quel” Marco Passarani. Ovvero uno dei pionieri assoluti della techno qua in Italia, a trecentosessanta gradi: come producer, da discografico, e in generale da sempre una delle personalità più autorevoli e conosciute all’estero (dischi anche per la Peacefrog, ricordiamolo, oltre all’eccezionale lavoro fatto con la Nature, ma la sua biografia artistica e i suoi meriti e riconoscimenti fin dai primi anni ’90 porterebbero via mezzo articolo). Nonché Passarani è uno che non si è mai fatto problemi ad esprimere la sua opinione – e la sua opinione è quasi sempre molto interessante, spesso ben poco accomodante (cosa che nella scena italiana, dove è spesso consigliabile fare finta di essere amici con tutti e sparlare in caso solo alle spalle, non sempre paga). Ad ogni modo: eccoci qua, con Marco e Valerio, per parlare di Tiger & Woods. Senza filtri. A carte scoperte. E ad idee, da parte loro, molto chiare.
Insomma, avete ufficialmente smesso di tenere nascosta l’identità di chi è Tiger & Woods.
MP: Più che tenere nascosta la nostra identità in modo scientifico, diciamo che abbiamo più che altro cavalcato per un sacco di tempi l’identità “da bootleg” di Tiger & Woods. Cos’è il bootleg? Un disco bianco. Che non sai di chi è. Che non sai bene da dove viene. Ha quella forma lì, c’è poco da fare, è così. Ecco. Chiaro, no? Poi ok, probabilmente questo modo di agire è corrisposto anche ad una nostra esigenza. Non siamo dei novizi dell’ambiente, soprattutto io, conosciamo i meccanismi, li abbiamo vissuti sulla nostra pelle, e probabilmente dentro di noi c’era un certo tipo di stanchezza verso certi sistemi e certe dinamiche. Se guardi alla musica e alla nostra scena adesso, alle direzioni che hanno preso, può capitarti di sentirti addosso una grande stanchezza rispetto a tutte le chiacchiere e le teorizzazioni che ci girano attorno. Anche perché ti chiedi: a cosa hanno portato? Teorizzi, elabori, creai progetti, tracci linee guida, poi un giorno ti rendi conto che il modo migliore per fare musica è – fare musica. Farla con un progetto che sta praticamente a zero, dove magari pure la cosa a cui deleghi la tua immagine esterna è sbagliata (nel nostro caso la tigre, che poi in realtà è un leopardo).
VDP: C’è gente che ha nascosto la propria identità in modo assai più intenzionale e programmatico. Noi, quando suoniamo in qualche club, là stiamo. A disposizione di tutti. Niente maschere, niente divieti di scattare foto… ecco, magari eviti la foto bella in posa davanti all’ingresso del locale, quello sì…
MP: Bravo! Eviti la posa!
VDP: …ma per il resto non abbiamo mai fatto nulla di specifico per nascondere la nostra identità. Non ci siamo sforzati a comunicarla; ma non l’abbiamo nascosta.
Il progetto Tiger & Woods, diciamolo, vi è scoppiato un po’ in mano. E’ diventata una cosa enorme, lì dove doveva essere se non sbaglio uno scherzo estemporaneo.
MP: Doveva terminare dopo la prima release, il progetto Tiger & Woods. Era partito per essere un bootleg, uno!, e stop. E’ che quando fai musica non pensi mai bene a quello che potrebbe succedere dopo, quando cioè questa musica esce dal tuo studio. Ad ogni modo, facemmo questo primo pezzo solo perché ci serviva suonarlo nei nostri set; si cercava infatti un pezzo che potesse essere mixato a perfezione con una roba di Mark E (“R’n’b Drunkie”, che poi è il rifacimento di “R’n’b Junkie” di Janet Jackson). Ci piaceva il pezzo di Mark E, volevamo suonarlo, volevamo metterlo nei set, e allora c’era bisogno di qualcosa che ci permettesse di introdurlo. E così abbiamo fatto un bootleg, con questa funzione.
Cosa che nella storia della club culture e della musica dance si è fatta mille miliardi di volte.
