Allora, senza dilungarsi troppo: la vulgata che viene fatta passare è che “Containers” sia un ritorno alla foma di Night Skinny, dopo la rammollitudine commerciale di “Botox”: rammollutdine che gli è stata contestata da molti, ed allora lui si è messo di buzzo buono ed è tornato con un disco cazzuto e non più paraculo. Beh: balle. Balle, prima di tutto perché “Botox” non è stato del tutto capito – è un disco molto più “twisted” e scuro/paranoide di quello che sembra all’apparenza, e di come è stato poi venduto in giro dai commenti social: ma oggi i commenti social nascono da ascolti superficiali, si sa. Ma balle anche perché “Containers” è forse ad oggi il disco più debole di quello che è, potenzialmente, ancora adesso, il miglior producer italiano.
(“Containers” e, subito sotto, “Botox”: fate i vostri confronti; continua sotto)
Il problema è che delle sue capacità si è accorta già da anni anche l’industria discografica contemporanea, quella che ha (ri)preso ad usare il rap come se fosse una catena di montaggio, esattamente come nella Brescia anni ’90 si usava la house: se un suono funziona, sfornane più che puoi, senza timidezze, senza remore. Sfruttalo, santiddio. Organizzati da catena di montaggio, con processi standardizzati. Perché finché il mercato ti premia e i bilanci sono in attivo, ehi, non hai nulla da rimproverarti. Anzi, va’: è pure conturbantemente sexy ed intelligentemente meta-ironico ed intellettuale, secondo un’ottica perversa, trattare la musica come merce, no?
No, santiddio.
No.
(Ed è questo il motivo per cui tutti i tentativi di santificazione indistinta della catena di montaggio bresciana in campo dance degli anni ’90, che nascono dalle stesse dinamiche di rivalutazione del trash e degli 883 e dei Cugini di Campagna, francamente mi hanno sempre lasciato molto perplesso, per non dire proprio incazzato; solo che poi ci si rende conto che ha senso incazzarsi per questioni di musica solo se si hanno quindici anni, all’anagrafe, o nell’emotività. Se non si rientra in questa casistica, ci sta l’analisi critica, non però le barricate piangenti ed isteriche)
Ecco. Uno degli step di crescita di Night Skinny è stato proprio diventare adulto e iniziare a misurarsi coi cliché del rap-che-funziona. Poteva restare l’eroe dell’underground, dell’artista che non scende a compromessi, ombroso ed atipico; ma giustamente e comprensibilmente, appena assaporata la possibilità di entrare nella Serie A del rap nazionale e delle decisioni prese negli uffici delle major ha fatto in modo di entrarci e di starci comodo, in questi uffici e in queste decisioni, adeguando il tiro. Del resto il fatto che tu sia bravo a cosa ti serve, in fondo? Eh? A cosa serve? A vivere della tua arte o della tua bravura, o a ricevere i complimenti per lo più di chi non ha idea cosa significhi vivere della propria arte e della propria bravura, mentre tu nel frattempo fai altro per sopravvivere e, grande beffa, constati che gente meno brava di te macina invece fatturati?
È il dilemma di Skinny, questo, ed è soprattutto il dilemma di qualsiasi producer sia nato da una scena underground diventata (giustamente, organicamente) di successo: che sia l’hip hop, che sia l’elettronica, che sia l’indie, che sia quello che volete voi. Vale per tutti.
(The Night Skinny; continua sotto)
Il problema, in tutto questo, è la pigrizia. La pigrizia creativa.
Quando inizi a misurare la tua abilità a seconda delle certificazioni FIMI o della dichiarazioni dei redditi che presenta annualmente il tuo commercialista, anche se non lo vuoi si insinua nei tuoi schemi mentali la componente dell’”ottimizzare le risorse”, è proprio una questione inconscia e tocca tutti, nessuno escluso: se una cosa funziona e ti viene bene, per quale motivo dovresti abbandonarla, per quale motivo dovresti cambiarla?
Del resto il fatto che tu sia bravo a cosa ti serve, in fondo? Eh? A cosa serve? A vivere della tua arte o della tua bravura, o a ricevere i complimenti per lo più di chi non ha idea cosa significhi vivere della propria arte e della propria bravura, mentre tu nel frattempo fai altro per sopravvivere e, grande beffa, constati che gente meno brava di te macina invece fatturati?
A partire da “Pezzi” e ancora più da “Mattoni”, e già lo scrivevamo, Night Skinny aveva iniziato una valida ed intelligente opera di “adeguamento al mainstream”, in cui prendeva gli stilemi dominanti sul mercato e ci metteva sopra la sua firma ed il suo tocco. Ecco che quindi “Botox” non ci è assolutamente mai sembrato fuori posto o un disco rammollito, quanto semmai l’approdo naturale di un percorso voluto, desiderato. In tutto questo però si è fatto via via sempre più forte e strutturale nella sua musica la questione della “ottimizzazione delle risorse” di cui si diceva sopra: siamo convinti che non è che Luca Pace abbia fatto i dischi di fretta o con l’idea di farli paraculi, tutt’altro, semplicemente il condizionamento ambientale – le fatture, i commercialisti, le serate con gli amici di successo nell’industry, i consigli finto disinteressati dei discografici – gli hanno fatto sembrare come unica via dignitosa, naturale e matura il fatto di non discostarsi troppo dal suono-che-funziona. Ed è al servizio di questo suono che ha messo a servizio le sue capacità, il suo talento, il suo perfezionismo. Mentre altri – o il suo amor proprio – lo hanno convinto che era dal numero e dal peso dei featuring che si misurava la bontà del suo lavoro, della sua arte, della sua rilevanza nel panorama musicale contemporaneo.
