Conosciuto prevalentemente come un one-man show, Tommaso Cappellato è in realtà un musicista che si muove agile tra tutte le possibili definizioni di “artista”, così come riesce a sentirsi pienamente a suo agio passando tra la batteria – il suo strumento prediletto – e gli altri strumenti che compongono il suo set-up. Artista giovane, ma con alle spalle un’esperienza degna di un veterano, Tommaso ci aiuta a scoprire come ritornare al futuro nel jazz e come sia possibile lasciarsi andare alle contaminazioni pure restando fedeli al proprio stile e alle proprie inclinazioni.
A poche ore dalla quarta edizione del FRAC Festival è oggi sulle nostre pagine, protagonista di un’interessantissima chiacchierata.
Al momento mi sembra davvero difficile riuscire ad inquadrarti tra le definizioni di compositore, strumentista, conductor…vogliamo sorpassarle? In che stadio della tua maturazione di artista ti senti al momento?
È una fase complessa in cui l’io strumentista non vuole cedere il passo all’io produttore e viceversa. C’è dunque un terzo io che cerca di approfittarne e farci dei soldi. Ce n’è poi un quarto (che è il più rompi di tutti), quello che non vuole scendere a compromessi legati alla banalità, alla mera fama da “hype”, e che cerca l’espansione intellettuale e spirituale. Senza di lui non si va da nessuna parte.
Da chi è addentrato nella materia come te, che ha respirato e probabilmente comprende le dinamiche che ne esistono al di sotto, cosa è jazz per te? È stato un rapporto facile con la materia, per te che hai lasciato casa molto giovane?
Jazz per me è casa, conoscenza, riverenza, rispetto, disciplina, attitudine, classicismo e innovazione; un passaggio obbligato per chi vuole andare a fondo. Jazz è la storia del mondo di oggi, i grandi esodi, la lotta contro il razzismo e la ricerca di integrare e integrarsi sempre e dovunque. È empatia.
La materia è complessa e nella mia esperienza non posso scinderla dall’impatto con la multi-culturalità di New York quando mi ci sono trasferito a vent’anni. Il jazz lì c’è sempre e dappertutto anche quando non senti musica, ma solo rumori. È un linguaggio con codici precisi; ci vuole tempo per acquisirlo e capirlo a fondo. Bisogna studiare la storia del continente americano, delle deportazioni, della schiavitù, dell’emancipazione, dei ruoli di ogni popolazione e di singoli esseri umani che hanno fatto la differenza.
Il mio è stato un percorso non facile – anche se a tratti fortunato – dettato da molte tappe obbligate, quelle che lì chiamano “paying dues” e noi chiamiamo gavetta. Sento tuttora molta riverenza e gratitudine per chi mi ha indicato il percorso, i miei mentori e insegnanti, spesso anche in maniera non proprio “soft”!
Grazie ad “Aforemention” e le miriadi di collaborazioni soprattutto con Rabih Beaini, sembra che ci sia più di un Cappellato, tra cui quello più “dancefloor”. Parlami di questo lato di te, come lo hai coltivato, quanto New York ha influito, quanto e se frequenti i dancefloor o i festival.
La mia parte “dancefloor” scaturisce dalla mia curiosità e necessità di osservare da altri punti di vista. Partendo dalla cognizione che anche il jazz una volta era “dancefloor”, la mia sfida è trovare quell’equilibrio tra innovazione, espansione, ricercatezza, immediatezza del messaggio, affabilità e sorpresa.
New York è stata determinante per capire come il miscuglio fra dj e musicisti – sia live che nelle produzioni – avrebbe occupato un posto importante nella musica degli anni a venire. Assistere e spesso partecipare a serate quali Giant Steps e Turntables On The Hudson, alle sperimentazioni col jungle-jazz all’Izzy Bar e successivamente al Nublu, nonché alla nascita di tutto il movimento hip-hop+jazz+neo-soul mi ha preparato a una fase successiva, quando sono venuto a conoscenza di una scena elettronica legata da una parte alla techno, dall’altra a quella sperimentale e d’avanguardia, grazie appunto alle frequentazioni con Rabih. Il mio io più dancefloor cerca di integrare tutti questi aspetti in una forma univoca, profonda ma anche divertente e irriverente.