MP: Esattamente. Vuoi trovare qualcosa che faccia un tramite tra un disco e l’altro, te lo ricrei in studio, facendo un edit. Stop. Quella era l’idea. Attorno a Tiger & Woods non c’è stata alcuna pianificazione, e per un sacco di tempo ha continuato a non esserci, anche quando il progetto invece di morire ha preso ad andare avanti. L’unica pianificazione compiuta, volendo, è stata quella di usare esclusivamente l’immagine della tigre come mezzo di comunicazione (che poi appunto, manco era una tigre…); nei bootleg va così, al massimo ti scegli un logo. Ora chiaramente sarebbe senza senso pensare che le cose stiano ancora in questo modo, Tiger & Woods è diventato troppo “ufficiale” e troppo strutturato per giocare a fare ancora i misteriosi. Però ecco, l’idea in origine era questa: un bootleg, e un bootleg non può che avere una identità misteriosa, difficile da ricostruire, fa parte della sua ragion d’essere e direi anche del suo fascino. Un fascino che tra l’altro oggi si è un po’ perso, no?, con tutti che devono sapere tutto di tutti. Una dinamica un po’ romantica che ci siamo divertiti a portare avanti. E ci siamo divertiti anche perché se solo uno avesse voluto, i nostri nomi si sarebbero saputi subito. Ma proprio subito. Prendi Discogs: alla voce Tiger & Woods è indicato chiaramente che siamo io e Valerio.
VDP: Non serviva certo un genio del web per arrivare a capire chi eravamo. Bastava evitare di fermarsi alle informazioni del golfista, le prime in cui magari ti imbattevi.
MP: Dai, secondo me era anche la gente che si divertiva a farsi ingannare e a fare finta di non sapere.
VDP: Sì, forse è stato un mutuo gioco.
MP: Il che confermerebbe la mia teoria: si inizia a essere un po’ stanchi rispetto all’eccesso di comunicazione che c’è attorno alla musica legata alla club culture. Una scena in cui ci sono mille annunci, mille profeti, mille vincitori, mille verità.
Mille “suoni del momento”.
MP: Mille “suoni del momento”, mille versioni dei fatti su cosa è successo in un determinato posto o periodo storico… E poi, a parte questo, mi pare ci sia una tendenza forte a veicolare la musica utilizzando gli strumenti del marketing più generico e generalista: vedi certi dj/producer che tentano di essere conosciuti per motivi che non hanno molto a che fare con la musica che fanno e che suonano. Si mettono in piazza, e lo fanno con azioni ed aspetti che sono completamente slegati da quello che loro offrono concretamente in consolle. Sì, si parla un po’ troppo di quello che gira attorno alla musica, non della musica in sé. Troppo. Mille profeti che parlano di storia, di radici, di verità, quando in realtà al grosso delle persone che produce di tutto questo gliene frega solo fino ad un certo punto, visto che la loro principale preoccupazione è fare le cose decentemente. Ecco: a noi la tigre, che poi è un giaguaro o un leopardo, è servita da protezione da tutto questo. Siamo rimasti sottoterra. Cos’è la musica di Tiger & Woods? Una roba da club, possibilmente al buio, dove si suda, possibilmente con un impianto della madonna. Stop. Non c’è spazio e non c’è bisogno per profezie, grandi proclami, per verità – a maggior ragione in un’epoca in cui le verità possono essere tutte sbagliate così come tutte giuste, senza soluzione di continuità. L’unica cosa che conta è che stai in pista, che sudi, che ci sono le casse. Com’era una volta, com’era alle origini.
VDP: L’esperienza del club, una volta, era qualcosa di unico. Quello che succedeva in serata non lo potevi sapere bene in anticipo, ma di sicuro avevi l’impressione che era qualcosa di particolare, e che sarebbe stato irripetibile.
