Quest’intervista sarebbe dovuta uscire circa tre anni fa.
Avevamo in mente una cosa speciale: un articolo arricchito da delle illustrazioni uniche, il racconto di una vita passata dietro i tamburi a suonare la musica più ballabile di sempre. Per una serie di sfortunate ragioni la cosa non si è mai concretizzata e alla fine quest’intervista è rimasta lì, nel cassetto delle cose che dovevano essere e non sono state. La pubblichiamo adesso, per la prima volta, come corollario di una notizia brutta: Tony Allen da ieri non è più tra noi. Resta il miglior batterista di tutti i tempi, quello più coraggioso, colui che è stato capace di navigare nei generi musicali senza perdere mai la rotta. Vederlo suonare era uno spettacolo entusiasmante, lo stesso entusiasmo che trasmetteva lui ogni volta che si sedeva dietro i fusti di una batteria.
Non era uno che picchiava Tony Allen, ma aveva un tocco che era un vero e proprio dono di Dio. Lo riconoscevi tra milioni. E ti faceva muovere il culo.
Sempre.
Tony Allen è un uomo piccolo, minuto, un magrissimo fascio di nervi sempre in movimento.
È seduto su una poltrona con una tazza di tè in mano, ma scalpita come se dovesse suonare da un momento all’altro. Le sue gambe si muovono colpendo la cassa e il charleston di una batteria immaginaria, segno di un’esistenza trascorsa dominando incessantemente il tempo.
Quello che passa e che alla veneranda età di 77 anni lo spinge ancora a girare il mondo facendo la cosa che più ama, e quello delle poliritmie che hanno contraddistinto il suo modo di suonare la batteria e che l’hanno reso una leggenda vivente.
Perché ci sono i batteristi, e poi c’è Tony Allen. Il profeta del ritmo, il capo del groove.
L’unico e il solo.
“Sono cresciuto con la musica nel sangue. A casa mia la musica è sempre stata importante. Ma il vero shock me l’ha dato la scoperta del jazz americano. È lì che la mia vita è cambiata per sempre. Ricordo ancora la prima volta che ho sentito Art Blakey suonare. Era un disco, ovviamente, ma è come se mi stesse parlando in una lingua che non era ancora la mia ma in cui mi riconoscevo. E con lui anche Guy Warren e Max Roach: il loro modo di suonare la batteria mi ha influenzato in tutto. Così come mi hanno influenzato gli album in cui suonavano: i dischi di Miles Davis, Charlie Parker, Monk, Duke Ellington…”
Secondo la leggenda Tony Allen scopre di saper suonare la batteria all’età di diciott’anni, quando lavorava come tecnico audio di una radio di Lagos.
Ma già in passato aveva avuto approcci con altri strumenti “Sono sempre stato portato per la musica: sono la classica persona a cui se metti in mano uno strumento che non ha mai suonato prima, qualcosa viene comunque fuori.
Ricordo che avevo provato con il piano e tutt’ora mi piace, ma quando mi sono seduto per la prima volta su uno sgabello dietro una batteria ho provato delle sensazioni che non avevo mai provato prima. Dico proprio dal punto di vista fisico. Mi sono sentito travolto da un onda e ho capito che quella sarebbe dovuta essere la mia strada. Nella mia vita mi è capitato di cambiare rotta molte volte: ho lasciato il posto in cui sono nato, ho lasciato i gruppi in cui suonavo, ma la batteria non l’abbandonerò mai. Tutt’ora la mia prima preoccupazione è suonare. A me interessa solo quello: suonare. È il mio lavoro, ma è anche il mio hobby e il mio più grande amore.”
Suonare è anche e soprattutto una cosa che si fa insieme ad altre persone. Ed è proprio un incontro che cambierà per sempre la vita artistica – e quella privata – di Tony Allen:
“Io e Fela c’eravamo già incrociati prima del 1964: capitava spesso di suonare nelle stesse serate, anche se con orchestre diverse. Poi a un certo punto ho saputo che stava mettendo su una nuova band e gli ho detto ‘facciamola insieme!’, poi lui mi ha confessato che in realtà aveva già deciso che alla batteria ci sarei dovuto essere io. ”
Quella band sono i Koola Lobitos, di cui sono anche uscite recentemente delle ristampe.
