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Una conversazione a due. Perché di chiacchiericcio attorno a Kendrick Lamar se ne sta generando in quantità industriali: ci sta, visto che abbiamo a che fare con una release discografica davvero importante. Importante per il nome dell’artista, per la sua fama (in continua ascesa), per l’hype che è stato in grado di generare attorno a sé anche combinando featuring non stancamente pop ma invece felicemente di qualità (Flying Lotus alle produzioni, Thundercat, Bilal… eroi della “nostra” musica black); ma importante anche per l’esito finale,
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perché “To Pimp A Butterfly” non è solo l’ennesimo disco hip hop da classifica. E’ tutt’altro. E’ molto di più. E’ la spinta per una serie di considerazioni non solo prettamente musicale su cui i nostri Emiliano Colasanti e Damir Ivic si sono misurati, in uno scambio serrato. Insomma, non il solito articolo, non la solita recensione, non la solita celebrazione dell’ennesimo ego trip nel campo del rap americano. Abbiamo avuto di più, vogliamo ragionare di più.
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Se non ricordo male, il primo disco di Kendrick Lamar non ti aveva per niente convinto. Io stesso, lo ammetto, sono rimasto parecchio colpito dal tipo di accoglienza che aveva ricevuto: è stato vissuto come un nuovo miracolo in terra non tanto per meriti suoi, ma per il triste stato in cui versa da tempo l’hip hop mainstream americano. Sei d’accordo? Ammetto però di avere apprezzato tutto quello che è accaduto immediatamente dopo, intorno alla figura di Kendrick Lamar: il modo in cui ha gestito il successo e il percorso di crescita che arriva a compimento proprio con questo nuovo album. Da un certo punto in poi non ha sbagliato più niente.
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Ti dirò, più che il primo disco era il tipo di bolla che vedevo attorno a lui. Me la sbrigo in due punti: uno, a livello di disco avevo trovato molto più interessante A$ap Rocky, se stiamo più o meno nelle stesse parrocchie; due, l’avevo visto dal vivo Kendrick Lamar, e francamente – soprattutto a Milano, dove un certo tipo di hype “urban” attecchisce peggio della gramigna – per quanto la gente mi aveva parlato e straparlato di lui come se fosse una Rivelazione Ultraterrena avevo visto dei Magazzini Generali ben lontani dall’essere sold out e un mc ben lontano dalla perfetta padronanza del palco. Ti do ragione comunque sia nella diagnosi (il perché Lamar sia stato così valutato, o volendo sopravvalutato: sì, l’hip hop in media faceva/fa talmente schifo che pure Lamar pareva/pare un genio) che nell’analisi (su come Lamar ha gestito il successo). E devo dire che con questo album la gestione raggiunge lo zenith della perfezione, in un modo tra l’altro per nulla scontato. Io però vorrei parlarti di Kanye West. Che non c’entra, ma c’entra. Hai capito perché te ne voglio parlare?
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Credo di sì: le due figure sono in qualche modo speculari, eppure diametralmente opposte. Io ho grande rispetto per il Kanye musicista, ma credo che nella sua carriera, e soprattutto nella gestione della sua sconfinata personalità pubblica, ci sia stata una specie di linea netta. Un prima e un dopo. Il cambiamento per me coincide con il famoso intervento contro Bush durante lo show-memorial per le vittime dell’uragano Katrina. È come se in quel momento Kanye abbia acquistato una sicurezza diversa dei suoi mezzi che l’ha portato poi a diventare il Kanye che tutti conosciamo. Quella sera ha smesso di essere solo un musicista di talento – discontinuo – e si è trasformato in questa strana caricatura di un semi-dio che alterna lampi di assoluta genialità a cadute di stile incredibili. Voleva essere la voce di una comunità ed è diventato l’uomo sandwich di se stesso. Un brand ambulante. Kendrick Lamar ha invece fatto il percorso opposto: si è trasformato in un megafono. È diventato “il campione della gente”, un po’ come Muhammad Ali e Mike Tyson: un catalizzatore.
