Pochi altri progetti più di Zion Train hanno saputo lasciare un segno indelebile nella storia del reggae e, soprattutto, del dub per quella peculiare capacità di dare nuova linfa vitale alle radici, giamaicane e analogiche, di quel suono attraverso innesti world e contaminazioni elettroniche declinate in una pletora di collaborazioni artistiche in ogni angolo del mondo.
Il gruppo dub britannico si forma nel 1988 ad Oxford grazie a Neil Perch, Ben Hamilton e Ajax Scott. Al nucleo originale, dopo che il gruppo si è trasferito a Londra, si aggiungono Colin Cod, Dave Tench e la cantante Molara. I primi singoli incisi agli inizi degli anni 90 (“Power One” e “Power Two”) diventano subito successi nelle classifiche del dub inglese, mentre la scena elettronica europea li conosce prima con lo storico singolo “Follow Like Wolves” (il primo a unire strutture dub e sonorità acid house) e poi con “A Passage To Indica” (per molti artisti una delle principali influenze per la genesi della minimal techno). Dal 2001 è Neil Perch a prendere le redini del nome, assemblando formazioni e collettivi differenti a seconda dei progetti. Il potenziale innovativo di Zion Train emerge anche sulla lunga distanza degli album, soprattutto quelli pubblicati sulla propria etichetta Universal Egg. Tra questi, un posto speciale spetta a “Live As One” che vale loro il Jamaican Reggae Grammy nel 2007 come Best Dub Recording. “Versions” è l’ultima produzione firmata Zion Train. È uscita a settembre scorso e consiste in una raccolta di remix per le tracce degli ultimi album (“State Of Mind” e “Land Of The Blind”) firmati da artisti provenienti da ogni latitudine del mondo, dal Canada alla Grecia, dal Messico all’Italia. Radikal Guru, Fleck, Insintesi, Numa Crew, Vibronics sono solo alcuni di nomi coinvolti nell’operazione.
Questa uscita e l’imminente data (sabato 12 novembre al Deposito Pontecorvo di Pisa, organizzato da Working Class) sono state l’occasione per una intervista con Neil Perch che possiamo leggere ascoltando il mix esclusivo registrato per Mixology.
Ci racconti il tuo primo approccio con il dub e con la musica in generale?
È cominciato tutto con la mia passione per i sound system, coltivata sin da quando ero ragazzino, a partire dal 1985. Amavo andare ad ascoltar Jah Shaka suonare sul proprio impianto. Ovviamente ai tempi non avrei mai immaginato che la musica sarebbe diventato il mio lavoro, che l’avrei prodotta e suonata, ma avevo già chiaro che stava giocando un ruolo fondamentale nella mia vita. Sentivo il suo potere su di me e volevo fare parte di quella cosa, in qualche modo, come musicista o come giornalista. Le vibrazioni che sentivo lì hanno cambiato radicalmente la direzione che ha preso la mia vita.
Cosa rappresenta il dub per te?
Per me l’interpretazioni fondamentale del termine “dub” è quella che rimanda al contesto classico della nascita: reggae strumentale nel qual l’ingegnere del suono al mixer diventa parte integrante della composizione musicale. Credo di essere abbastanza integralista su questa visione. Per esempio credo che molta della musica che oggi è influenzata dal dub non sia dub e che questo termine sia usato spesso in maniera impropria, semplicemente come operazione di marketing che ne svuota il significato. La scorsa settimana, a Napoli, mi è capitato di ospitare sul mio sound un fantastico progetto musicale che si chiama Voodoo Tapes. Amo il suo suono, sono stato orgoglioso di suonarci insieme ma chiamo elettronica downtempo quello che fa e non dub. La stessa cosa potrei dire pensando al movimento nato in Germania con etichette come Rhythm & Sound e Basic Channel: adoro quel suono e quella ricerca che mi ha tanto influenzato ma per me è elettronica. Nell’accezione di dub che intendo come propria c’è un contesto culturale connesso alle radici dal quale non si può prescindere. Ovviamente questo non vuol dire che lo possano fare solo i neri giamaicani ma che debba essere riferito al reggae e che debba avere una cornice di senso politica e sociale, riferita alla lotta di gente povera su scala globale. Credo che la musica a 140 BPM, con le frequenze basse accentuate, che arriva da Berlino è diversa da quella che arriva dall’Inghilterra o da Roma ma non è dub. Questo non vuol dire che io non la ami, anzi ascolto molta musica che arriva da questa scena internazionale ma bisogna smetterla di considerare ‘dub’ un termine di moda che si può applicare a qualsiasi ambito musicale influenzato dalla radice di quel suono. Il bacino di influenza del dub è enorme, va dall’elettronica all’hip hop, dalla drum’n’bass al dubstep, ma il suo contesto di definizione è molto più ristretto, nella mia visione. Sui sound system originariamente pensati per il dub capita sempre più spesso di sentire nuove forme di “step” elettronico. Non ne faccio una questione di gusto, dato che amo anche tanta musica techno, ma per me sono cose associabili più a generi come gabba e happy hardcore.
Quali sono state le tue influenze principali?