MP: E’ bellissimo stare al buio, non capire un cazzo di quello che sta succedendo e farsi bombardare dalla musica. E’ come sono cresciuto io: arrivavi in un posto, non capivi bene, avevi quasi paura, un po’ d’ansia, perché ti sembrava di essere finito in qualcosa di alieno e misterioso, qualcosa a cui non eri preparato – ma che era, oh sì, bellissimo. Ai rave era così. Ai primi rave. Ecco. Ok, il suono non è più quello, perché oggi ho maturato un’altra idea su qual è il suono migliore con cui ballare, ma la sensazione trasmessa vuole essere esattamente quella che provavo io quando arrivavo ai primi rave storici. Arrivare in un posto strano, non capire bene all’inizio che diavolo stia succedendo – e non che invece arrivi e c’è il dj con tutte le luci puntate addosso che fa il faraone, con le braccia allargate… Quando andavo ai rave non mi aspettavo quello, e a dirla tutta manco lo volevo, avrebbe ammazzato l’atmosfera. Se voglio vedere uno spettacolo, non vado in un club, o comunque vado ad un altro tipo di performance; stando nel campo del deejaying, se proprio voglio uno spettacolo vado a vedermi un turntablist della madonna, mica uno che cambia dei dischi mettendoli a tempo. Di uno che cambia dischi a tempo, non mi interessa quello che fa, le facce che mette su, come si veste, come muove la mani… perché so che quella che sta facendo, tecnicamente, non è niente di che. L’unica cosa che conta è che quello che esca dalle casse sia bello, coinvolgente. Il deeyaying non è una vera performance, a meno che appunto non si tratti di turntablism, perché lì sì che il giradischi diventa uno strumento e il dj di conseguenza un virtuoso del suo strumento. Ma il dj, quello che suona la musica, è un’altra cosa.
VDP: Ricordiamoci che inizialmente il dj nasce come un semplice elemento del locale. Sì, lì in consolle c’è quello che mette i dischi, ma quello che conta è la musica che mette, non lui. Col tempo è successo invece che l’attenzione si è spostata più su chi la mette, la musica, piuttosto che sulla musica in sé.
MP: Il che non è necessariamente un male, non voglio essere ipocrita su questo. Ma non può essere l’unico fuoco del tuo punto di vista. Il dj, la sua figura, non può essere l’unico punto di attenzione. Sennò le nostre serate diventeranno tutte come quelle in cui suona Davvincii. Mi ricordo quando ero ragazzino, e andavo a ballare al Piper: sì, sapevo dove stava il dj, e io magari che ero un malato già da piccolino mi mettevo lì a guardarlo, perché quello volevo fare da grande, quindi stavo lì, lo osservavo… ma perfino io, che ero appunto un frequentatore atipico, in realtà ero affascinato dalla serata nella sua globalità: l’impianto, gli effetti speciali, i televisori che mandavano video assurdi. Era l’insieme dell’esperienza, non solo chi ci fosse o non ci fosse in consolle. Il dj non può diventare l’unico fuoco della tua esperienza da club.
Tutto questo discorso è nato anche da una vostra constatazione sul ruolo dell’informazione, nel campo del clubbing. Una informazione ipertrofica, che finisce coll’essere quasi inutile e dannosa.
MP: Magari non inutile e dannosa, ma guardiamoci attorno: la presenza dei social, che ha fatto sì che ognuno all’improvviso avesse potenzialmente un megafono in mano, ha creato tanta confusione. Io, dal mio punto di vista, che è il punto di vista di uno che per anni comunque ha avuto anche a che fare col marketing a livelli più o meno underground per le mie produzioni e le mie etichette, ti dico schiettamente che in un campo dove all’improvviso tutti stanno lì col loro megafono, beh, io non mi ci vado ad aggiungere. E sai perché? Perché penso che non serva a nulla. Se già tutti stanno strombazzando con la loro trombetta, che ci stai a fare a mettertici anche tu? Cosa cambia? Siamo di fronte ad un flusso talmente imponente di informazioni che le verità e le storie ad esse collegate ne vengono fuori sempre più distorte. Da quando tutti possono comunicare, all’improvviso leggi biografie di dj pazzesche, piene di titoli, onori, meriti, momenti importanti, no? E allora tu che magari qualche titolo, onore e merito ce l’hai davvero inizi ad aver voglia di non dirlo nemmeno, perché come si fa distinguere dall’esterno chi certe cose le può dire sul serio e chi no? Capisci ora perché ti dico che forse è inutile mettersi lì fuori e strillare per comunicare quello che fai. Rischia di essere fatica sprecata. Forse è proprio meglio pensare prima di tutto a fare bene la propria musica. Che poi va comunicata, ovvio, ma lo si può fare in modo intelligente. Soprattutto: senza strillare. Guarda, io al momento di spingere Tiger & Woods potevo tranquillamente usare il mio nome e di conseguenza raccogliere l’attenzione e il supporto della gente che mi conosce e mi sostiene da anni. Non l’ho fatto e, fatti alla mano, non ce n’è stato bisogno.
