Continua a propagarsi il fuoco della contaminazione tra generi, col jazz a fare da perno. Un percorso che all’estero, ma anche in Italia, sta raccogliendo consensi e che si contestualizza in quel fenomeno di jazz reinassance avviato all’inizio dello scorso decennio (ma con vampate anche negli anni ’90 dell’acid jazz e dell’M-Base di Steve Coleman o addirittura negli anni ’80 del pop britannico di matrice più cool). Tanti i nomi contemporanei che si potrebbero citare come fautori di un movimento sempre più rilevante: su scala globale quelli più noti provengono dal prolifico bacino di Los Angeles, e menzionarli in questa sede sarebbe ridondante, dato che molti di voi li avranno già intercettati tra i vari ascolti più o meno compulsivi. Stringendo l’obiettivo sull’Italia, su queste pagine un gruppo in particolare era già stato menzionato, in una divertente ed interessante analisi delle loro ultime produzioni. Jazz-O-Tech è la loro scuderia, e la loro mission è trovare il perfetto equilibrio tra techno e jazz. Sì, stiamo parlando dei Torino Unlimited Noise, collettivo composto da Fabio Giachino, Mattia Barbieri e Gianni Denitto. Per approfondire il loro percorso e capire meglio come si stia sviluppando questo high tech jazz 2.0 ci siamo seduti attorno ad un tavolo per un’interessante chiacchierata sulla loro carriera, sulle loro influenze e sulle declinazioni del fenomeno in Italia.
Proviamo a fare un percorso a ritroso. Partiamo dal vostro ritorno all’esperienza live dopo un lungo periodo di stop forzato. Quali sono state le vostre sensazioni ed emozioni nell’interagire nuovamente con il pubblico?
Abbiamo fatto l’ultimo concerto prima del lockdown il 3 marzo e poi sappiamo tutti cosa è successo. Prima di tutto questo, quando terminavamo il nostro live facevamo un reprise in cui salivamo nuovamente sul palco per una quarantina di minuti improvvisando un live techno. In quel contesto chiaramente il pubblico iniziava a ballare a stretto contatto con noi e questa situazione non si è più potuta ripetere per lungo tempo. La scorsa estate abbiamo avuto quindi dei live più tradizionali con il pubblico seduto e sentivamo la necessità di recuperare l’interazione con il pubblico.
A questo immagino si aggiunga come fattore positivo la voglia del pubblico di avere questo tipo di esperienza dopo quasi due anni di stop forzato.
Sicuramente il pubblico ha una grande energia che ha dovuto trattenere per molti mesi e questo fa sì che il ritorno ad una situazione quasi normale sia accolto con un entusiasmo ancora più grande. Per il tipo di musica che proponiamo è essenziale che ci si possa esprimere anche con il corpo oltre che con la dimensione di ascolto, che resta comunque altrettanto importante.
(Esprimersi, aprire nuove porte di percezione; continua sotto)
Si parla di corpo e di mente perché il vostro sound interseca due dimensioni, quella jazz e quella techno, in un ibrido che evolve un discorso intrapreso dagli esponenti di quello che possiamo definire “high tech jazz”. In questo senso collaborate con molti artisti della scena club per ampliare queste influenze. Come li selezionate per arrivare a produrre musica assieme?
Facciamo delle valutazioni assieme all’etichetta che ha comunque un portfolio di proposte che sono artisticamente in linea con quello che suoniamo. Per esempio nel caso di Tensal c’è stato un dialogo tra lui e la label, con entusiasmo da parte sua nel remixare la nostra musica. Ci riteniamo fortunati che gli artisti siano contenti di lavorare con delle sonorità jazz che, se vuoi, possono risultare più articolate e complesse. Questo è per noi un privilegio e un apprezzamento di cui siamo grati.
Durante il periodo di isolamento imposto dal lockdown voi stavate lavorando a “New Door”. Questa condizione come ha mutato il vostro modus operandi da un punto di vista operativo e più strettamente emotivo?
Abbiamo lavorato a distanza “abusando” in un certo senso di tutti quelli strumenti che ci potessero mettere in contatto. La grande fortuna in tutto questo è che siamo persone che hanno le idee abbastanza chiare e questo ci ha permesso di proseguire il lavoro. È chiaro che a livello di sound la condizione che abbiamo vissuto, non potendoci nemmeno incontrare, ha fatto sì che anche il sound in questione ne venisse influenzato. Abbiamo messo a fuoco cosa ci piace davvero fare, cosa possiamo introdurre musicalmente e su cosa dobbiamo lavorare per migliorare in quello che facciamo. Passare dal registrare tutto live one take a questo modo di lavorare è stato uno stacco notevole, e forse anche per questo i nostri lavori più recenti vanno un po’ di più in direzione dell’elettronica.
