“La musica […] deve elevare l’anima al di sopra di se stessa, deve farla librare al di sopra del suo soggetto e creare una regione dove, libera da ogni affanno, possa rifugiarsi senza ostacoli nel puro sentimento di se stessa.” (G.W.F. Hegel, Lezioni di estetica). Grazie all’esperienza metafisica della musica, il batterista e compositore, Tommaso Cappellato decide di intraprendere il progetto “Astral Travel” insieme ad altri quattro compagni. Il viaggio nasce dal celebre brano Astral Travelling di Pharoah Sanders per terminare con l’uscita del disco “Cosm’Ethic” per il collettivo Jazz Re:Freshed di Londra. L’album nasce per caso, toccando atmosfere fusion che strizzano l’occhio al funk, presentandosi tout court come un chiaro omaggio allo spiritual jazz e al pianista e compositore Harry Whitaker. Eclettico e creativo, Tommaso Cappellato ha una grande apertura mentale verso molteplici generi come l’elettronica e l’hip-hop, rispettivamente rintracciabili nelle collaborazioni con il dj e produttore Rabih Beaini (alias Morphosis) e l’MC Yah Supreme. Se si possiede la fortuna di assistere ad una live performance di Tommaso Cappellato si riesce a comprendere immediatamente la serietà e la concentrazione che vi dedica, come se la musica fosse parte integrante di sé stesso. Ed è ciò che fa di lui un vero musicista.
In tempi recenti hai intrapreso un’avventura musicale con il quintetto “Astral Travel”, tributo allo Spiritual Jazz e al tuo mentore Harry Whitaker scomparso tre anni fa. Risultato di questo percorso è il disco “Cosm’Ethic” per l’etichetta inglese Jazz Re:Freshed. Qual è il messaggio cui mira questo viaggio?
Mentre ascoltavo il meraviglioso disco “Thembi” di Pharoah Sanders (Impulse 1971) mi sono imbattuto nel celebre brano “Astral TravelIing” e mi sono chiesto cosa significasse. Ho scoperto, dunque, che il viaggio astrale consiste in una particolare tecnica per essere lucidi durante i sogni. Un tema, a mio avviso particolarmente attuale, se si pensa che il “sistema” ci vuole addormentati e di conseguenza è simbolicamente vitale essere vigili durante il sonno. Partendo da questo concetto la musica che ho registrato descrive i vari stati di coscienza del viaggiatore astrale toccando alcuni temi quali la meditazione, la fisica quantistica e la spiritualità. E’ un progetto nato quasi per caso assieme ad Alessia Obino (voce), Anna Maria Dalla Valle (flauto), Paolo Corsini (piano, rhodes, sintetizzatori) e Marco Privato (contrabbasso), in seguito all’invito a partecipare al Bugs Festival a Verona diretto da Patrick Gibin (in arte TwICE), in apertura al gruppo di Dego, 2000Black, nel Luglio del 2012. Per l’occasione non avevo progetti che a mio avviso fossero consoni al tipo di proposta musicale ed era da parecchio tempo che avrei voluto dedicare un progetto allo Spiritual Jazz e che fosse ispirato al mio mentore e amico Harry Whitaker. A settembre dello stesso anno grazie a Enrico Crivellaro (aka Volcov), ho conosciuto Theo Parrish, sempre per caso presente a un nostro live, il quale mi ha incoraggiato a continuare il percorso. Mark de Clive-Lowe mi ha successivamente introdotto al meraviglioso collettivo Jazz Re:Freshed, una delle più importanti realtà della musica underground a Londra e da lì è partito il progetto discografico.
Quale significato particolare si cela (se c’è) dietro “Cosm’Ethic”?
Ci sono tre significati in questo gioco di parole: ad un primo sguardo viene in mente la parola “Cosmetics”, una parola che ha a che fare con l’estetica nell’accezione più semplice del termine, in questo caso riferita alla musica che vado a proporre. Divisa in due la prima metà della parola richiama al concetto di Cosmo, un tema particolarmente vivo nel mondo dello Spiritual Jazz. I pianeti, esclusa la terra, sono i luoghi dove la negatività dell’uomo ancora non ha imperversato e dunque una meta ambita da coloro che auspicano una convivenza pacifica tra gli essere umani, dove l’etica (Ethics) dovrebbe regnare sovrana.
Ci sono alcune tracce nel disco con le quali hai una personale connessione? Nella canzone “Music Power” dopo alcune note la voce di Alessia Obino recita così: “Music has the power to fulfill our lives”. È stato lo stesso, nel tuo caso?
Assolutamente sì. La musica riempie e accresce la mia vita ogni giorno. E’ una passione che, senza particolari motivi e contro qualsiasi ostilità, continua ad autoalimentarsi. La vita del musicista richiede parecchi compromessi, soprattutto quando l’entusiasmo e l’incoscienza cominciano ad appannarsi e a sostituirsi con altri sentimenti legati alla sopravvivenza. Eppure, per quanto mi riguarda, è terapeutica e allo stesso tempo non riesco a farne a meno. Altre tracce a me particolarmente care sono “World Traveller” un pezzo composto per una persona molto cara nella mia vita, e già registrato in altri 3 dischi. “Awakenings” è un’improvvisazione collettiva e proprio per questo risulta doppiamente magica, considerando che non è stato operato nessun editing di post produzione.
Si può evincere, dal tuo account su Youtube e dal tuo profilo su Soundcloud, che sei un musicista eclettico. Nella fattispecie, considerando che hai un background classico, è difficile trovare persone che si vogliono mettere in gioco in altri campi “ostili” alla musica colta. Tuttavia il tuo percorso attesta come si possano integrare elementi provenienti da diverse correnti quali, ad esempio, l’elettronica. Spiegaci questa tua apertura mentale.
Nel mio piccolo cerco di seguire la strada dei grandi maestri. Qualsiasi lo stile e l’epoca ciò che accomuna tutti loro è l’aver aperto nuovi territori sonori senza porsi dei limiti dettati da regole precise. Questo vale per Bach come per Miles Davis. Nel mio percorso ho capito che la propria voce si trova nei propri limiti e sono proprio quelli che bisogna esasperare, studiare, limare e ricostruire per arrivare a qualcosa di originale. L’approccio nelle mie sperimentazioni elettroniche è sempre lo stesso di quando suono jazz, anche se sono ancora piuttosto neofita in materia.
Com’è nata la collaborazione con il dj e producer Rabih Beaini?
Ho conosciuto Rabih poco dopo il mio ritorno dagli Stati Uniti, dove ho vissuto per quasi dieci anni. Ci siamo conosciuti a Venezia in occasione di una mia performance e da quel momento, dopo aver condiviso gusti e visioni, non ci siamo mai persi di vista. Conseguente è stato il mio ingresso nella sua Upperground Orchestra, con cui abbiamo realizzato vari remix quali “Room 310” di Terrence Dixon (sulla label Meakusma) e “Falling Up” di Theo Parrish (Third Ear Recordings), nonchè il full album “The Eupen Takes” (Morphine). Spesso ci esibiamo anche in duo come è successo il 2 Dicembre quando siamo andati al festival internazionale del cinema a Beirut per sonorizzare il film muto, “Metropolis”, capolavoro indiscusso dell’austriaco Fritz Lang, datato 1927.
“[…] Cappellato is an artisan, whether exploiting a persuasive hip hop beat or providing a melodious song-like solo where he carefully manipulates every inch of his kit.” Leggendo queste parole di Mark F. Turner si parla, non a caso, di beat hip hop: parlaci del progetto con l’MC (Master of Cerimonies n.d.r.) Yah Supreme.
L’incontro con Yah Supreme è stato come un fulmine a ciel sereno durante l’ultima parte della mia permanenza statunitense. Incontrato al di fuori dell’ambito musicale, siamo presto diventati amici e il passaggio al fare musica insieme non è stato altro che una conseguenza naturale. All’epoca mi cimentavo, per puro divertimento e studio, nella produzione di tracce R&B ed electro. Quando, per caso, gli feci sentire quel materiale, immediatamente mi chiese di produrgli l’album che aveva in cantiere da qualche tempo. Per descrivere ciò a cui voleva arrivare mi disse: “pensa a un suono in cui Marvin Gaye incontra Gil Scott Heron.” Il risultato è stata la creazione della live band “Brohemian” e dell’uscita dell’album “Post Modern Garden”. E’ stata un’esperienza musicale e umana meravigliosa che tuttora procede, seppur indirettamente e a tratti.
Mettiamo a confronto per un attimo l’Italia e l’America (dove tu hai studiato), apparentemente sono due mondi così diversi? Hai seguito “il sogno americano” ma poi hai deciso di far ritorno in Italia dopo nove anni. In un certo senso fai parte anche tu dei cosiddetti cervelli in fuga?
Sono partito nel 1996 con il desiderio di imparare seriamente ciò che mi ero preposto di sapere. All’epoca si trattava della musica jazz nella sua accezione più pura. Avevo già avuto delle collaborazioni con dei musicisti afro-americani e grazie a loro ho capito che era necessario per me trascorrere del tempo in America. Non avrei mai pensato che ci sarei rimasto cosi a lungo. È una scelta che ripercorrerei senza esitazioni. Gli Stati Uniti mi hanno fornito una serie di informazioni, contatti ed esperienze che non avrei potuto acquisire altrove, è stato perfetto per un periodo. Ora l’Italia mi garantisce lo spazio fisico e mentale per curare la creatività e individuare un percorso più mirato, oltre al fatto che la qualità della vita è imparagonabile. Sono comunque sempre pronto a spostarmi se le circostanze me lo richiedessero.
Deduco, quindi, che l’arte di viaggiare ha un ruolo capitale, quasi quanto la musica, nella tua esistenza. Potresti fare un paragone tra queste due passioni?
Sono convinto che se vuoi raccontare qualcosa di significativo tramite la musica hai bisogno di fare esperienze, a volte forti, a volte molto forti, e quale strumento migliore del viaggio, soprattutto in posti molto diversi per caratteristiche sociali, politiche e ambientali da quelli a cui siamo abituati. A New York entri in contatto con tutte le culture del mondo, ma non le puoi comprendere a fondo fino a che non metti piede nei paesi dalle quali provengono. I miei viaggi più significativi sono stati in posti quali il Brasile, il Senegal, l’India, il Giappone, luoghi in cui capita di non sentirsi a proprio agio entrando conseguentemente in contatto con l’io più recondito. I viaggi non legati al lavoro sono indispensabili per ritrovare uno spazio interno che possa contenere nuovi spunti creativi.
Cosa significa, dunque, per te, creatività? Cosa fai, cosa ascolti, per alimentarla?
Purtroppo non possiedo una ricetta per la creatività. L’ispirazione è materia preziosa e alquanto rara, specialmente in quest’epoca satura di informazioni e condivisione. Mi piace tenermi al passo con le ultime novità, scoprire nuovi artisti che si spingono oltre il consueto, dall’altra parte continuo a studiare la storia della musica che mi interessa e a capire se ci sono nuovi modi per mescolare vari stili. Studiare uno o più strumenti aiuta e, come ti dicevo prima, viaggiare per rigenerarsi fa molto bene.
Sempre più persone preferiscono l’uso di software di produzione (VST instruments) a un’effettiva strumentazione. Essendo tu un batterista in primis, avrei il piacere di chiederti, quale rapporto si stabilisce tra te e il tuo strumento.
Quasi come in un rapporto di coppia, bisogna essere concentrati per mantenere la fiamma accesa. Mentre in un passato non troppo lontano affrontavo lo strumento per apprendere delle tecniche e poterle applicare a vari stili, ora cerco di trovare degli spunti creativi utilizzando e accrescendo quella stessa tecnica attraverso la ricerca di qualcosa di nuovo, di non ancora esplorato, per trovare una propria voce. E’ una nuova fase che ho potuto intraprendere solo dopo 20 anni di dedizione costante. In ogni caso non mi considero propriamente un batterista, più che altro la batteria è lo strumento che più di ogni altro ho approfondito a livello tecnico, ma la musica mi piace farla con qualsiasi suono, dai sintetizzatori al pianoforte, o anche con strumenti che non so assolutamente suonare, con cui è più probabile che trovi spunti di gran lunga più originali. Prossimamente mi piacerebbe sperimentare con dei giradischi e un MPC, e vedere dove le mie capacità ritmiche mi possono portare. Sto anche progettando un disco da solista dove mi cimenterò con vari strumenti e tecniche di registrazione.