Anche perché forse questa gente da Tiger & Woods, come proposta, sarebbe rimasta un po’ spiazzata.
MP: Mah, dici? Magari chi era legato alle mie cose del 1995 o giù di lì, quelle più industriali, no. Ma tutti gli altri, tutti quelli legati a Pigna, alle cose più dance che da un certo punto in poi abbiamo iniziato a fare… Io non trovo ci sia una grande differenza tra Tiger & Woods e quello che facevo come Pigna. Se prendi una raccolta della Nature del 2003, c’è un mio pezzo nato da un campionamento di Alexander O’Neal che è nient’altro che un pezzo di Tiger & Woods, solo che è stato fatto dieci anni prima che nascessero Tiger & Woods.
Avete mai avuto l’impressione che il progetto Tiger & Woods vi stesse fagocitando? E’ diventato una cosa grossa, complessa e strutturato, lì dove invece era nato come un semplice gioco (da far durare poco, anche). Ha preso possesso delle vostre vite, professionali e forse anche personali.
VDP: E’ un po’ così, ma è inevitabile. La prima fase del progetto è stata chiaramente molto spontanea e naturale, senza obblighi di nessun tipo. Parlando per me, perché io ho meno esperienza di Marco, con Tiger & Woods ho scoperto via via degli aspetti del lavoro di dj e producer che all’inizio non avevo assolutamente preso in considerazione, dinamiche che non avevo tenuto in conto. C’è un momento in cui ti rendi conto che dal praticare un hobby sei passato al fare un lavoro, ed è un passaggio grosso, cambia il tuo approccio. Prima la musica era il tuo rifugio, il tuo spazio di evasione personale; ora è anche il terreno degli obblighi, delle deadline, delle risposte da dare a persone che ti chiedono svariate cose, del dovere essere presenti in determinate situazioni anche quando magari non ne avresti voglia.
MP: Ad un certo punto succede che devi dare conto a un po’ troppa gente… Io ci sono già passato, negli anni precedenti, quindi era più preparato. Succede insomma che all’improvviso devi rispondere della tua creatività e dei tuoi tempi a persone che, in teoria, non dovrebbero interferire con la tua creatività e che con essa hanno poco a che fare. Possono essere anche amici, eh, e noi adoriamo tutte le persone che lavorano attorno al progetto Tiger & Woods, ma sta di fatto che Tiger & Woods non sono più due persone chiuse in studio che fanno qualcosa quando gli va ma una vera e propria macchina sfaccettata e complessa.
VDP: L’agenzia di booking, il publisher… più vai avanti, più si aggiungono pezzi alla catena. Ma non c’è nulla di male e nulla di strano: penso che sia molto banalmente quello che succede quando il tuo hobby diventa il tuo lavoro.
MP: Tutte cose da cui io personalmente ero già passato. Poi, ovviamente, nessuno di noi si aspettava la violenza di questo impatto, in solo un anno e mezzo Tiger & Woods è diventata una cosa grossissima. Così grossa da essere ogni tanto pure faticosa. E in più, quando inizi ad essere grosso, ogni imprevisto può metterti all’improvviso nella merda. Alla fine del primo tour grosso come Tiger & Woods, abbiamo dovuto più o meno all’improvviso cambiare la residenza del nostro studio personale. Chiaramente è stato traumatico, perché mentre tu avevi già le mani piene per fare il trasloco in contemporanea ti arrivavano mille mail, chiamate in cui ti chiedevano di fare date, di dare delle risposte. Fa parte del gioco, eh, ed è giusto così. Non bisogna lamentarsi. Se la tua vita è incasinata da quanto è densa, vuol dire che le cose ti vanno bene. E se le cose ti vanno bene, devi essere grato e baciare tutto e tutti.
Marco, quanto ti ha dato fastidio che un anonimo golfista abbia messo in uno sgabuzzino, artisticamente parlando, Marco Passarani?