Prima di tutto questo quindi il vostro lavoro, in termini di produzione, avveniva attraverso delle lunghe session one take in cui poi andavate a fare dei cut di ciò che vi piaceva?
Assolutamente. Anche molti dei video che vedi sono registrati one take senza alcun tipo di cut. Ci siamo anche sbizzarriti in progetti paralleli come TUN Kitchen, dove Mattia – che è un ottimo cuoco – andava a proporre delle ricette su cui poi c’erano delle nostre sonorizzazioni anche abbastanza pese (ridono, NdI). Ed invece nella fase del lockdown abbiamo rivisto completamente le nostre modalità di lavoro, suono e produzione. Durante quel lasso di tempo, alcune persone hanno vissuto la situazione con una mentalità negativa, altre invece hanno tentato di cogliere cosa ci poteva essere di positivo. Per esempio noi in passato ci eravamo sempre appoggiati a degli studi per registrare la batteria, ed invece nella fase di stallo abbiamo deciso di investire, acquistare gli strumenti necessari e apprendere le competenze necessarie per poter essere autonomi anche su quel versante. È stata un’occasione, avremmo potuto dire: “Ragazzi ci vediamo tra un anno e mezzo”, ma abbiamo preferito andare avanti.
Andando un po’ più indietro nel tempo, la vostra conoscenza è nata diversi anni prima rispetto al progetto TUN. Corretto?
Sì, ci siamo conosciuti molti anni prima collaborando l’uno con l’altro, anche a diversi album e progetti, nel corso di tanti anni in cui i nostri percorsi si incrociavano sì, senza però mai farlo in questa formazione a tre.
Prima ci si fidanza e poi ci si sposa, in sostanza…
Sì, questo sicuramente è merito del nostro background jazz. È un ambiente in cui si incontrano molti artisti, si condivide il palco con persone molto diverse tra loro, si producono dischi e si creano molti progetti. C’è uno scambio costante, un’evoluzione e un arricchimento. Sicuramente ci conosciamo dai tempi del Conservatorio e forse ci siamo incrociati anche prima; quindi arrivare ad oggi con TUN è stato il frutto di un percorso di crescita individuale e collettivo che ha ricoperto gran parte della nostra vita, almeno in ambito musicale.
Se doveste individuare dei riferimenti condivisi in chiave jazz ed in chiave elettronica, quali potreste citare d’istinto?
Sul versante jazz Coltrane, Miles Davis, Herbie Hancock, Wayne Shorter, mentre sull’elettronica Radiohead, Jeff Mills, Fabrizio Rat, Throwing Snow, Stephan Bodzin. È un meltin’ pot variegato in cui le nostre reference jazz sono più simili fra loro mentre quelle legate all’elettronica sono un po’ più differenti. Impossibile non citare anche Comet Is Coming che indica una direzione piuttosto chiara attraverso la figura di Shabaka (Hutchings, NdI).
Ci sembra assurdo che ci sia gente che ritenga strano sentire una 909 in un concerto jazz, quando negli anni immediatamente successivi alla sua nascita il jazz era in tutto e per tutto “musica da ballo”
Personalmente ho percepito questa ispirazione, anche da un punto di vista ideologico: riportare il jazz ad essere musica da ballo dopo anni in cui forse è stato eccessivamente istituzionalizzato e svestito di quella componente.
Ma infatti ci sembra assurdo che ci sia gente che ritenga strano sentire una 909 in un concerto jazz, quando negli anni immediatamente successivi alla sua nascita il jazz era in tutto e per tutto “musica da ballo”. Questa è una dimensione reale e che nessuno di noi ha inventato, ma che forse le persone hanno dimenticato nel corso del tempo. Oggi noi portiamo avanti anche proprio quella parte del discorso attorno al jazz, con le innovazioni e le influenze che sono via via emerse in questi decenni. Un personaggio come Jeff Mills può essere considerato il Miles Davis della techno: e quindi perché non evolversi grazie a questo tipo di ispirazioni?
Avevamo parlato di percorso a ritroso, quindi l’ultima domanda è: quando c’è stato il trigger che ha fatto scattare nella vostra testa l’idea di creare Torino Unlimited Noise?
C’è stata un’occasione in Nepal in cui ci siamo esibiti assieme ed eravamo in una formazione a cinque. Lì probabilmente c’è stato il primo vero incontro sul palco tutti e tre. Poi a Torino c’è stato un club che ci ha dato l’occasione di fare live improvvisati sull’elettronica: all’inizio è stato un po’ delirante, tra problemi tecnici ed inconvenienti vari ci sono stati però momenti molto fighi in cui tutti riuscivamo ad incastrarci perfettamente. Abbiamo cambiato molti set up, passando per esempio dalle drum machine alla batteria, e in quella confusione iniziale abbiamo deciso di concentrarci anche su una fase di scrittura vera e propria. A quel punto la nascita di Torino Unlimited Noise è stata inevitabile.