Siamo ancora lontani anni luce dall’afrobeat, il contesto è invece quello del cosìddetto highlife jazz che mischiava musica africana tradizionale con elementi calipso e foxtrot e veniva eseguito utilizzando la classica strumentazione occidentale (contrabbasso, pianoforte, gli ottoni e appunto la batteria).
“Mi fa strano che dopo tutti questi anni ci sia tutto questo interesse su cose che all’epoca davvero furono quasi insignificanti. Non scherzo: con i Koola Lobitos non venimmo accolti bene dalla comunità che girava intorno alla scena highlife. Eravamo troppo strani, diversi, e tutto questo perché avevamo un approccio che era in tutto e per tutto jazz. Per certi versi la nostra rivoluzione è cominciata lì. Per esempio: i batteristi che suonavano highlife non usavano il charleston, ce l’avevano lì, chiuso, e non lo toccavano quasi mai. Ogni tanto lo colpivano con le bacchette, ma non c’era verso che utilizzassero il pedale. Eppure il pedale era lì, faceva parte dello strumento, ma giuro che non lo usava nessuno. Era come come vedere qualcuno correre con una gamba sola
perché non sapeva di poter usare anche l’altra. Quando ho cominciato a suonare highlife ho cercato subito di trovare uno stile che fosse solo mio, come fanno tutti quelli che fanno musica, e per distinguermi dagli altri ho puntato tutto proprio sul charleston. Mi ricordo che avevo letto questo manuale di Max Roach che spiegava come usarlo e l’ho fatto ma in un modo tutto mio. Questa cosa all’inizio mi ha creato un sacco di problemi: capitava spesso infatti che quelli con cui suonavo si lamentassero proprio perché era una cosa che fino a quel momento non aveva mai fatto nessuno. E infatti quando mi chiedono di spiegare l’afrobeat, le poliritmie, io dico sempre che
il segreto è nell’uso del charleston. Ho cambiato la vita di un sacco di batteristi africani, anche se all’epoca non me ne rendevo conto.”
Afrobeat. La parola magica. E subito viene naturale pensare agli Africa ’70. La formazione che ha consacrato le figure di Tony Allen e Fela Kuti fino a renderli leggenda.
A quella sigla sono legati alcuni dischi incredibili e l’ascesa di Fela come simbolo politico e rivoluzionario. Di quegli anni di militanza e innovazione, Allen non parla più molto volentieri. La ragione è da rintracciarsi nella repressione politica che era in atto nella Nigeria dell’epoca e che ha portato Tony a lasciare sia la band che il paese.
E poi c’era Fela che aveva perso il controllo di se stesso e si muoveva come un vero e proprio capo tribù e tutta una questione di royalties non pagate (Allen era l’unico altro componente degli Africa ’70 che era autorizzato a comporre le proprie parti) e stipendi non all’altezza…
“Non fatemi parlare di Fela, basta. Tutto quello che volevo dire è nel mio libro. Non ne parlerò mai più, perché ho capito che ogni cosa che dico viene strumentalizzata e usata per contrappormi alla sua figura che, come è forse anche giusto, è stata mitizzata nel corso degli anni e non è più riconducibile alla realtà. L’unica cosa che dico è che al di là di tutte le storie che sono state dette e scritte negli anni, io credo comunque che il mio tempo in quella band fosse finito.
La mia carriera di musicista è segnata sempre dal guardare avanti, provare a fare cose nuove, diverse, stupire prima me stesso e poi chi mi ascolterà. Quindi non ho rimpianti, è stato giusto così!”
La carriera solista di Tony Allen era d’altronde già cominciata quando ancora faceva parte degli Africa’ 70 e infatti nei primi album – “Jealousy, Progress” e “No Accomodation for Lagos” – si avverte forte la presenza di Fela Kuti che aveva contribuito a più livelli.