MP: Non ce l’ha messo lui, mi ci sono messo da solo! Sono stato io che volontariamente ho deciso di ripartire da zero, perché mi stavo annoiando, perché volevo fare una cosa diversa. Oddio, no, aspetta, magari non è stato così lineare e semplice il processo; ma in un sistema in cui vieni bombardato di informazioni, come si diceva prima, rimettersi così in gioco senza rete e ripartendo da zero mi ha ridato, tipo, quindici anni di vita. Guardo Valerio e mi sento più giovane di lui di cinque anni, quando in realtà ne ho dieci in più…
VDP: Maledetto! A te Tiger & Woods t’ha ringiovanito, a me m’ha invecchiato…
MP: Poi guarda, questi del Passarani sì Passarani no sono problemi che si può porre uno che mi ha sempre seguito, e lì credo sia molto divertente arrivare a scoprire che dietro a Tiger & Woods ci sono io. Ma per chi non sapeva chi fossi, che importanza ha mettersi lì e spiegarglielo? Noi non siamo grandi artisti, non siamo personaggi fondamentali nell’industria culturale mondiale. Non abbiamo grandi responsabilità: siamo underground. Non dobbiamo essere Prince, Madonna o Michael Jackson, abbiamo la fortuna di poterci concentrare – se lo vogliamo – solo sulla musica.
Tra l’altro questo alone di mistero vi ha anche evitato la classica filastrocca sugli italiani “che hanno più successo all’estero che in patria”, visto che non era particolarmente chiaro manco in Italia che eravate italiani…
VDP: Vero, è come se fossimo emersi dal nulla, o comunque non da un luogo preciso.
MP: Ma conta qualcosa, in mondo così globalizzato? Nel sociale, conta: l’italianità la riconosci ancora (e ti porti dietro il fardello degli ultimi vent’anni infami di politiche di governo), la francesità pure, eccetera. Ma nella musica? La musica ormai è una nazione unica. E noi ne siamo la dimostrazione – abbiamo suonato ovunque. Ovunque.
VDP: Resta l’assurdo di una situazione in cui ormai abbiamo fatto nel mondo più di duecentocinquanta date, e questo significa che per più di duecentocinquanta volte abbiamo incontrato persone, fatto vedere documenti di identità, prenotato voli che partivano da Roma… eppure ancora adesso c’è chi ci crede, che so, tedeschi, com’è successo l’altra sera a Parigi. C’è talmente tanta informazione in giro, lo ripetiamo, che alla gente paradossalmente è passato l’istinto di approfondire anche solo un minimo. Davvero: non ci vuole molto a scoprire chi sono Tiger & Woods e da dove vengono. Se vuoi, il nostro aver limitato quasi a zero le info relative al nostro conto è stata, di per sé, una strategia informativa: e infatti è risultata molto più accattivante la nostra identità “misteriosa” di tante altre urlate ai quattro venti. Anche il fatto di uscire solo vinile…
MP: Vabbé, ma ogni giorno ci sono ormai miliardi di progetti che escono solo in vinile…
VDP: Evidentemente è stata una combinazione di timbro giusto, storia accattivante, nome accattivante. Credo che alla fine Tiger & Woods abbia funzionato per una serie di coincidenze.
Come vedete oggi la scena italiana del clubbing?
VDP: Suoniamo tanto in Italia quando in altri paesi. Anzi, all’inizio erano molte ma molte di più le date all’estero che quelle nel nostro paese, ultimamente in effetti ci capita di suonare più spesso a casa nostra. Devo dire che siamo rimasti molto favorevolmente colpiti da realtà a cui, sulla carta, non avremmo dato nulla: città piccole come Forte dei Marmi o Mantova, o città più grosse ma che non hanno mai avuto una grossa tradizione di clubbing più underground, come Firenze e Pescara – ci è capitato di fare delle serate strepitose proprio lì, magari più che nelle grandi città.
MP: Questa è l’ennesima dimostrazione di come il clubbing sia diventato un fenomeno globale, planetario, dove le differenza da nazione a nazione sono sempre più flebili ma altrettanto lo sono quelle tra grande e piccola città. Perché ovunque, ovunque!, può nascere e crescere una scena. Anche in America ormai funziona così.
E il problema dell’esterofilia?
MP: Anche quello è globale. L’erba del vicino è sempre più verde, e mica solo in Italia. Nella scena nostra si dice: “No love for the locals”. Ed è vero. Quando andiamo a suonare negli Stati Uniti, ci stendono tappeti rossi snobbando invece dj e producer locali che invece, quando arrivano in Italia, sono trattati con i guanti. E’ normale. Ma il punto principale resta che questo del clubbing è comunque ormai un fenomeno su scala mondiale, è un esperanto che ti permette di avere cose in comune con persone che stanno a molte ore di volo di distanza da te. Persone che mangiano in modo diverso, respirano in modo diverso, si comportano in modo diverso, ma sulla musica la possono vedere esattamente come te.
