Mesi fa, ancora a marzo, ci eravamo presi un grande rischio – avevamo fatto una cosa che di solito non si dovrebbe fare. Ovvero, avevamo scritto di un programma televisivo senza ancora averne visto mezzo secondo. In realtà la nostra non era stata una stroncatura del programma in sé ma un discorso più vasto; e c’erano delle scelte che secondo noi andavano misurate (e commentate) non tanto o non solo per la loro efficacia tecnica – ovvero televisiva – ma anche e soprattutto per il messaggio che lanciavano, per l’intenzione che nascondevano. L’avete letta in tanti, veramente in tanti, questa nostra “intemerata preventiva” riguardo alla terza edizione di Top DJ. Ora però, in primis per onestà cronistica, bisogna completare il discorso: arrivati alla terza puntata, ci si può già dare un’idea su come sia il programma veramente. E quindi, si può esprimere un’opinione precisa e decisa, non basata solo su un processo alle intenzioni (come avevamo scelto, scrivendone mesi fa) ma proprio sui fatti.
Ora vi aspetterete che si spari ad alzo zero. Anche sì, volendo, ma nonostante questo oppure proprio questo fateci dire una cosa, liberatoria: grazie, Top DJ! Grazie! Ti sei rivelato talmente una “baracconata” (come scrivevamo, testualmente) che alla fine ti vogliamo bene perché sì, ti rivelerai secondo noi molto utile. Molto molto utile, e molto molto benefico. E’ un deejaying+producing completamente di plastica, il tuo. Completamente. Il passaggio da Sky a Italia Uno e il virare il programma verso i (supposti) gusti del grande pubblico ha completamente azzerato ogni forma di parvenza realistica in questo gioco, in questo talent. Fare il dj è diventata un’arte a due dimensioni, dove quel che conta è sorridere un sacco, essere euforici a cazzo e muovere molto le mani ovunque (purché non troppo sulle macchine in console che, per carità, metti mai che la figlia o la nipote della casalinga di Voghera tornino a pensare allo smalto da mettersi sulle unghie).
Il solito realismo all’italiana, la solita furbata de “La gente è scema, bisogna dargli le cose rendendole stupide il più possibile”. Ora, sarà anche vero, i numeri saranno ancora dalla parte di questa teoria, ma il gioco inizia a mostrare la corda. Cioè, va bene forse se vuoi catturare un’attenzione momentanea (come l’uso delle GIF sulle timeline di Facebook, cosa di cui peraltro la pagina ufficiale di Top DJ usa ed abusa: funziona veramente, lì per lì), ma se vuoi costruire un profilo, un immaginario, una narrazione questo approccio molto silvioberlusconiano – era lui a dire che l’italiano medio era come uno studente di seconda media, e neppure tanto sveglio, quindi bisognava comportarsi di conseguenza per entrare in sintonia con lui e portarlo dalla propria parte – si rivela controproducente e non più così efficace, nel 2016. Come del resto pare dimostrare anche il 3,2% e qualcosa di share della seconda puntata del programma, un dato al di sotto della media di rete (e dimezzato, proprio come share, rispetto a quanto lo precedeva in programmazione). Anche se la terza puntata è già risalita sino al 4,7%: forse le massime del caro, vecchio Silvio non sono ancora da mandare in soffitta.
Quindi ecco: potremmo incazzarci perché il Top DJ di quest’anno, incomparabilmente più dell’anno scorso ma proprio incomparabilmente, fa strage della musica e dei contenuti della club culture. Gué Pequeno dimostra di avere competenza sulla musica da dancefloor perfino meno dei ceffi che quell’entità facebookiana deliziosa che è Realh Clebbers prende per il culo regolarmente: il peggiore e più rincitrullito fan di Marco Carola riesce a fare commenti più analitici ed appropriati anche avendo la mascella in libertà. Gioca un po’ sul suo personaggio ma nemmeno troppo, come se in fondo pure lui un po’ si vergognasse di essere finito lì, a pontificare e giudicare su una cosa di cui conosce pochino. Ma meglio lui di Syria, che se fin dall’inizio sembrava la giudice meno indicata dei tre – come sostenevamo già mesi fa – non potevamo però pensare si (auto)relegasse ad un ruolo così vacuo ed ornamentale: in tre puntate non le abbiamo ancora sentito dire una cosa realmente significativa, le volte che ci prova (vedi l’imperscrutabile ed esilarante “Questa è musica da after” di ieri…) era magari meglio che no.
E Morales? Morales è quello che ci fa incazzare più di tutti. E’ il “Mi stai diludendo, vuoi che muoro?” di Top DJ, solo con la faccia e il piglio da guappo saccente. Il problema è che si appiattisce sullo spessore dialettico ed argomentativo degli altri due colleghi di giuria, solo con la supponenza di essere l’unico che ne sa veramente (bella forza, rispetto a Syria e Gué Pequeno pure chi vi scrive ne sa veramente, ed è tutto dire): il risultato è che lancia commenti recisi ma spesso in contraddizione fra di loro, dando comunque l’impressione di essere 1) gratuitamente rancoroso 2) uno che apprezza solo quelli che fanno la musica che piace a lui 3) lo zio burbero un tempo figo oggi un po’ simpaticamente rinco. L’unico davvero dotato di competenza in video diventa insomma una macchietta anch’esso, la macchietta di “quello che ne sa” – il messaggio che passa è che chi prova ad emettere dei giudizi tecnici è in fondo un tizio un po’ palloso, un po’ stizzito, un po’ superato dai tempi, a cui comunque voler bene perché fa colore e un tempo era un ganzo e merita rispetto. Ne esce malissimo, Morales; poi in realtà la sua storia e la sua classe sono talmente forti che se ne farà una ragione, e il suo conto in banca gli dirà che farà bene a farsela, ma di sicuro si è alienato un po’ di simpatia da parte delle persone che possono apprezzarne veramente la carriera, il background, la musica.
