La trance non è certamente il genere più seguito in assoluto, nel 2016, lo sappiamo bene. È guardato con malcelato snobismo dai seguaci degli altri generi e non sta più troppo simpatico neanche agli addetti ai lavori. Non è nemmeno il più innovativo, se parliamo di suono, anzi. Lo è stato, forse venti, trent’anni fa, prima ancora che gli venisse affibbiata un’etichetta, che gli venisse trovato un nome. Ha conosciuto un periodo di successo mainstream planetario, negli anni in cui ATB, Emmanuel Top e i Motorcycle popolavano i vertici delle classifiche di vendita generaliste, negli anni in cui Jam&Spoon, Darude, i Cosmic Gate e Mauro Picotto comparivano regolarmente a Top of The Pops, negli anni in cui Tiësto iniziava a riempire arene e stadi. Poi quegli anni (purtroppo o per fortuna) sono finiti, quel sound ha smesso di essere popolare e, come tante altre correnti a cui è toccato un simile destino, ha continuato ad autoalimentarsi in nicchie più o meno vaste di sottogeneri, finendo per essere dichiarato morto ogniqualvolta se ne sentisse il bisogno di sottolinearlo. Salvo poi, altrettanto ciclicamente, paventarne un clamoroso ritorno in pompa magna, accompagnato da proclami e titoloni puntualmente smentiti dal corso dei fatti. L’ultimo in ordine cronologico appare in questo editoriale pubblicato una manciata di giorni fa da Pulseradio.net, una di quelle testate che un minimo di credibilità nell’ambiente se la sono guadagnata. Riassumendo e parafrasando, l’autore afferma che la trance sarebbe prossima ad un grande ritorno sulle scene, “grazie ad alcuni coraggiosi artisti techno” (sic!) che di recente ne hanno riscoperto le qualità. Il che suona un po’ come se andassi da un fan di Richie Hawtin a dirgli “oh, ho scoperto un genere nuovissimo e fighissimo, si chiama Minimal”. Nell’articolo, Chandler Shortlidge fa riferimento a Nina Kraviz, nota estimatrice della classic trance, a Sven Väth, ai Bicep, a Solomun e ai Tale of Us, tutti meritevoli, secondo lui, di aver costruito i rispettivi sound su impalcature melodiche e sonore di palese derivazione trance, a tal punto da candidarli al ruolo di salvatori di un genere a cui nemmeno appartengono. Lo vuoi sapere un segreto, Chandler? Nessuno qui sta cercando di riportare in auge la trance. Piuttosto, la stanno depredando. Di suoni, di strutture, di melodie. È sempre stato fatto, a partire dall’italodance fino all’EDM più becera dei giorni nostri. E ci sta bene, per carità, anche noi succhiamo linfa vitale dai crossover, viva la contaminazione se è ciò che spinge avanti la musica. Però da qui a dire che Nina Kraviz sta salvando la trance da se stessa il passo ci sembra un po’ troppo lungo. La trance non è cool, non lo è mai stata nemmeno quando andava di moda. Quindi grazie del pensiero, ma forse non abbiamo bisogno di andare in cerca di approvazione e di legittimazione artistica da parte di qualcuno che cool lo è, specialmente con due decadi di ritardo. Apparire a tutti i costi “quelli fighi” non è nella nostra natura, lo lasciamo volentieri ai Realh Clebbers. Che la trance di oggi non sia particolarmente fresca, in quanto ad idee, è un dato di fatto che neanche i trancer più duri e puri si sognerebbero di negare. Armin van Buuren è rimasto l’unico ad avere un briciolo di visibilità anche nel mainstream, al di fuori dei confini del genere, e da troppi anni brancoliamo nel buio seguendo le tendenze da lui dettate con l’A State of Trance, tendenze dal respiro di sei mesi, massimo un anno, su cui si adagiano sia artisti che ascoltatori. Prima le deviazioni verso l’electro, poi largo all’uplifting per correggere il tiro ed improvvisamente nessuno era più “afraid of 138”. Poi ancora la psy, infine quest’anno, nel caso non ve ne siate accorti, l’ultimo grido è la classic trance: quindi veloci, tutti a fare la fila per accaparrarsi un Juno106 e poi di corsa a remixare Universal Nation e Grece 2000 prima che sia troppo tardi! Questi specchietti per le allodole distraggono sia il trancer pigro sia l’ascoltatore generico da quella trance che, francamente, non ha bisogno di nessun comeback. Si, perché nonostante i tentativi di van Buuren and friends di rimanere aggrappati al carrozzone del mainstream, vendendo buona parte dell’anima al pop EDM, esiste ancora, anche nella trance, un floridissimo sottobosco di stili e sottogeneri assolutamente rispettabili sul piano artistico, che forse, proprio a causa di questa percezione distorta del genere nel suo complesso, non godono dell’attenzione che meriterebbero. Ad esempio, Chandler, se anziché farneticare su un ritorno della classic trance per mano di Sven Vath o dei Tale of Us avessi speso quell’oretta ad ascoltare l’ultimo album di Solid Stone o di Gai Barone, o ancora un Jerome Isma-Ae, un BT o un John ’00’ Fleming qualunque, forse avresti scoperto che la trance del 2016 non è solo Armin van Buuren e roba cheesy fatta con lo stampino. Assumiamoci ognuno le proprie responsabilità. Noi, fan della trance, in primis: siamo noi che per primi abbiamo il dovere di valorizzare i prodotti più meritevoli. Dobbiamo essere curiosi, ipercritici se necessario, ma dobbiamo saper riconoscere l’oro vero dal resto dei luccichii e per farlo non possiamo fermarci alla superficie. I producer e gli artisti non devono accontentarsi. Non devono adagiarsi sulla corrente del momento, devono far sentire l’anima in tutti dischi che fanno, e un’anima non può, non deve suonare come un preset del Sylenth1 o del VirusTI. E anche quei media che con articoli come quello ci trattano ancora come un genere di serie B, anche loro forse un esamino di coscienza è il caso che se lo facciano.
Quindi grazie Sven, ogni volta che ti ascolto dal vivo rimango sempre incantato. Grazie Bicep, grazie Tale of Us, grazie Nick Höppner, grazie Âme, grazie Maceo Plex, grazie Stephan Bodzin. Grazie Eric Prydz, grazie Sasha, grazie John Digweed, grazie Martin Roth e a tutta la Parquet Recordings. Grazie pure a Ten Walls, giusto per non fare discriminazioni. Grazie a chiunque, di tanto in tanto, passi pennellate di melodia e tappeti di synth sui suoi groove tech. Grazie Nina, continua pure a suonare “Cafe del Mar” e “1998” quando ti va, a noi fa solo piacere. Grazie, ma non è per questo che la trance vivrà ancora.
Jacopo Rossi
Diplomato al liceo classico e al Sae Instutute Milano, attualmente studente di Economia, ascolto musica elettronica più o meno da quando ho iniziato a camminare, e quando ho tempo provo anche a produrla. Nutro una curiosità viscerale nei confronti della club culture e di tutto quello che ci ruota intorno. Scrivere mi aiuta a mettere ordine tra i pensieri.
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