A partire da stasera, inizierà a dispiegare il massimo della potenza quell’immenso, feroce buco nero che è Sanremo. Un fenomeno astrofisico che tutto attrae e tutto risucchia, un Grande Nulla potentissimo in grado di condizionare le nostre vite, i nostri ritmi, i nostri post sui social network, le nostre chiacchiere, le nostre opinioni. Vale per tutti: anche per quelli che Sanremo lo schifano, e che questa cosa dello schifarlo la urlano ai quattro venti (…se veramente lo disprezzassero e lo volessero depotenziare, dovrebbero non parlarne e basta: epperò quasi nessuno lo fa, troppo sexy e attraente è la possibilità usare il festivalone per farsi notare – foss’anche per parlarne male, malissimo).
Da queste parti, non abbiamo nulla contro questo hype attorno a Sanremo. È un gioco di società per molti (anche per noi). È un modo per fare il punto sull’industria musicale italiana, per gli addetti al settore. È un modo per divertirsi parlando di cose frivole, dato che non di sola intelligenza e serietà si può vivere. È un modo per ricordare che la musica può essere importante nella vita delle persone (sì, anche quella brutta). Insomma: ha un suo perché. E da quando nell’ultimo decennio è stato piano piano traghettato fuori dal limaccioso destino del diventare un cimitero degli elefanti, per darsi una spolverata di modernità ed attualità, questo “perché” è ulteriormente accresciuto. Sanremo oggi è un convincente indicatore su quali sono le grandi tendenze del pop “adulto” di casa nostra, ora che finalmente ha ridato voce a quello che ascoltano i ventenni ed i trentenni, non solo i cinquantenni e i plurisessantenni. Bastava poco, in fondo.
Sanremo non è una merda inutile e dannosa – ha varie funzioni sia sociali che economiche, ha anche una notevole dignità professionale nei vari professionisti coinvolti – ma non è nemmeno quell’apice della creatività che provano a venderci, per indorare la pillola e venderla così ancora meglio agli inserzionisti
Come ogni contesto ferocemente mainstream, però, Sanremo è anche una grande pialla. Anzi: è soprattutto una grande pialla. Come già abbiamo avuto modo di dire, ad esempio, l’hip hop che entra dentro Sanremo – e ci è entrato eccome, così come ci entra pure quest’anno – non è in alcun modo una vittoria dell’hip hop, contrariamente a quello che dice qualcuno troppo entusiasta, ma è solo l’ennesima colonizzazione culturale operata dal mainstream. I rapper che arrivano a Sanremo sono ammorbiditi, ammaestrati, addestrati, educati, rabboniti, melodicizzati, roccohuntizzati e lazzificati. Di buono c’è che portano delle vibrazioni nuove rispetto al pop nazionalpopolare stantìo degli anni ’80 e ’90, così come è anche molto buono il lavoro di rinnovamento negli arrangiamenti e nei suoni operato da Dardust (uno che è bravo davvero) e da alcuni suoi colleghi più giovani ma altrettanto svegli; l’idea però che Sanremo possa essere una foto fedele e un porto d’approdo per la creatività in musica più libera è, come minimo, ingenua. Fateci caso: se Sanremo fosse veramente libero, non ci sarebbe la corsa dei management e delle case discografiche ad accapparrarsi sempre lo stesso team di autori (il già citato Dardust, Petrella, la brava Abbate…), cosa che peraltro non avviene mica solo in questi anni, eh no, è da sempre nel DNA del festival, solo che facciamo finta di non ricordarcelo, per rinfocolare la polemica del momento e farci notare.
Sanremo è una grande pialla. Sì. Dobbiamo stare attenti a non dimenticarcelo. E a prenderlo quindi per quello che vale: non è una merda inutile e dannosa – ha varie funzioni sia sociali che economiche, ha anche una notevole dignità professionale nei vari professionisti coinvolti – ma non è nemmeno quell’apice della creatività della stagione musicale nazionale che provano a venderci, per indorare la pillola e venderla così ancora meglio agli inserzionisti.