E i concorrenti? Come ne escono i concorrenti? Loro sono quelli per cui veramente ci dispiace. Sono ragazzi svegli, simpatici e con delle qualità, chi più chi meno; ma sono tutti perfettamente inseriti in un meccanismo che, come dicevamo, rende la figura del dj quella di un fumetto, o meglio ancora di un fotoromanzo gioioso e scritto male: dei Massimo Ciavarro del nuovo millennio che riescono ad entrare nel mondo dello spettacolo e del successo solo per il fatto che si stanno agitando dietro ad una console, bravi loro. Non c’è traccia, nel programma, della fatica per arrivare ad acquisire competenza, accumulare conoscenza musicale, allenare il proprio talento innato, rifinire in ore e ore di studio un singolo suono – tutte cose che se fate i dj/prodcer seriamente (o avete amici ed amiche che lo fanno) sapete bene che fanno invece parte del corredo necessario e quotidiano della vita d’artista in questo settore. Ok i tempi televisivi; ma nella versione precedente di Top DJ c’era stato almeno il tentativo di rappresentare anche questa faccia della medaglia, seppur sommariamente, mentre in questa edizione tutto è sacrificato in nome di un montaggio e di una scrittura televisiva rapidissima, vacua, fatta di concetti basic intenzionalmente e programmaticamente superficiali.
Già, perché anche guardandola solo dal punto di vista televisivo questo Top DJ è un massacro di tagli ed ipervelocità; il programma è iper-montato pur di poter liofilizzare in pochi frame e pochissimi secondi frasi, concetti, avvenimenti, risultati, battle; un frullatore così veloce e tagliato con l’accetta da diventare più fastidioso che rapido ed avvincente, anche se uno non si vuole soffermare sui tecnicismi e sull’essenza vera del ruolo da dj. Poi, chissà, magari meglio così: perché se ci si potesse soffermare un po’ di più sull’essenza vera del ruolo da dj allora emergerebbe di più l’inadeguatezza di due giudici su tre, di alcuni ospiti (se nella seconda puntata con Morgan almeno la musica era rientrata dalla finestra, pur con alcuni sfondoni smascellanti del Nostro, nella terza con Tomassini pure un Arbre Magique alla fragola appeso lì al microfono avrebbe detto di più e donato più spessore contenutistico); soprattutto, ci sarebbe ancora meno spazio per infilare un product placement che, sinceramente, sta superando l’imbarazzante e inizia a diventare controproducente per i brand stessi da quanto è smaccato ed infilato a forza nel programma. Ridateci le care, vecchie televendite con Mastrota, se l’alternativa è vedere concorrenti e presentatori doversi tuffare con fare finto convinto in scenette pre-confezionate e solo teoricamente spontanee (peraltro, sono i momenti in cui Tommy Vee fa la figura migliore: lui è un povero diavolo, non abbiamo nulla contro di lui, ma in televisione viene fuori molto peggio di come è in realtà, sembra molto più nervoso e saccente – e comunque il suo ruolo da coach, per come è scritto quest’anno Top DJ, è ancora meno che ornamentale, i suoi consigli tecnici sono talmente ridotti e tagliuzzati che sembrano un po’ quelli di Adriana per Rocky Balboa: tanto affetto, qualche confuso concetto, zero sostanza).
Tuttavia in tutto questo dicevamo: grazie, Top DJ! Grazie! Sì. Perché offri una versione della vita e del lavoro del dj/producer talmente leggera, bidimensionale e stereotipata (un mondo fatato, dove la fatica e la conoscenza acquisita non sono minimamente dei fattori, conta solo quanto fai coinvolgere cento comparse che ballano e si fanno i selfie in uno studio televisivo) che noi speriamo proprio che qualcuno ti creda e dica “Uh, questa è la vita da dj, questo è il suo lavoro, voglio farlo anche io!”. Sì dai: fatelo! Se siete così ingenui da credere che quella raffigurata dal programma così com’è fatto quest’anno sia veramente la dimensione e la realtà del deejaying, siamo ben contenti che vi tuffiate nella faccenda e ci proviate. Così vi levate dalle scatole, perché tanto quando vi scontrerete con la realtà saranno peni acidi. Top DJ può essere un pessimo esempio, spargere la consapevolezza che il deejaying sia solo una faccenda da sorridenti debosciati? No: può essere tale solo per chi è veramente ingenuo e non ha veramente nessun rispetto per la musica, per ciò che rappresenta emozionalmente, socialmente, culturalmente. Per tutti gli altri, noi compresi, Top DJ quest’anno è un allegro fumettone con momenti di (involontaria) autoironia, dove i concorrenti sono action figures in un gioco di ruolo per bambini dai 6 ai 12 anni – non c’è nulla di male ad avere tra i 6 e i 12 anni – e sopra quest’età si può solo ridere e basta.
I più rigorosi diranno: parlandone così, e parlandone così tanto, fate il loro gioco. Boh. Domanda: il loro gioco qual è? C’entra qualcosa con la club culture, anche con quella più commerciale? Secondo noi, zero. Vorrebbe più aver a che fare con quel mondo – quello che fa i numeri, ma vivaddio sempre meno – di discoteche che riempiono le loro serate ospitando ex grandifratelli in disarmo, topless dj e fabrizicoroni spompati, ma secondo noi non riesce nemmeno in quello, perché ogni tanto si vergogna un po’. E quindi, che problema c’è?