[tabgroup layout=”horizontal”]
[tab title=”Italiano”]Quella che stiamo per raccontarvi, aiutati dalla viva voce del suo protagonista, è una storia di redenzione, di rinascita, di cambiamento. E’ la storia di un dj che ha messo da parte le luci della ribalta per scoprire se stesso, per stare di nuovo bene, per vivere una vita realmente stimolante e per offrire un prodotto musicale che non fosse solo viziato dalla moda, ma da un percorso interiore fatto di tante rinunce ed una buona dose di apertura mentale. Si presenta con un nuovo album, a quasi cinque anni dal precedente, che vi farà rimettere in gioco tutto ciò che credevate di sapere su di lui. Per voi, per noi, Tim Deluxe.
Spesso, quando si ha a che fare con artisti di fama internazionale si tende a trovarsi alle prese con background musicali molto vari, ma raramente ci era capitato di parlare con qualcuno che abbia coscientemente deciso di mettere da parte le luci della ribalta musicale e di intraprendere un percorso di ricerca personale e musicale come il tuo. Ci piacerebbe proprio partire da qui: quali meccanismi nella tua mente hanno portato alla “rottura” con l’entertainment musicale in un momento in cui il tuo nome era ancora al vertice della parabola?
Ho sentito la necessità di abbandonare la scena tra il 2008 e il 2009. Andare in giro era diventato qualcosa di incessante e da un punto di vista fisico/psicologico non riuscivo più a reggere lo stile di vita legato ad esso. Non mi sentivo nel posto giusto né spiritualmente né musicalmente. Al tempo venivo da una discreta serie di belle uscite e la mia schedule di gig era diventata davvero fitta. Inoltre la musica stava attraversando una fase di profondo mutamento. E di pari passo si stava verificando l’avvento della tecnologia: il passaggio a CD e laptop. Ciò che sentivo in quel periodo mi sembrava semplicemente troppo “digitale” e non riuscivo a connettermici in maniera profonda come ero abituato a fare solitamente. Fu un periodo molto particolare sia per molte etichette che per tanti dj, ma anche e soprattutto per diversi club. Per quanto mi riguarda semplicemente pensai che era ora di prendersi una pausa da tutto ciò. Era come se avessi esaurito le mie risorse, non avevo più niente di interessante da proporre. Ho pensato che fosse meglio tagliare i ponti con la scena e staccare con la musica per un po’ piuttosto che continuare a fare finta di non stare diventando ogni giorno sempre più infelice.
Sappiamo che forse oggi guardando a quel periodo, ed anche considerando il valore diametralmente opposto dei tuoi nuovi lavori, potresti avere un’opinione diversa di quel tipo di notorietà, ma quando “It Just Won’t Do” ha letteralmente invaso le radio di mezzo mondo, in che modo hai approcciato tutto quel clamore? E soprattutto, ti aspettavi di ricevere un riscontro del genere da parte di una così ampia fetta di pubblico?
Si, è stato ostico. Dal nulla si poteva sentire la mia musica in radio a dividere le classifiche con la musica pop e non mi ero assolutamente preposto di raggiungere un obbiettivo simile. Il successo è stato un ovvio effetto collaterale, ma ti assicuro che è stata dura conviverci. Soprattutto con la mia percezione della maniera in cui pensavo fosse stato ottenuto. Se da un lato mi aveva permesso di raggiungere un livello di fama che mi aveva portato a suonare in Paesi in cui avevo sempre voluto esibirmi, come Giappone ed Australia, dall’altro mi aveva anche messo sulle spalle la pressione di dover continuare a meritare tutto ciò, di produrre altri lavori che potessero fare la differenza, che potessero rimanere sulle radio come i loro predecessori. Purtroppo era qualcosa a cui non ero abituato e credo che questa ossessione abbiamo finito per intaccare la qualità stessa della mia musica. Cominciai ad essere iper-critico nei confronti di ciò che producevo: continuavo a cambiare radicalmente direzione invece che lasciare che il tutto scorresse naturalmente come avevo sempre fatto. Mi facevo troppo influenzare da quelle che erano le aspettative della gente su come avrebbero dovuto “suonare” le mie tracce e anche questo non aiutava affatto. Quando si arriva ad un livello così alto di successo ci si deve, per forza di cose, scontrare contro un sacco di persone che ritengono che la loro opinione sia ben più rilevante della stessa musica.
Nel tuo processo di rivitalizzazione hai toccato anche aspetti della vita non principalmente legati alla musica, come ad esempio l’alimentazione, ed ho letto che ti sei anche divertito a seguire la tua squadra del cuore, l’Arsenal, in giro per gli stadi. Quali sono stati i fattori extra-musicali su cui hai deciso di lavorare e quali effetti hanno portato tali modifiche alla tua vita di tutti i giorni?