Ma è negli anni 80, con la nascita della sua vera e propria band, che arriva un vero punto di svolta. Punto di svolta che coincide con la sua dipartita da Lagos e il trasferimento prima a Londra e poi a Parigi. Qui Tony Allen viene accolto come un vero e proprio mito vivente e comincia immediatamente a collaborare con gli artisti più disparati: Sebastian Tellier, gli Air, Moritz Von Oswald e ovviamente Damon Alban.
“Io credo che la storia di ogni musicista sia segnata dagli incontri che avvengono durante il cammino. La musica per me è proprio questo: incontro. Ed è questa la ragione per cui mi piace, da sempre, collaborare e muovermi in territori che all’apparenza possono sembrare lontani dai miei.
Amo, per esempio, sperimentare con l’elettronica perché l’elemento ritmico è ovviamente al centro di tutto e mi permette di esprimermi in maniera libera e creativa. E tutto questo ha cambiato e continua a cambiare giorno dopo giorno il mio modo di suonare la batteria: questo succede quando. devi interagire con dei sequencer e non con dei musicisti in carne e ossa, o quando la batteria acustica si deve interfacciare con la ritmica digitale, tutte cose che quando ho cominciato a suonare io non erano neanche ipotizzabili e ora sono la norma.
In ogni modo, tornando alla faccenda degli incontri, è indubbio che quello con Fela abbia segnato la mia vita, ma senza dubbio l’altro incontro importante è stato quello con Damon Albarn. In questi anni l’ho accompagnato in tutti i suoi progetti, tranne che nei Gorillaz e – per ovvi motivi – nei Blur. E lo stesso faccio io: se penso di lavorare a un nuovo disco, la prima cosa che mi viene in mente di fare è chiamare Damon. Lui la musica ce l’ha nel sangue e ha una naturalezza nel fare le cose che è proprio quello che ho sempre cercato negli altri. Se lui scrive una melodia al piano e me la fa sentire, sembra sempre sia stata fatta appositamente per la mia batteria, e viceversa.
Ma quello che mi piace di lui è che non si è mai posto come una rockstar, non è quel tipo di persona, è uno a cui piace la musica e gli piace suonarla. Con me quello è il requisito fondamentale: vuoi fare qualcosa con me? Suona. Vieni, fammi vedere come te la cavi che poi te lo faccio vedere io!”
Esattamente quello che è successo anche con Theo Parrish, Jimi Tenor e ora anche con Jeff Mills: “La cosa che mi lega a tutte queste persone è proprio l’amore per la musica. La voglia di superare i propri limiti e mettersi continuamente alla prova.
Con Jeff, per esempio, è andata così: ci hanno proposto di fare questa cosa insieme, ci siamo parlati e abbiamo capito di essere d’accordo su molte cose. La prima volta che ci siamo esibiti insieme, a Parigi, ci siamo trovati giusto due giorni prima e abbiamo improvvisato delle cose, senza discuterne molto, solo seguendo il flusso della musica. E poi sul palco abbiamo fatto una cosa ancora diversa rispetto a quella che avevamo provato. Superare i propri limiti, per me, resta la cosa fondamentale quando si vuole interagire con un altro artista.”
L’altra regola, l’unica, è quella di sempre: guardare avanti…
“Ho settantasette anni e l’unica mia preoccupazione riguarda cosa suonerò domani.
Questo è il mio unico pensiero: suonare. Io non ho altri interessi, la musica occupa il 100% della mia vita e non potrebbe essere altrimenti. È sempre stato così e lo sarà per sempre”.
L’ultimo pensiero, invece, lo riserva alla sua terra. L’Africa, da cui manca ormai da quasi trentacinque anni:
“In questi anni è capitato un po’ di volte di tornare a suonare a Lagos, e ogni volta è un’emozione fortissima, incredibile. Io amo l’Africa, amo la mia gente e la porto dentro ovunque vado. Ho pensato più volte di tornarci a vivere, ma poi ogni volta che metto il piede lì mi ritrovo a scontrarmi con una realtà con cui non riesco più a interfacciarmi. La situazione lì è estremamente complessa e credo che lo sarà per sempre. Peccato.”