Scusate se facciamo un piccolo ripasso di economia. Ma serve. Il boom italiano è stato costruito prima di tutto sulle piccole e medie imprese, che a loro volta si sono giovate spesso e volentieri della cosiddetta “economia dei distretti”: ovvero, nella stessa zona geografica – spesso nella stessa città, nemmeno di grandi dimensioni – si sono ritrovate tante aziende che facevano cose simili, condividendo così tutta una serie di conoscenze, creando un capitale umano formato e specializzato, in generale lavorando meglio, risolvendo i problemi prima e con più reattività rispetto ai cambiamenti del mercato. La discussione a questo punto potrebbe portarci lontano (anche fino alla parziale crisi e ai limiti strutturali di questo modello, di fronte alla sfida della globalizzazione), ma noi vorremmo intanto che isolaste questo principio. Che è fondamentale.
Torino, ormai lo sapete, è il vero e proprio “distretto dei festival” italiano. C’è il Kappa FuturFestival (un gigante europeo), c’è Club To Club (eccellenza artistica), a lungo c’è stato Jazz:Re:Found (ritrovando nuova linfa, in uno snodo fondamentale della sua storia), c’è Seeyousound (il miglior incrocio possibile fra musica e cinema), c’è Jazz Is Dead (probabilmente ad oggi il miglior festival di musica d’avanguardia in Italia, soprattutto dopo l’estinzione di Saturnalia, e questo weekend si scatena), c’è ToDays (l’evento più “primaverasoundesco” come attitudine ci sia dalle nostre parti, nelle grandi città). Ce ne staremo dimenticando qualcuno, probabilmente. Ma non ci dimentichiamo certo di una cosa: tutto questo è stato reso possibile prima di tutto dalla caparbietà, dalla preparazione e dall’alta professionalità di chi ha dato vita a questi eventi; ma queste qualità sono state a loro volta “abbracciate” da un pubblico che ha dimostrato di avere sete di cose fatte bene, esigente da un lato ed appassionato dall’altro. Tutto questo in un processo virtuoso che si autoalimenta.
A giovarsi della situazione è alla fine l’intera città: l’indotto è infatti sia culturale, come ovvio, ma anche economico, come mai sottolineato abbastanza. Lasciando da parte l’economia, vorremmo sottolineare il paradigma culturale. E il Torino Jazz Festival è una cartina di tornasole perfetta. E’ il tipo di festival che si merita questa città (nei suoi aspetti migliori), è il tipo di festival che è una felicissima anomalia. Per certi versi infatti il festival jazz è di per sé il “prodotto istituzionale” per eccellenza: il jazz infatti in Italia anche più che altrove è diventato nei decenni e nel bene e nel male la musica “rispettabile”, quella che le istituzioni sopportano/supportano quando vogliono fare bella figura, quella che è fruita da una fascia abbiente&educata della popolazione, quella che non crea casini di ordine pubblico. La conseguenza è stata una “musealizzazione” del jazz che non fa onore né alla storia né alla potenzialità della musica stessa (nel DNA, è la forma d’espressione sonora più aperta alle contaminazioni ed alle sperimentazioni sin dalla sua nascita, oltre cento anni fa), che ha come corollario una scena musicale sempre più ostaggio dei soliti nomi (perché in questa bambagia di “rispettabilità” si vuole “andare sul sicuro”) ed anche incapace di rigenerarsi, di cercare nuove sfide, di guardare verso nuovi territori e nuovi pubblici e nuove pratiche, evitando di essere solo il fortino assediato di un battaglione di puristi sempre più incanutiti.
