La kefiah, una tunica da emiro, i baffoni neri alla Jack Nicholson dei tempi che furono e un occhiale da sole coatto inforcato sui tratti arcigni di un viso scartavetrato dal tabacco e dall’età. L’avete riconosciuto? L’identikit è proprio quello di Omar Souleyman, che ha ieri annunciato l’uscita del suo terzo album, “To Sirya, With Love”, che avrà luce il 2 Giugno via Mad Decent, label – per farvi capire – che ha prodotto gente tipo Sean Paul e Major Lazer (sì, la cosa appare un tantino strana).
“Esotico”, quantomeno bizzarro, quello che a tutti gli effetti potrebbe sembrare un santone da folclore, un personaggio uscito da qualche stramba pellicola cinematografica, questo artista siriano (e sunnita) è penetrato nei circuiti commerciali occidentali grazie al fascino che la sua musica ha esercitato prima su Bjork, poi sui Modeselektor – che su Monkeytown hanno sfornato nel 2015 quello che era il suo ultimo album, “Bahdeni Nahmi”- e su un certo Four Tet, che in quanto a esotismi e pervasività di orientalismi nella musica elettronica “nostrana” non è secondo a nessuno (quanti al primo ascolto non hanno odiato quella litania modulata dalla voce indiana con cui attaccava e proseguiva “Morning”?!).
Non è che il buon Omar piaccia proprio a tutti dalle nostre parti, in realtà. Diciamolo pure. E anzi, all’orecchio europeo, poco avvezzo ad un certo tipo di armonia, quel suono metallico del saz e quella voce strascicata tipica del dabke – grossolanamente i cori e i canti intonati durante le festività nuziali nella tradizione egizio-siriana e da cui la carriera di Souleyman ha preso l’abbrivio – suonano quasi con una punta di trash. Solita discrasia tra culture diverse? Probabile, perché come spesso accade l’originalità in questi casi si nasconde altrove, dove il fruitore “diverso” fatica a ritrovarla: nella parola e qui meglio, nel connubio tra versi d’amore – redatti negli anni da diversi poeti che hanno spalleggiato le produzioni di Souleyman – e ritmiche incisive e festaiole che facilmente si prestano alla pista da ballo.
Questi, più o meno, i tratti caratteristici che ci consegnano quel filo rosso che da “Wenu Wenu” – primo giro sulla lunga gittata del 2013 e prodotto appunto da Four Tet – arriva sino a “To Syria, To Love”, come bene esemplifica anche il titolo della suddetta release. Nulla di nuovo sotto al sole, sembra, se non che il rinnovato occhio di riguardo per le radici del luogo natio rischia di assumere un nuovo significato per quello che ad oggi la Siria rappresenta in ottica geopolitica.