Il “Ne verremo fuori migliori” per molti si sta scolorendo in un “No, le cose ripartiranno uguali se non peggio“: è il pessimismo che nasce quando ci si scontra con la realtà, coi conti, con le limitazioni, che spesso – per mancanza di economie, di visioni, di coraggio – riporta verso il basso i voli pindarici ed idealistici. E’ una polemica presente soprattutto sulle coordinate “nostre”, quelle del clubbing; altri generi musicali hanno molto più semplicemente voglia di ricominciare, e sperano di poterlo fare. Anche per loro, comunque, è durissima. Ogni cosa venga fatta, va elogiata. Ogni cosa venga fatta bene, con criterio e curatela e forza delle idee, va elogiata tantissimo.
Ecco che quindi siamo felicissimi che una città che negli ultimi vent’anni ha dimostrato come la cultura e la musica possano essere un volano civile, intellettuale ed economico come Torino non solo riparte, ma riparte mettendo in campo due delle sue eccellenze migliori di quest’ultimo periodo. Due eventi molto diversi fra di loro, ma che ciascuno nel suo campo evidenziano una caratteristica chiara: l’importanza di una mano curatoriale, di una direzione artistica che non sia cioè la mera raccolta de “le cose che funzionano meglio in ‘sto periodo” ma che porti piuttosto ad un confronto dialettico con la propria audience potenziale. Festival insomma che col proprio pubblico creano una comunità, partendo dalle scelte artistiche. Senza peraltro lasciare indietro tutto il resto: organizzazione inappuntabile, musicisti trattati bene, logistica affidata ai migliori professionisti del settore (…e a Torino sono proprio tanti).
Il primo caso è quello del Torino Jazz Festival, di cui già in passato ci siamo occupati spesso e volentieri. L’abituale slot di fine aprile / inizio maggio per ovvi e ben conosciuti motivi è stato posticipato alla seconda metà di giugno, dal 19 al 27 (e quando questa posticipazione c’è stata, credere nello svolgimento di un festival di qualità “solita” era un atto di fede, non una certezza), ma la qualità è rimasta sempre la stessa. Un festival jazz che da un lato non molla la via maestra del genere per arrendersi a mani basse al “nuovismo” hipster, dall’altro però è curioso, cerca, esplora, chiede al proprio pubblico di non farsi incasellare nelle liturgie consolidate (che in quel determinato genere musicali sanno essere molto forti e coriacee…). Lo fa talmente bene di combinare questi due piani che per certi versi è molto difficile scorgere dove stia il confine: a chi appartengono Uri Caine, Andy Sheppard e Furio Di Castri, al jazz “classico” o all’esplorazione? E Biréli Lagrène che con una big band d’eccezione omaggia Jaco Pastorius? Come collocare la nuova strepitosa formazione guidata da Arto Lindsay, con Melvin Gibbs al basso e Kassa Overall alla batteria? E la Cosmic Renaissance di Gianluca Petrella?
E poi ancora: uno dei dischi più belli degli ultimi vent’anni al di là di ogni barriera di genere è “Blackstar”, il testamento finale di David Bowie, e spesso nelle recensioni se ne è evidenziata la striatura black/jazz che lo percorreva: bene, il Torino Jazz Festival ci fa il regalo di riproporre il nucleo forte strumentale di quel disco, capitanato da Donny McCaslin e con Gail Ann Dorsey che prende il posto del Duca Bianco (lei, per mille motivi, può). Ma un altro regalo è quello di portare le portentose esplorazioni audio/video digitali di Robert Henke in uno spazio fantastico come le OGR: è jazz? Per come Henke usa i codici, onestamente, come fosse uno strumento con cui esplorare nuove frontiere, ci sentiremmo di dire: sì, anche questo è jazz.
Il consiglio come sempre è di affrettarsi: i biglietti iniziano a scarseggiare, facile immaginarsi la solita teoria di sold out che contrassegna le ultime edizioni del Torino Jazz Festival. Tutte le informazioni le potete trovare qui.
L’altro caso virtuoso di Torino è TOdays. Qui, lo slot temporale è stato confermato – fine agosto, dal 26 al 29 – e se non ci sono stati magari colpi epocali (e costosi), qualsiasi appassionato di musica di qualsiasi genere non può che stare ammirato di fronte alla line up che è stata costruita. Black Midi, The Comet Is Coming, Arlo Parks, Black Country New Road, Iosonouncane: volendo questa è una infilata “hipster”, nel senso di di act parecchio baciati da un certo tipo di hype, ma i dischi sono comunque molto consistenti, non scontati, e a maggior ragione diventa fondamentale testarli dal vivo, anche perché sono tutti act che sono diventati “di moda” operando una o più rotture rispetto al contesto contemporaneo. Ci sono poi scelte italiane “solite” ma molto ponderate e di gusto: I Hate My Village, Teho Teardo (con un set in anteprima esclusiva), Andrea Lazslo De Simone, Motta, Tutti Fenomeni. Info? Qui.
Bellissimo vedere i festival fatti così. Nulla contro chi mette su i cartelloni solo-grandi-successi o solo-nomi-del-momento-per-tutti, è comunque impresa (e rischio!) e di questi tempi ancora più del solito va apprezzato, ma Torino Jazz Festival e TOdays sono proprio degli esempi virtuosi di alto, alto livello. Anche perché tra l’altro in entrambi i casi si pensa sempre ad eventi collaterali, ad incontri con gli artisti, a contaminazioni con altri linguaggi: quando la scintilla culturale c’è, è viva. Si muove in più direzioni. Non si esaurisce nella sola liturgia del concerto.
A Torino, in città, te ne rendi conto che la musica è una realtà importante, da rispettare anche e soprattutto grazie al gusto ed alla competenza. Lo respiri. Nella gente che ci abita, nella gente che ci arriva per visitarla, con molta fiducia e molto consapevolezza. Speriamo lo capiscano anche le istituzioni – e guarda caso, occhio a questo appello. Abbiamo bisogno di cose fatte con amore così come con competenza e professionalità, non solo con l’uggia di tirare a campare mettendo in campo le solite ricette masticate e rimasticate.