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Ma guarda, io ti parlavo proprio di musica. Per come la vedo io, il successo iniziale di Kanye si spiega con la voglia (latente, inconscia) del pubblico di tornare ad avere un hip hop un minimo creativo, lontano dai cliché da classifica di Billboard. Kanye è stato l’uomo giusto al momento giusto. Peccato solo – e qua parliamo sempre di musica – che non abbia spinto fino in fondo questa sua attitudine, e da un certo momento in avanti abbia flirtato pesantemente coi suoni che-vanno-per-la-maggiore, facendolo per fortuna in un modo molto suo e molto stralunato (in questo, essere entrato nell’Ego Trip di cui parli è stato benefico), cosa che lo ha fatto restare molto interessante musicalmente. Ecco: di quella voglia di ritorno ad un hip hop creativo, non omologato, debitore di un certo tipo di “eleganza” jazzy che ha fatto la fortuna di A Tribe Called Quest e De La Soul, Kendrick con questo disco è l’erede totale. Non solo l’erede, ma in realtà molto di più: perché su questo aspetto ha spinto veramente tanto, sorprendentemente tanto. Onestamente? Non me l’aspettavo. Il risultato è bello. Non bellissimo, non ai vertici (perché musicalmente parlando “Bizzarre Ride II The Pharcyde” ancora oggi se lo magna a colazione, questo disco di Lamar), ma molto bello. Mi secca già ora pensare a quanti parleranno di “capolavoro”, di “genio”, di “nessuno ha mai pensato un disco così”, perché sarà come entusiasmarsi per Gabbiadini senza aver mai visto all’opera Rummenigge. Però oh, si sa che di questi tempi va così. Il disco resta bello, molto, e su questo non ci piove. Ok, qui ho parlato soprattutto di musica. Ti cedo l’onore e l’onere di iniziare a parlare tu dell’aspetto testuale e di iconografia-di-un-mc?
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Le tre cose – l’aspetto musicale, quello prettamente lirico e quello iconografico – sono perfettamente fuse insieme. Tutto è calibrato, niente è fuori posto, pensatissimo eppure molto “di pancia”. Il focus del disco, secondo me, è proprio questo equilibrio tra ragione e istinto che traspare in ogni rima, in ogni beat. E non parlariamo poi della copertina: per me davvero potente e concettuale. Per certi versi “To Pimp a Butterfly” (titolo bellissimo e letterario, che fa il verso a “To Kill a Mockingbird”) è il gemello perfetto di “Black Messiah” di D’angelo. C’è lo stesso approccio antologico alla black music. Più che un album hip hop è un piccolo saggio di cultura afroamericana che non scade nelle celebrazioni e cerca di seminare dubbi. Sui testi di Kendrick si è detto e scritto tantissimo, al punto che si è scomodato anche un Premio Pulitzer come Michael Chabon. È il rapper perfetto per la generazione “Genius”. Lamar fa un uso incredibile di figure retoriche e citazioni, è cinematografico e convoluto. Ogni verso si presta a differenti chiavi di lettura, eppure riesce a essere anche efficace e diretto. Prendi “The Blacker The Berry”, potrebbe sembrare il classico pezzo “proud” e invece è molto duro proprio con la sua comunità di appartenenza e soprattutto con sé stesso. Ma è sempre stato così, lo era anche nell’album precedente. Un po’ come quando scrive di non avere tempo per fumare erba, perché troppo impegnato a vendere crack e per crack intende la musica, le sue canzoni, e l’effetto che fanno sulle persone che le ascoltano. Prende un cliché (quello del rapper spaccino) e lo ribalta. Butto lì una provocazione: esiste un Kendrick Lamar italiano? E poi, parliamo di Flying Lotus e del suo ruolo nel disco?
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“Black Messiah” lo sai che mi è piaciuto molto, e ora che lo metti in campo ti posso però dire: sì, “To Pimp A Butterlfly” ha gli stessi pregi e gli stessi limiti del disco di ?uestlove, pardon, di D’Angelo. Ovvero: sono dischi tremendamente “intelligenti”. Dischi dove è tutto al proprio posto, anche quando fa finta di non esserlo. Dischi che sono perfetti per piacere ai critici musicali e agli ascoltatori più acculturati, con però abbastanza carne al fuoco dozzinale (D’Angelo e la sua aura e il fisico che sfoggiava quindici anni fa, Kendrick Lamar il fatto che sia un rapper, i rapper tirano ancora e fanno ancora chic nell’immaginario pop), quella che ti garantisce di non essere il solito stronzo che piace ai soliti quattro stronzi. Gli manca però la follia: quella che ti fa fare – e fa fare alla scena musicale intera – un passo in avanti, segnando nuove ere, nuovi suoni radicalmente diversi, o almeno lasciandosi dietro un culto che accrescerà col tempo. Nessuna di queste cose verrà fatta dai dischi in questione. Purtroppo. Perché davvero, scrivendo questo non voglio sminuirli; tuttavia non posso fare a meno di notarlo.