(Foto di gruppo per “Containers”; continua sotto)
La foto-posse che gira legata all’uscita di “Containers” da un lato è un bel documento, dall’altro è un po’ un autogol: servono davvero così tante persone a sfornare un disco che invece di suo non è vario, non è eclettico, non è “unico”, ma è solo e semplicemente fatto a modo? Possibile che la somma di tanti talenti – quindi di tanti artisti sulla carta diversi – sforni un disco così omogeneo, così prevedibile?
Risposta: possibile. Perché la verità è che il rap in Italia, oggi, è diventato esattamente quello che era la dance commerciale negli anni ’80 e ’90. Una formula. Una formula che funziona. Una formula che funziona proprio perché è sfruttata – e creata – industrialmente. Una sorta di “fordismo musicale” che d’altro canto ha il suo zenith proprio negli Stati Uniti, proprio negli artisti che tanto piacciono, col “sistema Kanye West” (ma lo adotta ormai chiunque, nel pop) di avere legioni di operai, pardon, di producer che sfornano pezzi di macchina, pardon, di canzone, e poi si assembla tutto pigliando di qua e di là secondo i criteri decisi dal brand, pardon, l’artista, ma a sua volta il brand è molto attento a capire dove va il mercato.
Siamo arrivati a questo.
Anche perché l’artista oggi, per l’illusione di poter mantenere la propria libertà e la propria indipendenza, esercita su di sé lo stesso tipo di pressione e di orientamento “al risultato” che in passato esercitavano le major. Le anticipa sul tempo, pensando così di fregarle, di mantenere la propria libertà; invece sta fregando solo se stesso, e la libertà se la toglie da solo.
Di tutto questo gioco, i producer album ricolmi di featuring/figurine ne sono una sublimazione. Esattamente come i dischi dei rapper e in generale dei cantanti dove ogni brano è fatto da una legione di autori (peraltro, più o meno sempre quelli, guarda caso) sono il trionfo definitivo di un meccanismo che ha a che fare più con – again – la “massimizzazione” automatizzata dei tempi e dei risultati, che con la libera arte. L’arte per un rapper e un producer, e in generale per chi sta nel mainstream, è ormai più avere la possibilità di andare a stare a nota spese di una major o di un brand in qualche posto bello/esotico e di fare la bella vita, documentabile magari su Instagram così magari si tiene su contemporaneamente l’engagement: è più insomma una “arte di vivere”, funzionale in qualche caso ai numeri sui social, che una “arte per l’arte”.
Non c’è nulla di male. Sono scelte. Le può criticare sbraitando solo ed esclusivamente chi non ha mai avuto modo di essere posto di fronte ad esse. La domanda però da fare agli artisti è: ma tutto questo, vi rende più sereni? Vale per Skinny, vale per Thasup o come si chiama adesso, vale per Charlie Charles (che ha avuto reali problemi di ansia e depressione), vale per tutte le stelle del mainstream pop o da club che se la vivono apparentemente alla grande nel 2024. Non vorremmo fare sciacallaggio, ma per stare alla strettissima attualità la morte atroce di Liam Payne che poco prima di perdere la vita dopo essere andato giù di testa spaccando tutto nella propria camera d’albergo aveva postato un video in cui diceva tutto garrulo “Ehi, oggi magnifica giornata” racconta purtroppo molte cose, ed è un monito pesante. Arriva dopo Avicii, arriva dopo altri casi magari per fortuna senza esiti tragici, meno male, ma in realtà non troppo diversi, solo tenuti pietosamente e pelosamente sotto silenzio.
Di sicuro, tornando a Skinny, dieci anni fa ci pareva facesse dischi molto più liberi, molto più irregolari, molto più affascinanti, e questo senza per forza avere il who’s who della scena nella lista dei featuring. Qui le prove:
Questo disco, “Zero Kills”, anno 2014, dimostra euclidianamente che lui ha tutti i crismi per essere uno dei migliori e più sofisticati producer italiani mai apparsi nelle trame della musica urban in Italia, punto. E di questo probabilmente – e giustamente – è convinto anche lui. E allora, proprio per questo: sarebbe il caso col prossimo disco di togliersi di dosso la pigrizia creativa da un lato, così come di togliersi di dosso la necessità di avere la mega batteria di ospiti in super hype dall’altro: tutto questo per vivere più leggeri, operare più leggeri, creare più leggeri, vivere senza libretto d’istruzioni, uscire dal Sistema. Si può fare?
Anche perché, ad un certo punto, pure della dance bresciana – il Sistema fatto musica – non gliene è fregato più un cazzo a nessuno, parlano i fatti. Non glien’è fregato più un cazzo a nessuno se non a certe nicchie di fissati, o in qualche adunata da nostalgici: ma è lì che un artista vuole spendere la sua vecchiaia? È lì che si sente davvero sereno e realizzato, orgoglioso di sé? La pigrizia creativa, quella connaturata all’adeguamento al Sistema, non porta sul medio-lungo periodo a nulla di buono, se sei un artista davvero. C’è chi si adagia, chi si accontenta, chi va in paranoia, chi almeno si rallegra di non essere più povero nel qui&ora; ma sostanzialmente, non porta a nulla di veramente buono.
L’hip hop contemporaneo, al 90%, in Italia e non solo, ci racconta che è meglio essere Sistema. È meglio cioè essere industria piuttosto che arte, se proprio non si riesce ad essere entrambe le cose (o se non ci si accontenta dell’illusione di essere entrambe le cose). E si ci spiega che la pigrizia creativa, se aiuta a fare i numeri, non è un problema.
Siamo proprio sicuri ce la stia raccontando giusta? È fatto bene, suona da dio, macina numeri, è diventato un ascolto trasversale, come la dance commerciale degli anni ’90; ma siamo sicuri ce la stia raccontando giusta?