E allora, prima che noi tutti si venga risucchiati a guardare Sanremo, o a non guardarlo ed urlarlo ai quattro venti per farsi notare, al guardarlo e commentarlo divertiti, al non guardarlo e commentarlo lo stesso, vi proponiamo un piccolo siero che vi faccia da anticorpo, da antidoto: un siero composto da due album, e un’operazione buffa. I due album somministrateveli a piacere, se volete anche uno dietro l’altro, o pure a piccole dosi. Funzionano comunque.
Il primo è uscito pochissimi giorni fa, ed è una clamorosa rasoiata che Asian Fake ha lanciato nel mondo dell’hip hop e della musica urban italiana: “teamcro tape” è infatti un gioiello incredibile ed inaspettato, un bookmark obbligatorio nelle vostre liste d’ascolto, perché si prendono gli stilemi del rap e in parte della trap e li si portano finalmente – ripetiamo: finalmente! – su un terreno più scosceso, più originale, più sarcastico e corrosivo, più musicalmente tagliente e imprevedibile di quanto lo si stia facendo da molti anni a questa parte. Quello di Deriansky, Deepho, 9DEN e Michael Mills (con un piccolo ma prezioso aiuto in una traccia dei sempre succosi 72-Hour Post Fight) non è il rap che sentirete a Sanremo, non è nemmeno quello che sentite alla radio, e non è nemmeno quello che oggi vedete fare i numeri: troppo di nicchia, troppo desideroso di scompaginare la routine sonora, troppo morboso, troppo autoironico, troppo menefreghista del poter piacere. Però è un rap dannatamente creativo, ecco, di cui accidenti se nel 2025 e per gli anni futuri c’è bisogno. Ascoltate voi stessi:
L’altro disco che vi consigliamo come antidoto pre-festivalone è l’album d’esordio di Giulia Impache, che già era entrata nei nostri radar e non c’eravamo andati cauti, qualcuno pensava esagerassimo, ma intanto poi il suo esordio sulla lunga durata è diventato disco del mese pure per un giornale come Rumore (che fa ancora un lavoro d’informazione, racconto ed analisi eccellente: scusate insomma se esce ancora). A Sanremo sentiremo tanto, tantissimo pop fatto bene, orchestrale, amoroso, benevolente, ammiccante, emotivamente ricattante; quello di Giulia Impache in “IN:titolo” è invece accidentato, complicato, sorprendente, disorientante, intimo.
…soprattutto, è un pop bellissimo. Che se proprio deve fare delle citazioni “ovvie”, le fa ai Beatles – vedi la traccia “Life Is Short” – invece che farle a Battisti e/o ai primi anni ’80 come fa la stragrande maggioranza dell’indie italiano che ha scoperto quanto è bello fatturare a palate (…effettivamente sì, farlo è bello: lo capiamo). Per il resto si concede strade complesse, richiami al jazz e al mondo dell’improvvisazione colta, viaggi nella destrutturazione e all’attenzione timbrica. Tutto molto bello, non fatevelo sfuggire – o vi meritate Achille Lauro (…nulla contro di lui, ma spaccia per nuovo ed iconoclasta quello che faceva Renato Zero – meglio – trenta, quaranta anni fa). Tra lui e la Impache, fatevi un favore, sostenete ed ascoltate la Impache.
In chiusura, un’ultima curiosità: il Saremo AI Music Festival, che sa da un lato scimmiotta Sanremo – lo si capisce già dal nome – e mette in campo quella sigla “AI” che sta diventando perfino fastidiosa per quanto viene tirata in mezzo, dall’altro fa un’operazione davvero interessante. Nasce tutto da una società bolognese, la Loop, specializzata in installazioni multimediali interattive, che si è divertita a creare un “Sanremo parallelo” con interpreti costruiti interamente dall’intelligenza artificiale (eh sì, anche il Catalpa che avete visto nell’immagina di anteprima di questo articolo, condiviso su Facebook: credibile e fascinosa faccia da cazzo, vero?). L’ascolto della playlist che già hanno caricato coi brani in gara è straniante, non potrete che convenirne: assomiglia tanto a un risultato “vero”, ossia con artisti “veri” e teleguidati dai verissimi consigli e suggerimenti (ed appetiti…) dei loro management e delle loro etichette. Fino a quando il mondo reale non si dà una mossa e si accontenta di essere replicabile da una AI qualunque, non possiamo e non dobbiamo stare tranquilli. O no?