Per quanto riguarda Flying Lotus è giusto spendere due parole, hai ragione: la sua visione musicale – che è quella di una persona che conosce tanta musica e si fa tante canne – sta entrando nel mainstream, tramite Kendrick, tramite Snoop. Ecco, dai, questo magari potrebbe essere il lascito di “To Pimp A Butterfly” che potrebbe smentire le mie parole di cui sopra, facendolo diventare così un disco-pietro-miliare: diventare la release che sancisce che una visone musicale à la Flying Lotus è spendibile nel mainstream. Non credo che avverrà, non credo che l’album ne abbia le forze, ma se così fosse potrebbe diventare l'”Ok Computer” dell’hip hop. O l'”Alcachofa”, tanto per stare nell’elettronica. Un disco cioè che dimostra che una visione sottile, elaborata, cerebrale può diventare potabile per le grandi masse.
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Noto che hai svicolato alla domanda sul possibile Kendrick italiano. Direi che hai fatto bene. Se ci pensi la storia della musica è piena di piccole e grandi rivoluzioni partite proprio da dischi del genere. Album che non nascevano come innovativi, ma che riuscivano comunque ad alzare il livello grazie all’impatto che avevano sul pubblico e soprattutto sugli altri musicisti. Qualche giorno fa ho avuto una piccola discussione in merito con Teho Teardo: lui sosteneva che quelli come Kendrick Lamar hanno comunque il grande difetto di guardare sempre al passato e poco al futuro. E faceva il paragone con i Clouddead, secondo lui ultimi e unici innovatori di un hip hop da troppo tempo fermo su stesso. Quello dei Clouddead per quanto mi riguarda è un esempio sbagliato e il loro passaggio non ha avuto nessuna ripercussione sul corso degli eventi hip hop: era di base musica indie, fatta essenzialmente da bianchi per altri bianchi di classe media e cultura elevata. Hanno abbattuto degli steccati, ma lo hanno fatto sempre restando nel loro ambito. Mentre Flying Lotus, e per certi versi anche Hudson Mohawke che di certo è meno celebrale e più incline all’intrattenimento, potrebbero avere un ruolo anche nell’evoluzione di quella strana cosa che chiamiamo pop. O mainstream. O fai tu. Un’altra cosa interessante, secondo me, riguarda l’uso e le scelte di alcuni campioni: era già successo che gente come Sufjan Stevens o i Radiohead venisse usata nelle basi di un album di questo tipo (penso ai Roots), ma quasi mai con questo gusto e questa intelligenza. Più che sampler quelli sono dei “cavalli di Troia”. D’altronde anche l’album precedente di Kendrick Lamar aveva dei campionamenti da applausi a scena aperta. Ah, sempre per restare nella musica, non sottovalutiamo il ruolo di Thundercat. Il suo basso è uno dei perni intorno al quale ruotano moltissime delle idee di “To Pimp a Butterfly”. E qui torna l’analogia con D’angelo e con quello che fa Pino Palladino su “Black Messiah”.
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Questo discorso sui Clouddead mi ricorda qualcosa… o qualcuno… Tipo uno slavo che tifa Hellas Verona e da anni scrive su Soundwall… Lo conosci?! Sì insomma, sono d’accordo su ogni parola. Hai ragione tra l’altro, lo svicolamento sull’italiano è stato forse freudiano. Credo che al momento nessuno abbia la visione a trecentosessanta gradi che c’è in “To Pimp A Butterfly” qua da noi, neanche in scala. Fibra avrebbe la teatralità (ma troppo tempo che si svende musicalmente ai suoni radiofonici), Ghemon avrebbe l’eleganza (ma dovrebbe imparare ad essere più morboso e maleducato, e non so se abbia voglia, capacità o gli possa interessare). Questi sono gli unici che mi sono venuti in mente. Di sicuro qualcuno ci proverà, ad imitare Kendrick. Ma non ora. Fra due anni. Il solito ritardo fisiologico, che ancora non siamo riusciti a colmare. Con la scena che abbiamo, qua in Italia, ragionando nel concreto, la cosa interessante ed innovativa che si potrebbe fare ora è creare dei ponti fra la scena beats e voci fresche al microfono. Un territorio ancora inesplorato (…vuole il caso che ho parlato di questa cosa con tre persone diverse, negli ultimi dieci giorni: secondo me qualcosa c’è nell’aria). Di sicuro, che “il” disco importante dell’hip hop mondiale di questi mesi sia un disco “non omologato” come quello di Lamar è un aiuto, uno stimolo ad uscire fuori dagli schemi, nonché una bella notizia in sé. Non saranno certo Jay-Z e Kanye a farti uscire dagli schemi, men che meno saranno – allargando lo spettro alla musica black in generale – Beyoncé o Pharrell. Non credo che Kendrick venderà quanto loro. Lo spero, ma non lo credo. Se sarà ancora “tra noi”, non gliene importerà nulla; se l’abbiamo perso, si farà prendere dalle paranoie per non aver venduto abbastanza, perché di sicuro “To Pimp A Butterfly” non venderà abbastanza. Ne parleranno tutti, ne stiamo parlando tutti; ma non venderà abbastanza.
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Dici? Io sono convinto del contrario. In fin dei conti anche il disco precedente, quand’è uscito, era l’esatto opposto dell’hip hop in voga e in classifica in quel momento, e nonostante tutto è andato molto bene e ora viene identificato come l’equivalente di “Illmatic” per la nuova generazione”. Ma poi, davvero, quanto conta ormai vendere? Lo stesso Kanye non fa numeroni da “Stronger” ma non si può certo dire che il suo peso nella cultura pop di questi anni sia diminuito, anzi. E anche lui, bisogna ammetterlo, è stato coraggioso nel seguire le sue ambizioni: “Yeezus” era un disco che osava, e se decidi di fare un disco così evidentemente sai già che puoi permetterti di non dovere più per forza collezionare hit. D’altronde la scelta di campo che Kendrick Lamar ha voluto compiere è sotto gli occhi di tutti: non c’è una “Bitch, Don’t Kill My Vibe” e neanche una “Swimming Pools”, non ci sono singoloni. Addirittura quelli che sono usciti prima dell’album compaiono in una versione diversa che sembra essere stata fatta appositamente per farli sembrare un corpo unico con il resto del disco. E poi, oh, uno che fa un pezzo di dodici minuti in cui a un certo punto la musica si ferma e il brano si trasforma in un’intervista a 2Pac(!), quanto può essere interessato a vendere?. Ah, stavo leggendo l’intervista che è appena uscita per il Times e mi ha colpito un passaggio:
“You can tell a person about fame and fortune all you want, but until you’re really in it and you know the person that you can become …”
he said, trailing off.
“I know every artist feels this way, but in order for it to come across on record for your average 9-to-5-er is the tricky part,”
he said.
“I have to make it where you truly understand: This is me pouring out my soul on the record. You’re gonna feel it because you too have pain. It might not be like mine, but you’re gonna feel it.”
In pratica si è passati direttamente dal rincorrere il mito del
successo e dell’abbondanza a pagarne le conseguenze. Ecco, gli unici a non pensarla così sembrano proprio i rapper italiani. E per tornare al discorso di prima: io un euro su Marracash ce lo metto, nel suo ultimo disco ci sono già delle aperture in tal senso, soprattutto dal punto di vista testuale (anche se forse lui punta più a Kanye). Mi chiedo se anche da noi ci sia lo spazio per un disco rap così “musicale”, ma purtroppo credo di sapere già la risposta. (L’altro papabile, forse l’unico, è Rancore che con Kendrick Lamar condivide l’approccio più cerebrale e nervoso, anche se pare destinato a restare sempre la voce fuori dal coro).
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Mi vuoi dire che l’hip hop sta abbracciando una svolta emo? Guarda: ci sto. In realtà, è esattamente quello che ho pensato in molti passaggi di “To Pimp A Butterfly”. Almeno è un emo che suona bene, dove la musica è un fattore e per giunta è un fattore che evidentemente richiede eleganza, scelte ricercate. Quindi massì, viva la svolta emo nell’hip hop: stavolta giocata davvero dai pesci grossi della (nuova) onda, non una speculazione mediatica minoritaria come appunto le robe alla Clouddead. Del resto se abbiamo i Frank Ocean, lo stereotipo del rapper-che-non-deve-chiedere-mai penso sia definitivamente pronto per essere pensionato. Kendrick Lamar ha staccato forse la seconda cedola INPS.
Riguardo al tuo euro su Marracash (lo sapevo: io sono prevedibile per te, tu sei prevedibile per me), secondo me potresti anche avere ragione ma ti dirò, io il mio euro me lo tengo per ora nel portafogli. Voglio vedere come galleggerà quando il rap italiano così com’è adesso entrerà definitivamente in crisi, affrontando un drastico calo di presenze ai live e d’interesse: lì si vedrà il vero spessore degli artisti. Marra finora ha fatto tutto bene, cavalcando in modo intelligente l’onda e non sbracando come per dire hanno sbracato – ahi loro – i Dogo (che pure avrebbero i mezzi per far cose intelligenti); ma vediamo ora come butta. Vediamo l’effetto che fa suonare ogni tanto di fronte a cento persone invece che sempre di fronte a tremila. Perché capiterà. E non sempre puoi decidere di non salire sul palco. Pure ascoltare “To Pimp A Butterfly” questo te lo potrà far capire…
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