Quando ho smesso di fare il dj ho deciso di riprendere in maniera radicale il controllo di mente e corpo. Ho iniziato ad andare a correre, ho smesso di bere alcool, sono diventato vegetariano e ho smesso di frequentare le discoteche. Come hai detto, ho anche seguito l’Arsenal, in casa ed in trasferta, per un paio di stagioni. Avevo sempre sognato di visitare gli stadi che hanno fatto la storia del nostro calcio fin da quando ero piccolo. Ovviamente a causa del mio lavoro mi era quasi sempre stato precluso, visto che le partite erano abitualmente giocate nei weekend. E’ stato bello concentrarsi su qualcos’altro e non pensare sempre e solo ad andare alla musica. Ho anche cominciato ad interessarmi a Jung ed alla letteratura dell’Est Europa, cosa che mi ha aiutato molto dal punto di vista mentale. Credo comunque che aver scoperto la corsa sia stata la cosa che mi ha aiutato di più in assoluto, in quanto si ha un sacco di tempo per portare i propri pensieri ad un livello introspettivo altissimo. Ad oggi ho corso cinque Maratone e non posso negare che correre su lunghe distanze mi renda particolarmente entusiasta.
Oggi, al termine del tuo percorso, ci presenti “The Radicle”, il tuo nuovo album (a cinque anni dall’ultimo) che sicuramente si prospetta meno “mainstream” ma con un potenziale qualitativo decisamente degno di nota. Cosa ti senti di dire a chi, fra i tuoi fan ma anche tra i semplici curiosi, si approccerà al tuo lavoro? Qual è la giusta chiave di lettura per questo album?
Credo semplicemente che lo si debba ascoltare per ciò che è, senza farsi traviare da qual si voglia tipo di aspettativa. E’ un lavoro che viene da un delicato e profondo viaggio all’interno del jazz e del blues, da cui (guarda caso) derivano house e techno. Quindi, per certi versi, non è qualcosa di così diverso da ciò che ero abituato a fare, anche se ovviamente è molto meno elettronico e più strettamente “musicale” di quanto non abbia mai fatto in passato. I testi sono, per me, l’esemplificazione del concetto di “testi impegnati”. Un intreccio di politica, sociologia, sensazioni e sentimenti. Credo si tratti di un suono più maturo e profondo, seppur rimanendo tutto sommato assolutamente accessibile.
A quali artisti ti sei ispirato per questa tua creazione e quali musicisti hai deciso di contattare per la sua realizzazione?
Per quanto riguarda l’ispirazione, sicuramente molti dei grandi ma anche artisti molto meno conosciuti hanno avuto un ruolo fondamentale. Miles David, Duke Ellington, Bill Evans, Charles Mingus, John Coltrane, Alice Coltrane, Nina Simone, Art Blakey, Lee Morgan, Thelonious Monk, Herbie Hancock, Stan Tracey, Vic Juris, Fenton Robinson, Big Mama Thornton. Ho sentito un sacco di questo tipo di artisti negli ultimi anni. Per ciò che concerne invece la produzione di “The Radicle” ho chiesto al mio amico Ben Hazleton, che fa il contrabbassista, di aiutarmi a trovare musicisti con cui potessimo collaborare. Così mi ha presentato artisti come Rod Youngs, Enzo Zirilli, Jay Phelps, Pete Wareham, John Donaldson e Jim Mullen. Abbiamo registrato tutto nello studio del mio amico Fraser T. Smith e dopo di che abbiamo svolto l’ultima fase di mixing ed editing direttamente nel mio.
Sei stato inoltre impegnato di recente come tastierista per Roots Manuva dopo aver studiato pianoforte insieme alla pianista di Nord London, Cherry Muckle. Quali sensazioni ti ha dato esibirti live con una band rispetto ai dj set a cui eri abituato fino a qualche anno fa?
Senza dubbio partiamo dal presupposto che è molto più stressante rispetto ad un dj set. Serve una notevole dose di concentrazione, specialmente quando suoni parti strumentali e devi anche occuparti del computer allo stesso tempo. E’ come fare il giocoliere: un attimo prima stai facendo un riff e lavorando sui sample, quello dopo stai già preparando la prossima traccia. Devo dire che è andata bene e mi è davvero piaciuto un sacco esibirmi insieme alla band. Ben Hazleton suonava il basso, Eddie Hick la batteria e le coriste Angela Ricci e Lo Barnes completavano l’ensemble. Rodney (Roots) è davvero un grande, mi piace il modo in cui interpreta la musica ed i suoi testi sono grandiosi. Quella passata insieme è stata proprio una bella estate.
Pensi di sfruttare questa preziosa esperienza sul campo per portare in giro il tuo “The Radicle” come progetto live? Ti sentiresti pronto?
