Mi è capitato recentemente, e penso di non essere stato l’unico, di buttare l’occhio sulla speciale reunion di Natale tra Flavio Tranquillo e Federico Buffa, senza timore di smentita le voci della pallacanestro (soprattutto NBA) della nostra generazione. E tra un “flu game” di qua ed un “figlio di Jellybean” di là, si è anche parlato tanto di All Star Game. Evento che, per altro, si giocherà giusto fra due settimane. E si menzionava quanto oggi si tenda a declassarlo, come fosse qualcosa di cui si può tranquillamente anche fare a meno, qualcosa che “sì, è vero, ci sono tutti i Campioni, ma alla fine che palle, è sempre la stessa roba” e via discorrendo.
Se dovessi affibbiare una definizione di questo genere ad un festival, in particolare fra quelli che siamo soliti trattare sulle nostre pagine, sicuramente il Time Warp sarebbe un candidato ideale. Non nascondiamoci dietro un dito, molti di noi (non voglio dire tutti per non prendermi la responsabilità di rappresentare un’intera categoria di persone) quando, come accaduto in queste ore, scorrono l’annuncio della line up del festival di Mannheim, tendono ad avere una reazione di sufficienza tipica di chi pensa che va bene tutti i big, va bene la grotta, gli impianti, l’organizzazione impeccabile, ma alla fine tutto si riduce ad un sentimento di disillusione, tutto viene convogliato in un distaccato “già visto, già fatto, che palle”.
E qui mi viene ancora in aiuto il Flavione nazionale che, giustamente, ricordava l’incredibile emozione che (ormai qualche decade fa) provava nel poter anche solo intercettare (sulle frequenze delle basi NATO riservate ai soldati americani in missione in Europa) le radiocronache di quelle sfide tra giganti che sembravano provenire da un altro pianeta, da un mondo cesellato dalla perfida penna di un narratore di libri fantasy. E che quanto, di contro, questo sentimento di tedio generatosi negli ultimi anni, sia direttamente proporzionale alla facilità con cui un certo tipo di avvenimenti sono divenuti reperibili ed assimilabili da parte del grande pubblico. In una maniera che, fino a qualche tempo fa, era totalmente inimmaginabile. E non c’è bisogno di andare indietro così tanto.
Ricordo nitidamente, nella mia soggettiva (e ben più moderna rispetto a Tranquillo) versione di questa storia, di aver passato settimane intere a sentire i primi rip in digitale dei set di festival come Time Warp e I Love Techno nei primi anni 2000, cercando di immaginarmi (prima che YouTube decidesse di rovinare tutto negli anni successivi) che mondo pazzesco si celasse al di là di quell’audio in bassa qualità che faceva palpitare il mio animo di ragazzino. I luoghi citati erano (nella migliore ipotesi) visibili solo tramite qualche foto sulle riviste o sui primi abbozzi di forum. Ambientazioni tratte da una novella che prendevano vita nella mia immaginazione solo grazie alla (ben poca, se paragonata ad oggi) musica a cui potevo avere accesso. Ed è stato così fino a che, fra le pagine di quella storia, non ci sono potuto entrare con tutte le scarpe qualche anno dopo. Come una sorta di viaggio nella tana del Bianconiglio. E lì ho capito che era tutto vero, che il Time Warp non era più un’entità distante ed intangibile ed allo stesso tempo che mi trovavo al cospetto di qualcosa di diametralmente opposto rispetto a qualunque altra esperienza avessi vissuto nella mia breve avventura come clubber, pressochè circoscritta ai locali del nord Italia. Ricordo di aver varcato le porte della sala 1 e di aver chiuso gli occhi per un attimo, cercando di richiamare le fantasie degli anni precedenti, e poi di averli aperti di scatto e di aver pensato “Cazzo, sono qui per davvero.”. Ed ho ancora viva dentro di me l’emozione nel sentire per la prima volta dal vivo tracce come “Pontapè” di Renato Cohen o “Artology” di Johannes Heil, nel vedere Sven Väth fare stage diving nuotando in un mezzo ad un mare di folla impazzita mentre Richie Hawtin continuava a suonare come se nulla fosse, nel farmi strapazzare i timpani dall’impetuosa hard techno di DJ Murphy e Robert Natus nella sala più scura della Maimarkthalle.
Ci sono poi tornato altre volte negli anni successivi e nonostante abbia visitato tanti altri festival in seguito, molti dei momenti che mi hanno spinto e che mi spingono ancora ad andare in giro sono spesso riconducibili a quelle quattro mura. La luce che si faceva largo fra i vetri della sala 5 mentre Karotte e Laurent Garnier mettevano “You Make Me Feel” di Sylvester e “I Feel Love” di Donna Summer, come allo stesso modo i set monumentali di Richie Hawtin a chiudere e tanti, tantissimi altri momenti che molti di voi che state leggendo starete sicuramente elencando nella vostra testa. E proprio perché sono stati momenti così forti dal punto di vista emotivo, per varie ragioni, dopo quasi dieci anni da quella prima volta e con qualche festival in più sulla coscienza, non posso fare a meno di pensare che difficilmente riuscirò ad approcciarmi ad un evento legato alla musica elettronica di quelle proporzioni con la stessa spensieratezza, con quella scintilla di incoscienza che ormai così di rado riesce a farsi breccia in un’attitudine necessariamente più matura e critica.
Con questo non voglio dire che allora se non fate il Time Warp ogni anno siete degli stronzi o degli irriconoscenti. Oppure che se non avete vissuto quell’esperienza non potrete mai apprezzare o capire a pieno la club culture. Non mi passerebbe neanche per l’anticamera del cervello di pensarlo. Anche perché se no, giustamente, ci sarebbe da andare moooolto più indietro per trovare delle risposte. Ovviamente questo non sposta di una virgola il concetto che se oggi l’Europa può vantare una scena legata ai festival di qualità formidabile è anche grazie a chi, come Time Warp, ha spianato la strada, ha ispirato una generazione di ragazzi che poi hanno portato quanto appreso nei rispettivi Paesi e creato qualcosa di simile, ha favorito la crescita di credibilità della scena portandola oggi alle dimensioni che tutti percepiamo.
Per questo motivo, proviamo a fare un esercizio di gruppo: ogni qual volta penseremo, guardando la nuova line up del Time Warp, che in fin dei conti ci son sempre gli stessi nomi in campo, che il pubblico non sarà il più appassionato e competente che si possa trovare, che l’esperienza sarà molto spesso simile alle precedenti, prendiamoci cinque minuti per ricordare cosa ha significato vivere una festa del genere quando non avevamo niente di niente. Proviamo a riportare la mente a quanto, anno dopo anno, vivere quell’esperienza ci ha fatto accumulare montagne di momenti preziosi che ci hanno aiutato in seguito a proseguire nel nostro processo di crescita come clubber. Proviamo a pensare che, in fondo, siamo stati davvero fortunati.