Come produttore sono stato enormemente influenzato da King Tubby, Adrian Sherwood e Mad Professor ma anche da artisti come John Coltrane, Sun Ra, Jimi Hendrix, Ravi Shankar, Nusrat Fateh Ali Khan, Ali Farka Tour. Poi ci sono altri produttori che mi hanno influenzato maggiormente per il loro approccio alla musica o per il modo nel quale si esprimono attraverso la loro arte. Tra questi certamente vorrei nominare Bill Laswell e Brain Damage, per esempio, che continuano a fare quello in cui credono infischiandosene del fatto che i fan per primi e poi le case di distribuzione e i giornalisti non riescono a mettere la loro musica in una casella. Credo che la musica sia una forma d’espressione assolutamente personale mentre tanti giovani produttori cercano di suonare come qualcun altro. Tutti siamo stati influenzati da altri musicisti ma voler suonare come un altro produttore è un’occasione persa per cercare il tuo vero suono.
Come è nato il progetto Zion Train?
Come tanti altri progetti in questo contesto. Siamo nati nel 1988 come un sound system che costruiva le proprie casse per suonare in party e convention, usando principalmente dei dubplate, brani esclusivi prodotti appositamente per noi. Ovviament non si trattava di dubplate come quelli di moda oggi che per me sono associabili alla prostituzione. Non chiedevamo ai cantanti di inneggiare al nostro sound o di dire che noi eravamo i migliori. Semplicemente realizzavamo brani esclusivi con artisti come Cornell Campbell o Wailing Soul e finanziavamo i master e gli acetati che suonavamo sui piatti dell’impianto. In una seconda fase abbiamo cominciato a produrre da soli i nostri pezzi esclusivi che, a partire dal 1989, abbiamo cominciato a fare uscire su cassette. Nel 1991 è uscito il nostro primo vinile e poi le cose sono cambiate davvero quando siamo riusciti ad acquistare le attrezzature delle quali avevamo bisogno per realizzare musica e sperimentare tutto il tempo necessario. In quella fase l’aiuto degli amici e collaboratori è stato fondamentale.
Quale è stato il criterio con cui avete scelto gli artisti per i remix contenuti in “Versions”?
Abbiamo scelto principalmente amici dei quali amiamo la musica e il processo creativo senza badare al fatto che fossero artisti nuovi sulla scena come The Natural Dub Cluster o nomi noti del panorama internazionale come Dub Fx. Un altro requisito fondamentale è stato quello di scegliere musicisti e produttori che amassero il suono di Zion Train, dato che interpreto il remix come una forma di scambio culturale e artistico che deve implicare reciprocità. Non meno importante, per decidere chi chiamare a lavorare con noi, è stato il fatto di scegliere artisti accomunati da una visione politica che cerca di ridurre al minimo l’impatto commerciale dell’industria musicale oggi. Tra tutti colore che ci hanno remixati c’è in comune una genuina passione per la manipolazione del suono e per la qualità del suono in sé.
Ci sono molti artisti italiani in questa raccolta e, d’altra parte, tu hai già lavorato con Almamegretta, Ital Noiz e 99posse. Si tratta di semplici coincidenze o hai qualcosa di particolare che ti lega al nostro paese?
Amo venir tutte le volte che posso in Italia ma, in generale, amo girare il mondo. Il vostro paese ha tante cose adorabili, a cominciare da una fervida scena dub che continua ad accrescere il proprio impatto internazionale. Mi piace pensare di aver contribuito a questa crescita e di poterlo continuare a fare. Non riesco a separare il mio amore per tanti progetti musicali da quello per la vostra cultura, il vostro cibo e il livello di coinvolgimento politico che vedo nel vostro paese. Certo, so che esiste ancora Casa Pound ed altre derivazioni del fascismo idiota ma mi rendo conto che altrove è completamente assente il pur minimo attivismo politico e realtà come il Leoncavallo non potranno mai nascere. Collaborare con artisti italiani, per me, è la cosa più naturale del mondo.
Quali sono i piani futuri per la tua etichetta Universal Egg?
Difficile fare piani per una label nella situazione in cui versa l’industria discografica. Tutto sta cambiando drasticamente. Il progetto della mia etichetta è partito dalla precisa volontà di realizzare album e singoli su supporti fisici, anche se abbiamo abbracciato anche il digitale. Ma oggi il costo dell’informazione è drammaticamente vicino allo zero per cui i giornali vanno a scomparire; la musica si ascolta gratuitamente su Spotify o Soundcloud e tra poco sarà qualcosa di ancora più difficile da vendere. Il problema vero è che per quei servizi di streaming gli artisti non ricevono nulla, ad incassare sono solo le piattaforme. Ovviamente vorrei continuare a realizzare fisicamente la mia musica ma mi ritrovo a passare or e ore di lavoro che nessuno mi pagherà mai per promuovere le produzioni della mia etichetta senza ricavarne nulla e se non fosse per i concerti sarebbero a zero anche i ricavi per le cose di Zion train. Il fatto di avere una famiglia da mantenere mi rende davvero difficile proseguire per questa strada, continuare a far lavori che nessuno paga. Proverò a continuare la ricerca e la produzione di musica innovativa e buona, che cambia il panorama attuale ma il destino dell’etichetta dipenderà dalle evoluzioni del mercato.
Cosa hai in agenda per i prossimi mesi?
Sono sempre al lavoro su più cose contemporaneamente. In questo momento sto facendo vari remix proprio per artisti italiani. Shanti Powa sono una giovane band di Bolzano che combina elementi reggae con influenze world per la quale sto curando nuove versioni di alcun tracce dal loro ultimo album. Con i veterani romani Neurologici sono al lavoro sul remix di un brano di prossima pubblicazione. Ho prodotto dei riddim, recentemente, secondo il classico modello giamaicano sui quali sto facendo cantare artisti come Miss Wadada e Prince David.