Esattamente, l’idea è quella. Ed è anche parte del motivo per cui ho preso parte agli show con Roots. Conoscevo il suo management molto bene e sapevo che avevano bisogno di un tastierista che sapesse anche occuparsi della parte elettronica con cui poter allineare i suoi show ad un concept che fosse più vicino a quello di una banda, seppur mantenendo un’identità tipicamente hip hop. Credo che questo connubio sia stato di grande utilità sia per lui che per me stesso. Di sicuro è stata un’esperienza inestimabile. Ci sono state un sacco di cose durante “The Battlefield” che sarebbe impossibile ricreare a tavolino, in nessun caso. Il tipo di pressione a cui si è soggetti in un live show è ben diversa da quello che si può avvertire in una sala prove. Sarà un passo molto impegnativo portare in giro una live band e non posso nascondere di essere abbastanza intimorito. Ma credo allo stesso tempo che alla fine andrà tutto bene. Non c’è gusto nel fare cose semplici.
Cosa credi ti riserverà il prossimo futuro? C’è qualcosa che pensi di poter ancora migliorare nella tua vita e nella tua carriera musicale?
Bè, spero innanzitutto di riuscire a portare a termine il progetto del live show, soprattutto da un punto di vista musicale. E poi di tornare alle mie lezioni di pianoforte, da cui ho purtroppo dovuto prendere una piccola pausa ma che ho la ferma intenzione di riprendere per continuare ad imparare. Poi voglio continuare a correre e non mi dispiacerebbe fare un’altra Maratona nel 2016. E per finire vorrei continuare a scoprire sempre più me stesso e vorrei aiutare ed ispirare le persone che mi stanno accanto.
Se oggi, alla fine di questo processo di crescita, avessi l’occasione di incontrare il “te” dei primi anni di carriera, quando ancora vivevi costantemente la “fame” di successo, cosa ti piacerebbe consigliargli?
Il mio processo di crescita è in continuo sviluppo, anzi mi sento ancora ben lontano da poter dare consigli. Spiritualmente, fisicamente e mentalmente è qualcosa che non si ferma mai: non è possibile vedere la linea del traguardo all’orizzonte. Ma quello che mi sentirei di dire è che il successo non è qualcosa di reale. Essenzialmente si tratta di qualcosa che tutti percepiscono in maniera differente e di cui sentono il bisogno di dare una definizione soggettiva. Bisognerebbe cercare di non rimanere intrappolati in quel tipo di “gioco” il più possibile. Tanto le cose cambierebbero in qualunque caso e sareste costretti a cambiare con loro per rimanere al passo.[/tab]
[tab title=”English”]The story we are about to tell you, aided directly by the voice of his main character, is about redemption, rebirth, change. It’s the story of a DJ who has put all his success aside to discover himself, to feel better and to offer a musical product that was not only marred by fashion, but by a inner journey made of so many sacrifices and a good dose of open-mindedness. Coming out with a new album, almost five years after the previous, that will make you change your view on everything you thought you knew about him. For you, for us, Tim Deluxe.
Often, when it has to do with international artists it’s usual to deal with very different musical backgrounds, but it rarely happened to us to talk to someone who has consciously decided to set aside his musical limelight and to start an intimate research between life and music as you did. We’d love to start from this point: which mechanisms in your mind have led you to quit with the electronic music entertainment in a moment when your name was still at his top?
I needed to step away from ‘the scene’ in around 2008/09. Touring had become relentless and mentally and physically I was struggling with the lifestyle of a touring artist/dj. Spiritually I wasn’t in a great place and musically I wasn’t either. I had come of the back of quite a successful run of releases and my touring had gone to a very busy level. The music was changing and so was the technology: the move towards digital DJing with CDs and laptops. To me the music in this period sounded very digital and I wasn’t connecting with it on deeper level. It was a strange period for a lot of labels, DJs, artists and clubs alike. I decided it was time to take a break from it all: I had become burnt out and had nothing else to offer. I felt rather than continue and make myself even more unhappy that it was a good time to take stock and have a break from music.
We know that today looking at that period, and also considering the diametrically opposite value of your new album, you may have a different opinion of that kind of notoriety, but when “It just will not do” has invaded the radio, how did you approach all that fame? And especially, did you expect to receive a response like that from such a large part of the audience?
Yes it was tough, because all of a sudden my music was on daytime radio and in the charts along with pop records. I had never set out to achieve that. That was always a by-product, but it was hard to deal with, along with my own perception of how I was received. On one hand, it affected the gigs that I had coming in, not only did it allow me to tour on a bigger level it also allowed me to get to territories I had always wanted to break into, namely Japan and Australia. On the other hand, It did bring an added pressure to ‘keep up’ and keep having more hit records, to try and stay on daytime radio constantly. It’s wasn’t something I was used to and I think in the end it affected my music. I began over analyzing my output: I was chopping and changing direction a lot with what I was making rather than just letting the music flow. I also felt and heard people’s expectations of what I was ‘supposed to sound like’ which wasn’t helpful. When you have success of this nature there are a lot of people with opinions who feel theirs is more valid than the music.