Ok. Ma allora, l’album nuovo? C’è? Arriva?
VDP: Praticamente è pronto. La ciccia c’è. Ora manca il contorno, la parte burocratica diciamo.
E? La direzione è sempre la stessa?
MP: E’ un po’ cambiata. Se prima erano per lo più macro-campionamenti, ora ci sono molti più passaggi dove si va verso il micro. L’evoluzione complessiva è di sicuro più rivolta ai club ora di quanto lo fosse prima, quando invece un po’ di “bacetti” al pop li davamo. Ci siamo avvicinati ad una formula più scura. Se vuoi, è un ritorno alle radici della nostra club culture. Quando tutto era più scuro, come ci dicevamo. Per certi versi, più ossessivo.
Come mai questa svolta verso l’oscurità? Ragionata e decisa prima di iniziare a registrare, o è una cosa che è emersa nel corso della lavorazione delle tracce?
MP: C’hanno pilotato le macchine. Più facevamo live, e ne abbiamo fatti tantissimi perché la scelta fin dall’inizio con Tiger & Woods è stata quella di fare quasi esclusivamente live, anche per slegarsi da un certo tipo di sistemi e meccanismi, più entravamo in confidenza con le macchine, e più entravamo in confidenza con le macchine più lasciavamo loro il comando. Diciamo così: noi c’abbiamo messo il “messaggio” nostro, le macchine hanno fatto il resto. E ti dirò, le release parallele all’album saranno ancora più estreme, in questo. Ad ogni modo, stiamo perfezionando quella che è la nuova identità di Tiger & Woods dal vivo: non un live set, non un dj set, un po’ entrambe le cose, così come è non del tutto digitale e non del tutto analogico. Un formato di Tiger & Woods che sia “Extended”: l’abbiamo sperimentato qualche settimana fa al Plastic People di Londra ed è stata una esperienza molto interessante, che vogliamo portare avanti. Uno di noi due mette i dischi, l’altro lo campiona, lo registra, e si mette a fare degli edit in tempo reale. In questo modo un semplice brano può arrivare a durare venti e passa minuti.
VDP: Come se fosse un dj set molto avanzato. Non è un live con tastiere, con batteria, cose così. Ed è naturale che in questo modo il suono diventi molto più da club: perché ti viene spontaneo dilatare i brani e le strutture. Il formato del live set puro iniziava a starci un po’ stretto, anche perché per esperienza ti accorgi che un pubblico può difficilmente reggere più di un’ora di live set – perché la pasta sonora di un live set regge quella durata lì, oltre stucca e stufa, perde di mordente.
MP: E inoltre è piacevole tornare a mettere un po’ di dischi. Ma forse solo quello, in consolle, mi annoierebbe. Ecco che quindi abbiamo inseguito questa formula “combinata”. Una formula molto performativa, e che comunque per esprimere tutto il suo potenziale ha bisogno di tempo, di cinque, sei ore in consolle. Perché devi avere il tempo di cazzeggiare, di sperimentare, di suonare anche le tue hit così come di creare un brano nuovo praticamente in diretta, portandolo in direzioni che tu per primo non puoi prevedere. Non ci basta più un’ora e mezza. Esattamente come prima spesso un’ora era considerato troppo poco, ci chiedevano di allungare i nostri set di almeno mezz’oretta, ma lì cosa fai? Allunghi i brani? No, era un ripiego, non una soluzione. L’idea è quella di far diventare una serata con Tiger&Woods un’esperienza unica, particolare. Ci sono anche varie idee a corollario, piccoli accorgimenti e trovate. Ma è ancora presto per parlarne.
VDP: Quando prepari un live set, dopo un po’ sai perfettamente cosa succederà in quel determinato momento e quale sarà la reazione del pubblico. E’ fisiologico. Abbiamo voluto uscire da questa gabbia, provare a fare qualcosa di nuovo. C’è ancora bisogno di rodaggio, ma la direzione è comunque questa e ne siamo contenti. E’ il nostro tentativo di offrire qualcosa di diverso. Qualcosa di particolare…
[Pic Credits: Nicholas Schrunk and Lost Art]