JAZZMI non molla. Facendo slalom tra le ordinanze e rispettando sempre le massime forme di prudenza, è riuscito a districarsi nel mutato contesto legislativo – con la Lombardia sottoposta a coprifuoco – e a tenere in piedi la rassegna, mantenendo un livello qualitativo praticamente intatto. Bravissimi, eroici. Fra i cambiamenti “necessari”, c’è anche quello legato all’esibizione del Collettivo Immaginario guidato da Tommaso Cappellato (spostato a sabato 24, alle 12: comunque trovate tutto qui). Esibizione da segnare subito col circoletto rosso, se siete abituati a seguire le nostre pagine: la storia di Tommaso si intreccia infatti con quel jazz più “modernista”, capace di guardare – con un pezzo di DNA nel jazz più cosmico e contaminato degli anni ’70 – al futuro, se serve all’elettronica, alla contaminazione coi linguaggi iper-contemporanei. Non è un caso se fra i legami storici di Tommaso (per collaborazioni, per sessioni di mixing e mastering) ci sono artisti come Donato Dozzy e Rabih Beaini; non è un caso se ha suonato in festival come Jazz:Re:Found e Dancity, probabilmente più ancora che nei canonici festival jazz (e di questo ne parliamo, infatti). Sia come sia, un musicista dalla personalità molto “forte” ed interessante – questa nostra chiacchierata lo dimostra pienamente.
Ci stiamo sentendo ora che arriva la seconda ondata di Coronavirus, almeno qui in Italia, e ci si sta districando fra le varie misure cercando di salvare il salvabile, per riuscire a “conquistare” senza rischi e senza negazionismi stupidi un po’ di vita normale alla pandemia. Ma durante la prima ondata, tu come te la sei passata?
Eh, è stato complicato. Ero appena arrivato negli Stati Uniti – devo regolarmente passare dei periodi negli Stati Uniti, per mantenere la Green Card, oltre al fatto che mi fa piacere e trovo pure stimolante farlo – ed ero ancora in una fase logisticamente precaria, dovevo ancora sistemarmi per bene, quando ho visto subito che era il caso di tornare in Italia dato che si andava spediti verso un blocco totale, stiamo parlando di metà marzo. Una volta rientrato a casa, ovviamente i primi mesi sono rimasto serrato in casa, come tutti. Ne ho approfittato per lavorare su cose che avevo in cantiere già da tempo, come ad esempio un disco da tirare fuori da una residenza artistica di venticinque giorni, datata due anni fa, a New York, al Pioneer Works. Praticamente è un seguito ideale di “Aforemention”, il mio album uscito nel 2016, con l’aggiunta di una serie di ospiti che passavano a far visita, tutta gente forte del giro newyorkese che in quei giorni passava di là: Jaimie Branch, Michael Blake, Afrikan Sciences… Credo che per l’anno prossimo arriverà la release. Su una mia etichetta personale.
(“Aforemention”; continua sotto)
Ah! Pure tu te ne fai una!
Trovo sia un tentativo necessario da fare. Per il tipo di musica che porto avanti io, penso sia obbligatorio provare ad esplorare le potenzialità di un modello di business dove, tolti i costi, l’eventuale margine finisce tutto in mano propria. Perché quando c’è una label altrui di mezzo, giustamente, il 50% dei guadagni oltre ai costi finisce in mano alla label stessa; vorrei però capire se cambiando dinamiche e scegliendo la modalità per cui sono io a tenermi i guadagni c’è modo di rendere tutto più sostenibile e profittevole.
Ah be’, preparati ad affrontare un mare di seccature burocratiche, logistiche, contabili.
Per fortuna ci sono i ragazzi della Mother Tongue che mi fanno un po’ da back up sulle questioni di questo tipo! Per quanto riguarda contabilità, fiscalità e simili mi potrò appoggiare a loro, infatti. In questo momento le cose gli stanno andando bene, nonostante il lockdown: non si sono mai dovuti fermare, la loro fortuna è che hanno anche la loro pressing plant interna. Ad ogni modo, l’inizio per la mia label sarà ragionevolmente tranquillo: una o due uscite, poi vediamo. Prima il disco del Collettivo Immaginario, poi questa cosa del Pioneer Works.
Ecco, il Collettivo Immaginario, che poi è la formazione con cui arrivi a Milano a JAZZMI: come nasce questo progetto?
Beh, la storia è divertente. Inizia tutto a Padova, nel 2018, in una fase in cui ero particolarmente voglioso di suonare. Da batterista, volevo costruirmi attorno una formazione fissa con cui esprimermi e sfogarmi stabilmente, anche quando non c’erano tour specifici di mezzo (che possono essere qualcosa di molto complesso e lungo da organizzare, con tempi d’attesa snervanti, e la necessità magari pure di accettare alcune date che di tuo non avresti fatto). Considerando che a Padova, dove risiedo, da una decina d’anni c’è una nuova ondata di musicisti davvero bravissimi, una cosa un tempo inimmaginabile per quantità e qualità, mi sono detto: oh, qua bisogna approfittarne, bisogna attingere. Anche perché sono non solo musicisti bravi, ma sono anche gran belle persone. Quindi ecco, ho iniziato a fare una serie di… mah, non li chiamerei nemmeno provini, non le chiamerei nemmeno audizioni: delle suonate assieme. Con due in particolare, Alberto Lincetto alle tastiere e Nicolò Masetto al basso, mi sono trovato alla grande, e da lì abbiamo dato vita al tutto. Tra l’altro Nicolò lo conosci già, era nella “Leggenda del Molleggiato”, quando abbiamo costruito tutto ad Hydro, a Biella… Accidenti, hai visto cosa è successo?
Sì. E’ davvero terribile. Ma so che stanno già lavorando per ripartire.
Grandi! Ad ogni modo, con Alberto e Nicolò abbiamo iniziato a lavorare sia su mio materiale originale, composizioni mie cioè, sia a fare improvvisazione radicale. Seguendo questi due fronti abbiamo piano piano cesellato un sound “nostro”. Pochi mesi più tardi, per me arrivava il momento di fare la mia solita sortita “burocratica” in America, come già ti dicevo, per motivi di Green Card. C’ho pensato un attimo, e un giorno me ne sono venuto fuori con loro dicendo: “Io devo andare a Los Angeles, e ci sto una settimana. Ma come la vedete se voi vi sobbarcate le spese di viaggio, io vi trovo da dormire, e magari riusciamo anche a fare un paio di suonate in giro?”.
Hanno detto di sì?
Subito. E una sera ci siamo trovati su un palco al Del Monte Speakeasy, a Venice Beach, grazie a Carlos Niño, sono comparsi pure ad unirsi a noi Dwight Trible e una rapper bravissima, emoniFela (la conoscono ancora in pochi, ma è eccezionale), oltre a un trombettista che è una presenza molto attiva nel giro californiano, Todd Simon. Volendo, questi sono stati gli esordi veri e propri del Collettivo Immaginario. Due date nate quasi per caso. Successivamente non abbiamo fatto molto pubblicamente, giusto un paio di concerti, ma abbiamo lavorato parecchio in studio. Uno dei frutti di questo lavoro è già in circolazione: una traccia per la raccolta “Music! Muzik! Musique” con ospite alla voce un mio amico newrorkese, Chauncey Yearwood. E’ una compilation molto bella. Ad ogni modo, come ti dicevo, stiamo lavorando proprio ad un disco nostro.
(Eccola, “Music! Muzik! Musique!”; continua sotto)
Come ti trovi a fare da band leader?
Non è la prima volta che succede. Di sicuro, però, nel portare avanti questo ruolo ora sono molto maturato. Prima ancora che musicalmente, direi maturato umanamente. Sai, io di carattere sono uno molto impulsivo, impaziente, impetuoso; invece quando sei un band leader devi imparare anche a metterti nei panni degli altri, magari di persone che hanno meno esperienza di te (cosa che non è certo una colpa). Bisogna essere molto pazienti, molto!, e devi imparare a saperti spiegare, perché cose che a te sembrano ovvie e chiare non c’è scritto da nessuna parte che lo debbano essere per forza anche per gli altri. Devi imparare ad essere molto empatico, ecco. A me piace davvero tanto suonare con Alberto e Nicolò: e questo prima di tutto perché mi piacciono come persone. Ok la tecnica, e già su quello loro sono super, ma quello che è figo è quello che hanno in testa, quello che hanno nel cuore. Una band deve essere un percorso umano di crescita collettiva. Anche la scelta di Collettivo Immaginario, come nome, è stato un percorso. Trovo il risultato sia azzeccato: perché nella nostra musica “immaginiamo” molto, e poi perché “Collettivo Immaginario” è l’esatto opposto di “Immaginario collettivo” – noi andiamo esattamente nella direzione opposta rispetto alla maggioranza.
A proposito di immaginario: come vi ponete nei confronti dell’immaginario che tradizionalmente connota la musica jazz, nella sua parte più iconica insomma?
Ovviamente verso i grandi maestri c’è solo profondo rispetto ed autentica devozione. Le nostre radici stanno lì dove sono state “disegnate” dai grandi maestri del jazz: vale per tutti noi tre. Da sempre, diamo grande attenzione allo studio della tradizione. Ma il punto è: cosa è davvero la “tradizione”? Se ci pensi, è un concetto mutevole. Negli anni ’60 la tradizione era Duke Ellington…
…mentre negli anni ’80, ‘90 era Charlie Parker, per dire.
Esatto. Negli anni ’60 Parker e Coltrane erano una rivoluzione, oggi sono tradizione. Per noi, per il nostro modo di esprimerci, la “tradizione” è Herbie Hancock, Sun Ra, gli Azymuth… ecco, sì, gli Azymuth sono molto importanti, perché essendo un trio con un Fender Rhodes e con dei sintetizzatori il rischio è sempre quello di pestare delle merde musicalmente parlando, diventare cioè troppo “cheesy”…
(Anno 2020: Tommaso Cappellato guida un intenso omaggio a Sun Ra)
Ah bella ‘sta immagine del “pestare delle merde”!
Naturalmente non sto dando della merda a specifici gruppi o artisti, eh, ci tengo a specificarlo.
Chiaro, chiaro. Ma il discorso è, appunto, musicalmente molto interessante.
Lo sapevo che c’avresti insistito sopra (ride, NdI)…
Eh be’. La domanda infatti non può che essere: quali quante sono nel jazz le “merde pestate” in giro, oggi?
Il mondo è talmente vasto che le puttanate sono tante, no? Che dire… A costo di risultare arrogante, vorrei soffermarmi sul discorso dell’hype: ci sono nomi che sono davvero sotto hype assoluto e poi però vai a sentirli suonare e… raramente vieni via dicendo “Minchia, mi ha spettinato”. Insomma, se raffronti il chiacchiericcio che c’è attorno a certa gente, i cachet che arrivano a prendere… non c’è una correlazione diretta con la qualità, anzi, spesso è proprio il contrario. Per un nome molto celebrato, spesso e volentieri ce ne sono almeno dieci che sono, in realtà, molto più interessanti. E sai qual è la cosa più divertente?
Vai.
Che proprio gli artisti più hyped, più “favoriti”, sono i primi a non sapersi spiegare il motivo del loro successo.
Non è che per caso anche nel jazz stanno entrando i meccanismi comunicativi/promozionali che ci sono nell’elettronica o nel pop? Che poi sarebbe strano, visto che storicamente la critica musicale legata al jazz si picca di essere (e in molti casi lo è…) la più preparata, la più rigida.
Guarda, ti dico solo una cosa: più vado avanti, più capisco che non esiste una regola precisa legata all’esplosione di questa o quella moda. Il punto alla fine si riduce a: fare la cosa giusta, al momento giusto. Stop. E questo è qualcosa che capita quasi sempre per caso. Nel mio piccolo, ti racconto un aneddoto che credo inquadri bene la questione. Era il 1999, mi trovavo a New York perché stavo facendo i miei studi alla New School. Capitò che uno dei miei migliori amici mi venne a trovare, per stare lì due, tre mesi: Matteo Alfonso, pianista bravissimo, ora insegna al Conservatorio di Venezia. Vuole il caso che suo padre fosse il direttore dell’Harry’s Bar a Venezia di Cipriani; carinissimo, ci organizzò una cena al Cipriani che aveva appena aperto a New York, alla Rainbow Room del Rockfeller Center, posto fantastico, sessantacinquesimo piano, vista sulla Torri Gemelle, sull’Empire State Building, sulla Chrysler Tower… pazzesco. Bene: come house band, a suonare lì, c’era un organico di cui faceva parte anche un contrabbassista mio amico. Ci vediamo, ci salutiamo, io e Matteo ci mettiamo a mangiare. Ad un certo punto la band si ferma e il mio amico viene da me “Senti, il batterista e il pianista vogliono prendersi una pausa, non è che vuoi salire tu sul palco a far due cose e ti unisci a noi?”. E io: “Guarda, per giunta questo mio amico che è qui con me e con cui sto mangiando è un pianista bravissimo…”. “Fantastico, salite!”. Saliamo sul palco. Facciamo un pezzo. Il direttore del locale ci sente. Una settimana dopo, ci contatta per un provino; la settimana dopo ancora, licenzia il pianista e il batterista originari, per dare il lavoro a noi. Matteo dopo un po’ torna in Italia, ma io mi tengo quel lavoro per due anni. Sei sere alla settimana. Ben pagate. Capisci? Mi sono pagato gli studi, con quell’ingaggio lì…
Ed è avvenuto tutto un po’ per caso.
Esatto: tutto per caso. Quando poi Matteo se n’è tornato a Venezia, per terminare gli studi, c’era il problema di recuperare un nuovo pianista, e il compito ce l’eravamo presi io e il mio amico contrabbassista: “E ora chi prendiamo?”. Pensa che ad un certo punto uno dei miei candidati era Robert Glasper, con cui stavo studiano alla New School, quindi anche un amico. Solo che lui era… come dire… troppo molesto. Era già troppo “artista”, anche se all’epoca aveva vent’anni o poco più. Abbiamo optato alla fine per un altro pianista, molto più tradizionale (…e molto più tranquillo: pensa che ancora oggi suona tranquillamente in giacca e cravatta, per lui la cosa è normale, non gli dà nessun fastidio). Ad ogni modo, tornando a noi: ce lo meritavamo quell’ingaggio, io e Matteo? No! O meglio, c’era gente che se lo meritava molto più di noi, all’epoca. Ma alla fine è toccata a noi. Per caso. Anche l’hype funziona così. Ti faccio un esempio europeo: hai presente tutto il giro Jazz Re:Freshed, no? Bene: per anni non se li è cagati nessuno, a partire da Gilles Peterson. Loro già nel 2006 facevano suonare Shabaka Hutchings, Kaidi Tatham, Richard Spaven… ma nel disinteresse generale. C’erano loro, c’era un bassista che non ricordo, ma ad ogni modo siamo d’accordo che oggi sarebbe una specie di All Star, no? Bene: nel 2006 non se li filava nessuno, ma proprio nessuno, manco Peterson appunto – e loro non avevano parole dolcissime per lui, all’epoca. Finalmente, a forza di insistere, di andare avanti, di bussare, di lavorare sodo, ora le cose sono diverse; ora, per dire e per tornare a Peterson, hanno uno show specifico su Worldwide FM. Però vedi, non si possono prevedere mai modi, tempi, possibilità di riuscita: la componente casuale gioca sempre un grande ruolo. Anche noi, in fondo, siamo finiti nel cartellone di JAZZMI senza ancora aver fatto uscire un disco. Probabilmente secondo il principio del “Vabbé, per il convento passa questo, quindi prendiamolo”… (ride, NdI)
Quali sono i jazzisti oggi che fanno la musica più interessante?
Quelli che stanno fuori dal giro dell’hype, per appunto. E mi riferisco molto alla mia generazione: che è stata quasi completamente scavallata dalla scena jazz più tradizionale. Quelli nati negli anni ’70, ecco. Completamente ignorati dall’attenzione del pubblico. Mentre chi è arrivato dopo di loro, ha al contrario trovato subito un audience e dei media molto ricettivi. Ti faccio qualche nome: Fabrizio Puglisi, un pianista straordinario; un altro è Alfonso Santimone, così come suo fratello Daniele, chitarrista della madonna; Alessia Obino, che tra l’altro uscirà con un disco che io ho aiutato a produrre sulla label di Simona Faraone, la New Interplanetary Melodies, un lavoro dove si reinterpretano in maniera fantastica Sun Ra ed Herbie Hancock; poi Piero Bittolo Bon, assoluto numero uno; Pasquale Mirra; Dan Kinzelman. Questo giusto per fare qualche nome, eh: tutte persone, con l’eccezione forse di Kinzelman, che sono quasi completamente ignorate dal circuito jazz più tradizionale. Un circuito da cui io per primo mi sono tirato fuori, anche dopo una sfortunata collaborazione con Giovanni Guidi nel mio album “Open”. Ed era un circuito che avevo pure bazzicato parecchio, sai: una testimonianza è “HAT”, il disco che avevo registrato col pianista Alessandro Lanzoni e il contrabbassista Gabriele Evangelista (che ora suona con Rava) e che è finito nel dimenticatoio senza uscire mai, prima di venire riscoperto da Jacopo Guidi, direttore artistico a Siena Jazz, che ora si è fatto una sua piccola etichetta. Sai perché non era uscito subito, quel disco lì? Perché la manager di Lanzoni dell’epoca lo bloccò, dicendo che quel disco suonava “troppo bene” rispetto a quello che Alessandro stava facendo in un altro trio, con un altro batterista. Intendiamoci, un batterista bravissimo, ma spesso un conto è suonare, un conto è saper fare i dischi.
(Titolo ironico ma al tempo stesso appropriato; continua sotto)
Sono in effetti spesso due sport diversi.
Io cerco di tenere botta in entrambi ma, come si dice, ai posteri l’ardua sentenza. Sta di fatto che il disco è uscito solo ora, a dieci anni di distanza dalla sua incisione. Metti mai che serva a guadagnare qualche data. Però ecco, certe cose succedono solo in Italia: lavori che si fermano per motivi “politici”. In America se sei bravo, suoni e incidi. In Italia è sempre tutto molto più complicato.
Anche perché in Italia il jazz è abbastanza legato a una rete di relazioni e contributi pubblici.
Già. E credo che questo fenomeno abbia creato una certa diseducazione nel pubblico del jazz, troppo abituato a non comprare i biglietti per andare a sentire la musica che ama. Nascono dei progetti già in qualche maniera “protetti”, che quindi suonano ovunque, mentre altri non hanno assolutamente lo spazio per emergere. Sono perfettamente conscio che esiste anche difficoltà nel combinare progetti molto sperimentali e successo commerciale, vendita dei biglietti, sia chiaro. Trovare il giusto equilibrio è un’arte. E’ ovvio che un Fresu venda comunque tanti biglietti: in quello che fa è molto accessibile, pure io quando vado ai suoi concerti me la godo parecchio, perché lui è un grande; ma di sicuro la sua è una proposta molto accessibile. Con lui quindi è più facile. Ripeto, bisogna trovare i giusti equilibri tra coraggio, sperimentazione e fruibilità. Ma bisogna farlo rendendo le regole del gioco uguali per tutti.
Ho l’impressione che l’aver lavorato e lavorare molto in America e in generale con la mentalità anglosassone ti abbia influenzato, a livello di pragmaticità.
Non so è una questione di America o di mentalità anglosassone, so solo che è fondamentale rimboccarsi le maniche. Penso ad esempio a Rabih Beaini, che fin da quando aveva un locale in Veneto faceva di tutto, mica solo la direzione artistica, metteva proprio tutto se stesso e si prendeva tutti i rischi (e la fatica) del caso per portare avanti la sua visione. Stessa cosa Mark de Clive-Lowe: lui è davvero un tuttofare, a partire dagli aspetti più legati al business, controlla tutto in maniera quasi maniacale. Sono gli esempi che se hai volontà, disciplina e visione, e anche una certa capacità di credere in te stesso, poi alla lunga ti prendi le tue soddisfazioni. Anzi, è bello poter combinare gli aspetti pratici e creativi, in un percorso che sia crescita ed evoluzione. Io dieci anni fa sarei potuto benissimo finire in un comodo e anche remunerativi giro di turnisti, del resto mentre stai facendo una scuola il tuo obiettivo è proprio quello, “Oh, voglio essere ingaggiato da Tizio e fare il tour con lui”. Poi, crescendo, progredendo, i tuoi obiettivi diventano altri. Vedi, ad un certo punto avevo iniziato a chiedermi se io mi percepivo più come batterista o invece come musicista a trecentosessanta gradi. Con una risposta non semplice. Perché nello scegliere di percepirmi come musicista, all’inizio temevo fosse solo una scusa per giustificare a me stesso il fatto che non fossi diventato un batterista top. Fortunatamente ho smesso di avere pensieri di questo tipo: sono molto contento del percorso che sto facendo ora. Certo, non sono magari ancora arrivato a una solidità economica super-stabile, ma dentro di me ho una tranquillità e una serenità che non ho mai avuto prima.