In your process of revitalization you have also affected non music related aspects, such as the food, and I read that you also had fun to follow your favorite team, Arsenal, around the terraces. Which were the extra-musical factors on which you decided to work and what effects have these changes brought to your every day life?
Yes when I stopped DJing I decided to try regain ownership over my body and mind. I started running, stopped drinking alcohol, became vegetarian and stepped out of clubs completely. I followed Arsenal around for a couple of seasons home and away. I’d always wanted to go to iconic grounds and watch matches since I was a kid. Because of touring that was never possible on weekends. It was nice to step out of it all and forget about clubs for a bit. I also began reading a lot of Jung and Eastern philosophy which helped me mentally. Taking up running was amazing as it guided my thoughts inward to an introspective nature. I have run five marathons so far and really enjoy long distance running.
Today, at the end of your journey, you’re introducing The Radicle, your new album (the last in five years) that certainly guarantees less “mainstream” and a potential noteworthy quality. What would you like to advise to the ones (among your fans but also among normal people) who will approach your work? What is the right key to approach this album?
Well to just try and listen to it for what it is and forget about expectations. It’s coming from a deep rooted sound of Jazz and Blues, which house and techno music stems from anyway. So, in some ways it’s not that different, but it’s definitely less electronic and more musical than anything I ever done before. The lyrics are all what I would call conscious lyrics. Social, political, spiritual statements and sentiments. I feel overall it’s a more mature, deeper sound, but ultimately it’s not inaccessible either.
Which artists inspired you most for your creation and which musicians have you decided to call for achieving it?
Well most of the Jazz greats and some more less known artists too. Miles Davis, Duke Ellington, Bill Evans, Charles Mingus, John Coltrane, Alice Coltrane, Nina Simone, Art Blakey, Lee Morgan, Thelonious Monk, Herbie Hancock, Stan Tracey, Vic Juris, Fenton Robinson, Big Mama Thornton. I was listening to a lot of these artist over the last few years. For the making of The Radicle I asked my friend Ben Hazleton who plays the Double Bass to help me find musicians to work with. He introduced me to the players Rod Youngs, Enzo Zirilli, Jay Phelps, Pete Wareham, John Donaldson and Jim Mullen. I recorded the musicians at my friend Fraser T Smith’s studio, and then returned to my studio to edit and finish mixing the recordings.
Recently you were also exhibiting as keyboard player for Roots Manuva after studying piano with North London pianist Cherry Muckle. What sensations performing live with a band has given to you compared to the DJ sets you’re used to do?
It’s a lot more stressful than just doing a DJ set for a start. You have to be really concentrated especially when you are playing parts and also running the computer. It’s like spinning plates: one minute I’m playing riffs and triggering samples, the next I’m setting up the next track to perform. It went well and really enjoyed playing with the band. My friend Ben Hazleton was playing bass; Eddie Hick on Drums and backing singers Angela Ricci and Lo Barnes completed our band. Rodney (Roots) is a really great guy, I like his outlook on music and his lyrics are great. We had some fun times over the summer.
Are you planning to take advantage of this valuable experience on the field to carry around your “The Radicle” as a live project? Do you feel ready for such a big step like that?
Yes that’s the idea and part of the reason for doing the shows with Roots. I know his management team really well and knew they wanted to get a keyboard/electronics guy in to move his live shows to a more band direction but still retaining his hip-hop roots. I think it helped us both out. For sure the experience is invaluable. There are so many things that happen out in ‘the battlefield’ that you just can’t re-create in rehearsals no matter what. The pressure is just not the same when you are in a controlled environment. It will be a big step to go live and get a band together and I am slightly scared, but I think that is good. There is no satisfaction in easy.
What do you think the future holds for you? Is there anything you think you can still improve in your life and career?
Well hopefully to get the live show together from a musical stand point and return to my piano lessons. I’ve had a bit of a break from those so I want to return to those and continue to learn. To keep running, I would like to do another marathon in 2016 again. Also to keep learning about myself and to help and inspire others.
If nowadays, at the end of this process of growth, you had the opportunity to meet the young Tim Deluxe, when he was still living constantly the “hunger for success”, what advises would you like to tell him?
Growth doesn’t stop so I don’t think my learning is over, far from it. Spiritually, physically, mentally it’s an ongoing process: you never arrive at the finish line. I think I would advise that success is not real, because essentially you’re talking about something that everyone perceives differently and has their own definition of. Don’t get too caught up in the ‘game’ of it all. The whole thing is changing constantly anyway and so are we.[/tab]
[/tabgroup]