Spesso mi trovo a far parte di line-up all’interno di festival e rassegne di clubbing e ogni tanto mi spingo ad andare a trovare qualche amico dj che suona in posti particolari, come quella volta che in Giappone alla fine di un mio tour in solo, ho raggiunto Dozzy al Labyrinth. Fu un episodio epico, il festival si svolge nei boschi delle montagne vicino a Nagano, pioveva a dirotto ed era il set di chiusura per il decimo anniversario della presenza di Donato al festival. Onestamente non ho molta resistenza per la techno, ma quel suo set di quasi sei ore mi rimarrà impresso per sempre.
Nella mia visione il jazz, rappresenta “ancora” quel moloch che distingue tra “ascoltatore esperto” e “buon ascoltatore”, stando alla definizione di Adorno. Credi che esista in effetti un livello di comprensione del jazz non facilmente raggiungibile? Credi che sia anche una questione di “educazione” all’ascolto?
Più che di educazione, direi di sensibilità. Ricordo di aver comprato un cd di Cecil Taylor ancora sedicenne senza sapere chi fosse e a quale ramo appartenesse nell’albero genealogico del jazz. Non avendo parametri di confronto né di giudizio, il mio ascolto era puro e pur trovandolo cacofonico, la sua musica mi muoveva dentro. A volte studiando troppo e facendosi troppe opinioni si perde quella purezza nell’ascolto e nel farsi trasportare a prescindere da chi suona. Questo è un problema grave legato al fenomeno “hype” di oggi. Oggi se sai che la scoreggia l’ha fatta un producer di grido allora profuma, se invece la fa un musicista in gambissima ma sconosciuto allora puzza.
Allo stesso tempo credo che la nuova ondata di jazz in Europa dominata dal faro UK abbia ripreso la definizione primaria della stessa ovvero l’approdo naturale di commistioni e tendenze provenienti da differenti mondi: penso ad Alfa Mist, Ezra Collective, Nubya Garcia, Emanative. Noti anche tu questo avvicinamento ai temi del dancefloor rivisitati e resi meno stantii dei soliti quattro-quarti? Io ne sono entusiasta.
Nella mia relativa e recente conoscenza e frequentazione della città, Londra rispetto a qualsiasi altra città al mondo mi dà l’impressione di essere coesa musicalmente. Le varie scene del clubbing, dei dj radiofonici, dei producer e dei musicisti sono completamente fuse tra di loro, dove la figura di un musicista e al contempo dj/producer è totalmente normale e accettata. Ciò che la nuova ondata di musica UK (soprattutto di matrice afro-jazz) sta godendo è frutto altresì di una storia trentennale, partita contemporaneamente all’esplosione dell’acid house e coltivata da figure quali Gilles Peterson e Patrick Forge. L’acid jazz prima e la broken beat dopo, e una propensione verso l’integrazione, a mio modo di vedere, maggiore rispetto ad altri luoghi, hanno fornito le basi culturali e di ascolto su cui sono cresciute figure come quelle che hai citato sopra. Anch’io penso sia un fenomeno fantastico e una ventata di aria fresca, anche se c’è sempre bisogno di obiettività nell’ascolto e nella ricerca della (propria) verità.
Anche se sempre in giro immagino tu abbia il polso di quello che succede alla nostra scena soprattutto nel campo della musica suonata: quale momento sta vivendo l’Italia rispetto alla riconversione dei dettami jazz?
Per quello che posso percepire c’è molta attenzione sull’innovazione che questi nuovi mix stilistici e di genere stanno portando. Chiaramente mancando ancora dei codici precisi e un centro di gravitazione geografico veramente importante in Italia, sento molti tentativi di propensione verso il dire qualcosa di nuovo, anche se spesso non supportati da una conoscenza della materia musicale adeguata per trasmettere qualcosa di veramente profondo.
Sento molta emulazione di svariati stilemi che spesso non regge il confronto e tanta appropriazione della cultura afro-centrica senza che siano contro-bilanciati da una voce stilistica originale e autentica. Consapevolezza, disciplina, pazienza ed empatia sono ingredienti necessari per crescere dentro e artisticamente.
Nell’ambito del jazz italiano ci sono personaggi straordinari della mia generazione che vanno presi come punto di riferimento in quanto esperti e compiuti strumentisti, compositori, sperimentatori e visionari: Alessia Obino, Marta Raviglia, Fabrizio Puglisi, Piero Bittolo Bon, Daniele De Santis, Pasquale Mirra, Andrea Lombardini, Alfonso Santimone, Dan Kinzelman, Stefano Senni… La lista è lunga ma già solida. Da personaggi come loro sono arrivate e arriveranno delle risposte che caratterizzeranno la scena del jazz Italiano a lungo termine.
Il FRAC Festival a pochi giorni dal suo inizio ha dovuto cambiare location non perché il luogo non fosse adatto ad ospitare l’evento ma perché un tipo di musica, di cui sei oramai alfiere, non è ritenuta valida per entrare in quel luogo; qui non parliamo di permessi, qui parliamo di intenzioni, di soggettività e miopia culturale…quanto credi che un’artista nel proprio possa fare per ribaltare questa concezione?
Tanto, tantissimo. L’artista è un attivista dello spirito ma non sta a lui trovare il metodo per arrivare a quanta più gente possibile, per cui spesso chi cerca di dare messaggi alternativi e di spessore viene emarginato perché non corrispondente a ciò che il mercato esige.
Pur non conoscendone i dettagli, mi pare di capire che in questa situazione ci sia un fraintendimento. Da una parte chi è convinto di detenere lo scettro della cultura più alta, quella antica, che non si può esecrare e sporcare con irruenze dal mondo attuale e giovanile. Dall’altro chi, come l’artista incompreso, non riesce – e non per propria mancanza, ma magari a causa di un’ottusità dall’altra parte – a far comprendere a chi amministra quanto importante sia invece svolgere attività di questo genere proprio in questi luoghi.
Non ho mai fatto politica, né attivismo in piazza, ma trovo che il cercare di comunicare sia fondamentale per trovare un accordo, sempre che dall’altra parte ci siano persone eque e comprensive. Poi se non è così ci deve essere una strategia alternativa, ma dev’essere sempre accompagnata dall’intelligenza.
Dal mio canto il mio attivismo artistico avviene a livello astrale. Sono convinto ci siano grosse battaglie spirituali in atto su piani più sottili e penso che la musica sia un veicolo molto efficace per comunicare con quello strato di essenza. Se riusciamo a influenzare positivamente e amorevolmente quelle densità riusciamo a scolpire una realtà materiale più cosciente, empatica e collettivamente generosa.
Hai delle nuove produzioni in arrivo o nuovi live show da proporre?
Ho un nuovo disco pronto da pubblicare col mio progetto cosmico Astral Travel. Si tratta di un tributo alle poesie di Sun Ra, declamate da Camilla Battaglia e Dwight Trible con musica improvvisata da me, Piero Bittolo Bon, Fabrizio Puglisi e Marco Privato. Il tutto condito dalla post-produzione di Rabih Beaini. Al momento sono ancora alla ricerca di una casa discografica adatta alla release.
A settembre trascorrerò l’intero mese presso lo spazio multi-mediale Pioneer Works a Brooklyn, dove registrerò il mio prossimo disco in solo e metterò in atto una collaborazione con Afrikan Sciences e Quincy Troupe, il biografo di Miles Davis, in veste di poeta spoken-word.
Per quanto riguarda i live, sto mettendo su dei progetti nuovi sia qua in Italia che negli Stati Uniti e sto continuando a lavorare sul solo Aforemention, che è in continua espansione e crescita.
Hai una Top5 delle tracce che indelebilmente hanno segnato il tuo percorso di musicista e ascoltatore?
Cinque sono troppo pochi, ti dico i primi cinque dischi (interi) che mi vengono in mente.
Keith Jarrett/Gary Peacock/Jack DeJohnette “Standards Vol. 1” (ECM 1983)
Wayne Shorter “Native Dance” (Columbia 1975)
Toninho Horta “Terra Dos Passaros” (EMI 1980)
Steve Wonder “Stevie Wonder’s Journey Through The Secret Life Of Plants” (Tamla 1979)
Joni Mitchell “Blue” (Reprise 1971)