Ecco: tutto questo non accade al Torino Jazz Festival, soprattutto da quando la direzione artistica è finita in mano a Giorgio Li Calzi in una efficacissima diarchia con Diego Borotti. E’ un po’ il modello-Torino: anche gli eventi grossi o comunque rilevanti possono essere guidati da persone che sono prima di tutto appassionate e competenti, e queste persone hanno carta bianca – anche perché sanno che hanno la fiducia potenziale del pubblico – per prendersi dei rischi, per essere ambiziosi, per uscire dai luoghi comuni del proprio contesto d’appartenenza. L’edizione 2022 del Torino Jazz Festival una volta di più e forse ancora più che in passato dimostra di saper essere qualcosa di diverso dal “solito festival jazz”, quello insomma “a favore di rispettabiltà”. Esplora, propone, si mette in gioco, rischia. Al tempo stesso – e questa è una cosa che amiamo del TJF – lo fa senza snobismi, senza cercare di evitare le forme più “popolari” del genere, si ricorda insomma sempre di poter parlare (e numeri alla mano, lo fa) anche con un pubblico non iper-specializzato. In questo modo fa capire davvero bene come il jazz sia un alfabeto complesso e stratificato, e come il jazz fin dall’inizio sia stato una compenetrazione di innovazione e sperimentazione da un lato ma anche di anima “popolare” e coinvolgente dall’altro. Se ci pensate, è quello che succede anche ai migliori festival di musica elettronica, quelli che amiamo di più: sanno coinvolgere tutti nell’atto liberatorio, anti-intellettuale e “pop” del ballo, lo fanno con una musica che non è quella che si sente nelle radio o in televisione e che miete milionate di streaming, visto che viaggia su soluzioni sonore, armoniche e melodiche particolari, lontane dalla “forma canzone” più semplice e da cantare in coro.
(Il jazz è ordinato? Continua sotto)
Fuori i nomi allora, e i motivi d’interesse di questa edizione 2022: dopo una prima serie di giornate (11-12 giugno) molto legate alla figura di Charles Mingus (uno dei grandi geni del jazz, punto), dove c’è la felice intuizione di presentare il contrabbasso come strumento-principe, solista e solitario, affidando la cosa a campioni come Buster Williams, Paolino Dalla Porta, Furio Di Castri, con l’inizio della settimana successiva si sposta l’obiettivo prima sulla sperimentazione scandinava tra rock, jazz, psichedelia e folk nordico con Ståle Storløkken a fare da mattatore (vuoi da solo, vuoi da solo, vuoi coi suoi Elephant 9 con Reine Fiske ospite aggiunto), ed è un bellissimo focus dedicato ad un musicista di cui si parla poco ma ha una intensità, una visione e una classe semplicemente sublimi – e in grado di passare con naturalezza dalla fusion “storica” di Terje Rypdal al rock granitico dei Motorpsycho, fino all’avventura improvvisativa.
Mercoledì 15 giugno, un appuntamento con la storia: il tour d’addio del grande, grandissimo Milton Nascimento, uno dei più grandi autori di musica brasiliana di tutti i tempi. Giovedì 16 giugno riecco Buster Williams, non in solo ma alla guida di un quartetto d’eccezione dove spicca Lenny White alla batteria. Venerdì 17, giornata meravigliosa per chi ama il jazz “spurio”, vivo, che guarda al presente ed anche al futuro: da un lato il quartetto capitanato da Jan Bang, dove l’elettronica ha un ruolo prominente, dall’altro il Jason Lindner che già stregò Bowie in “Blackstar” che porta il suo progetto Now vs. Now ad arricchirsi, espressamente per il Torino Jazz Festival, di Kurt Rosenwinkel da un lato e dei “nostri” LNDFK e Dario Bass dall’altro.
Sabato 18 giugno, viaggio nel cantautorato nuovo, irregolare, che mescola “bianco” e “nero” (in tutte le possibili accezioni culturali dei termini), da un lato con Trixie Whitley dall’altro con Kae Tempest. Chiusura trionfale col caravanserraglio soul-jazz-finnico-delirante guidato da Jimi Tenor: un’altra cosa che difficilmente si può vedere in un jazz festival canonico. Ci sono poi nell’arco della durata di tutto il Torino Jazz Festival anche molti altri appuntamenti, alcuni appunto anche più “tradizionali”, ma proprio questo è la bellezza di questa manifestazione: zero snobismo, zero chiusure, perché competenza non significa provare solo a servire il piatto più sofisticato in cucina proposto dallo chef. Una lezione bellissima.
…una lezione che, molto probabilmente a vedere cosa è successo negli anni passati, rischia di finire sold out: ecco che quindi vi consigliamo caldamente di guardarvi bene il programma e poi cominciare a fare vostri i biglietti in prevendita (andando qui). Peccato solo la sovrapposizione, negli ultimi giorni, col Sónar barcellonese: ma che questo diventi un problema, ovvero che un jazz festival italiano possa essere motivo d’interesse anche per un aficionado del festival catalano, è una bella notizia. Si stanno abbattendo steccati. Si sta riportando vita, senso d’avventura e voglia di scoperta nella musica: a trecentosessanta gradi.