Sì, lo sappiamo (e se voi ancora non lo sapete, beh, dovreste saperlo): il rap in Italia non è nato nei centri sociali, non è nato nei cortei studenteschi, non è nato nella sinistra-sinistra. Zero. La radice della cultura hip hop, quella mondiale ma anche quella italiana, è semplicemente diversa. E va cercata in chi si è innamorato prima di tutto dell’arte, dello stile, di un certo modo di esprimersi – e se il messaggio c’è, non è un messaggio direttamente e forzatamente riconducibile ad una determinata visione sociopolitica. In Italia sono stati tanti, tantissimi i danni fatti da chi ha voluto subito ingabbiare – per deficit di capacità di lettura di un fenomeno “nuovo” – il rap in italiano secondo schemi vecchi, abbagliato dal fatto che la circolazione primigenia a livello di percepito della classe giornalistica professionista (quella che all’epoca teneva in mano i media, internet non c’era ancora) era quello dei cortei e, appunto, dei centri sociali… in generale della sinistra, insomma, tant’è che poi il rap italiano finiva su “Avanzi”, finiva su Rai Tre, quella che all’epoca era chiamata Tele Kabul (…ricordate?) per quanto era schierata da una parte – anche se non è che la Rai Uno democristiana e la Rai Due socialista fossero meno schierate, anzi.
E’ che c’era stato un allineamento dei pianeti: l’esplosione a livello mondiale della popolarità degli strepitosi Public Enemy, la convinzione che i Public Enemy stessi potessero riassumere tutto il rap (…e il fatto manco di capirli, i PE: sottovalutando il lato cazzaro e spettacolarizzante della figura di Flav e della SW1). Poi c’erano i film di Spike Lee, quelli di Mario Van Peebles, insomma, sul rap si “spalmava” una inevitabilità del côté politico che, nella realtà dei fatti, non era e non è mai appartenuta al genere come DNA. Il punto in quegli anni è che spesso impegno&stile sono andati a braccetto in maniera potentissima, nel rap americano e in generale nelle forme più avanzate della cultura urban a trecentosessanta gradi, vedi appunto anche il cinema (anche se oggi “urban” pare non si possa più dire: mah, qui è riassunta bene la questione). Risultato? Anche ciò che non era strettamente “politico” passava invece come tale: troppo forte, incisiva, affascinante l’estetica. Colpiva chiunque. Chiunque avesse un minimo di sensibilità.
Un’illusione ottica. Un’illusione poi franata – la realtà non fa sconti, sul lungo periodo – quando si è capito che il fenomeno italiano delle “posse” era più un’emulazione spuria e posticcia (o, in alternativa, un inautentico costrutto giornalistico di chi era troppo abituato a De André e Battiato) che altro. Di quel periodo sono rimaste in piedi pochissime cose di effettiva rilevanza. La 99 Posse, grazie ad una bella evoluzione stilistica; i Sud Sound System, perché eccezionali per comunicatività; e gli Assalti Frontali. I quali Assalti sono nient’altro che il frutto della scintilla originaria: Onda Rossa Posse. Scintilla appunto non del rap o dell’hip hop in senso assoluto, ma dell’urgenza e dell’importanza di trapiantare la forza del codice espressivo rap e hip hop in Italia per davvero, quindi nella “realtà”, in modo sentito e vissuto, non solo come emulazione macchiettistica – ovvero alla Jovanotti su Deejay TV (…che è sempre stato una porcata dal punto di vista concettuale, ma almeno ha avuto il merito di introdurre nel mainstream certi suoni e nomi).
E’ vero: Militant A, Castro X e l’Onda Rosse Posse tutta non erano strettamente hip hop, non erano pionieri della cultura e non ne erano nemmeno interpreti puri; anzi, per certi versi la “usavano” per i loro scopi la cultura, per veicolare meglio le loro rivendicazioni e battaglie politiche. Verissimo. Ma i primi a trasformare hip hop e rap in qualcosa con un “senso” in Italia, e non in ricopiatura formale (col rap in inglese, le mosse prese dai film americani), sono stati loro, è stato l’EP “Batti il tuo tempo”. Ovvero la prima release in assoluto col rap usato in italiano e non inglese, release di cui oggi – 15 giugno 2020 – si festeggia il trentennale. Sulla pagina Facebook di Assalti Frontali, Militant A ha scritto un testo molto bello e lucido (come sempre accade con lui), che vi consigliamo di leggere con attenzione:
“Dopo è stato diverso”. Verissimo. A Roma. Ma anche in tutta Italia. E’ stato diverso quando poi sono uscite le cose di Isola Posse All Stars (esperienza fenomenale, che ha figliato i Sangue Misto ma non solo), quando in Italia improvvisamente il rap e le jam (ovvero quei raduni in cui ci si trovava per fare rap, turntablism, ballare la break, dipingere sui muri in stile aerosol art) hanno iniziato a moltiplicarsi. Chi aveva vent’anni allora o poco più, non può ricordarsi il senso di novità, di energia, di fascino per qualcosa di nuovo, inedito, fortissimo. Poi c’era chi pencolava verso il messaggio di segno politico (aka di sinistra), chi invece era più affascinato dalla forza stilistica di tutto ciò che è hip hop; c’era chi riusciva e voleva tenere assieme entrambe; chi ha cambiato idea, prima una poi l’altra; ma era potente, era squassante, era liberatorio. Era finalmente un cazzo di maniera espressiva nuova, che potevi (anche) usare per rivendicare la tua visione del mondo – e la tua voglia di migliorarlo.
(Un pezzo di storia, anzi, per certi versi “il” pezzo di storia; continua sotto)
Trent’anni dopo cosa è rimasto? Tutto, e un cazzo.
Tutto: perché il rap ora è un genere egemone negli ascolti giovanili, la sua forza, la sua immediatezza e la sua sfrontatezza hanno veramente cambiato le regole del gioco, a tal punto che ora può parlare da pari a pari col pop mainstream (…e può anche arrivare a farsene assorbire, senza troppi scompensi: non è detto che sia un bene, non è detto che sia un male). Questa è una gran fortuna. Perché se fossimo ancora fermi ai cantautori, a Guccini (che qualche giorno fa compiva ottant’anni: auguri), a De André (prima che inizino a picconare anche lui, per la sua misoginia?), a Vasco, al Liga, a Pezzali (ancora attuale, ma per riciclo hipster), ci sarebbe da preoccuparsi. Anche chi arriva da un ceppo completamente diverso, quello indie-pop-rock, oggi per essere rilevante deve mettere nella sua scrittura elementi stilistici mutuati dalla forma hip hop (descrizioni dirette, osservazioni puntuali della realtà, emotività schietta e non mediata), rinnovando così il linguaggio, evitando che si resti ancora infognati con la musica a largo consumo italiana agli anni ’60, ’70, ’80. Bisognerebbe essere grati al rap e all’hip hop dalle nostre parti anche solo per questo. E’ un pregio decisivo.
Ma anche un cazzo: perché quella spinta per cui la musica può cambiare un mondo, può migliorarlo, si è completamente persa. Il rap in Italia col passare degli anni pare aver completamente abbandonato l’afflato utopico, innovatore e palingenetico per accontentarsi invece di descrivere la realtà (chi con mugugni, chi con intelligentissimo sarcasmo, chi con carismatico stile) o la personale introspezione (dall’ultimo Marracash “bergmaniano” ai sempreverdi Colle, passando al versante più emo e benzosciropposo della trap della nuova generazione). Ha abbandonato anche una narrazione che possa essere “collettiva”: non ci si sente più “posse”, non ci si sente troppo “scena”, ci si sente poco “comunità” (al massimo si fa comunella, fra gli artisti; ma quella è un’altra cosa).
Di sicuro però il rap ha portato a casa nostra la filosofia – molto americana – del si-può-fare, ora come allora. Lo ha fatto allora, quando Onda Rosse Posse dal nulla si inventava qualcosa che ha squassato prima la propria comunità e poi una platea molto più vasta; lo fa ora, che nelle major regna finalmente il ricambio generazionale, l’attenzione alla contemporaneità, l’idea che i fatturati li puoi fare anche mettendo sotto contratti talenti nuovi, non solo facendo l’ennesimo “Best Of” o “Live” di Vasco, Liga, Biagio, Frank Sinatra.
Lunga vita al rap e all’hip hop, insomma. