Io vi capisco. Davvero. Il malessere che trasuda dalle vostre filippiche internettiane sul perché il Tomorrowland sia il male supremo del mondo del clubbing e di come tutti i suoi astanti siano un branco di capre maggiormente occupate a rimpinguare il proprio feed su Instagram piuttosto che ad arricchire in qualche modo la propria conoscenza musicale, ricordate? Ecco, io l’ho provato sulla mia pelle domenica scorsa, mentre David Guetta riversava un’onda anomala della peggior musica che io ricordi di aver sentito ad un evento di queste dimensioni di fronte ad un muro umano composto da (almeno) cinquantamila persone. Accorse – letteralmente – da ogni angolo del globo.
E saltavano.
Ed urlavano.
E cantavano.
Tutti, nessuno escluso. Anzi sì, escluso me.
Perché più l’atmosfera di festa diventava qualcosa di esagerato e più io non capivo. Guardavo l’amico che era con me e scuotevo la testa: “Evidentemente qualcosa mi sfugge, perché questa musica è veramente oscena eppure tutti stanno dando di matto…“. E capiamoci, quando dico oscena non parlo dei classici di Guetta, orecchiabilissimi ed ideali per un facilissimo “Sing-along” – motivo, per altro, per cui mi ero incuriosito ed avevo deciso di andare a sentirlo – parlo proprio di una sequela di sonorità a caso, dal raggaeton all’hip hop all’EDM più becera. Intervallate da urla da gioco aperitivo brutto tipo “3..2…1…GO!” ad ogni possibile drop e da guest di vario tipo che, essenzialmente, salivano in piedi sulla consolle a dire la stessa cosa al posto di Guetta. Anche volendo sorvolare il fatto che non ci fosse nessun dj set ma si trattasse di un vero e proprio concerto, dove le tracce venivano intervallate da Guetta che le presentava al microfono, sarebbe stato comunque un concerto terribile. Senza alcun valore musicale se non quello di far divertire la gente col minimo sforzo possibil…
Oh cazzo, aspettate. Non ci avevo pensato. Mea culpa.
Per un attimo mi ero illuso che a qualcuno-non-invasato fregasse una beneamata del feticcio della tecnica, della ricerca del nuovo, del percorso musicale strutturato da un artista durante un set. Raga, come diceva il (compianto) Guido Nicheli nei panni del Commendator Zampetti: “Venite giù dalla pianta!“. Alla resa dei conti, la stragrande maggioranza della gente (sorpresa sorpresa, pure nelle cose “nostre”) vuole semplicemente stare con gli amici a divertirsi e svagare la mente. Ed il Tomorrowland, sotto questo punto di vista, è il meglio che un festival di musica elettronica possa offrire al mondo.
Erano sette anni che mancavo dal De Schorre – un enorme parco naturale nelle campagne fiamminghe – e mi ha davvero stupito ritrovarlo praticamente come se nulla fosse cambiato: tutto strutturato alla stessa maniera, con una precisione organizzativa quasi maniacale e punti di riferimento facili da distinguere per rendere l’esperienza il più accomodante possibile. Una proposta musicale che spaziava dal già citato minestrone da Top40 ad epiche molto più raffinate. Divisa fra una ventina di palchi, dall’enorme anfiteatro naturale del Main Stage fino al The Rave Cave: un canale di scolo sotterraneo lungo una decina di metri di cui mi ero innamorato nel lontano 2010 quando ospitava la crew Ketaloco – oggi promossa ad uno stage più importante – e che mi ha fatto immenso piacere ritrovare intatto, con la stessa vibe festaiola al suo interno. A dimostrare che a volte si può trovare la situazione dei propri sogni anche dove meno ce lo si aspetterebbe.
Ma qualcosa è davvero cambiato in questi anni. Ed è senz’altro il vero, enorme valore del Tomorrowland: la multi-culturalità che si respira lasciandosi trasportare in giro per il festival ora che è diventato un vero e proprio fenomeno globale. Qualcosa che avevamo annusato una decina di anni fa ed ora una vera colonna portante della manifestazione. La convivenza pacifica nel nome di un valore più importante, in questo caso la musica – come avviene per lo sport ai Giochi Olimpici – fra popoli che, per motivi storici, politici, culturali sentono addosso il peso dell’essere stati messi contro per partito preso. Vedere gruppi di ragazzi con le bandiere di Israele passeggiare a fianco di quelle palestinesi e mediorientali come se niente fosse. Trovare argentini e brasiliani a farsi le foto insieme a peruviani, uruguagi, cileni, colombiani, boliviani. Americani e russi che si aiutavano a prendere le rispettive ragazze sulle spalle. Messicani, indiani, malesi, australiani, svizzeri, panamensi, bosniaci, croati e chi più ne ha più ne metta. Tutti sorridenti e felici di portare il proprio piccolo mattoncino per generare ricordi indelebili da riportare poi nei rispettivi Paesi. Tutti curiosi di scoprire altre culture e di raccontare la propria. Qualcosa di meraviglioso.
E se non riusciamo a comprendere quanto siano preziosi questi piccoli gesti e quanto sia fondamentale avere a disposizione eventi di questo tipo in cui celebrarne il valore, allora chi è davvero la capra? Chi ha dimenticato i principi fondamentali della musica? La presenza dell’elemento musicale al Tomorrowland conta il giusto che basta per divertirsi e farsi i selfie con gente di tutto il mondo. Ci sono anche palchi con musica più nobile ma il concetto non cambia poi molto. A tratti mi ha disturbato – non lo nascondo – perché trovarsi in cinquanta davanti ad un artista enorme come Gui Boratto e vedere poi un plebiscito per il già citato Guetta fa sanguinare l’orecchio musicale. Come altrettanto mi ha indispettito vedere le modelle di Instagram mettersi la tenuta da raver come se fosse un abito di scena per apparire cool nei loro servizi fotografici da quattro soldi. Ma la storia recente di Tomorrowland è lì da vedere. E finché al suo interno si respirerà l’atmosfera che ho vissuto lo scorso weekend avranno sempre e comunque ragione loro.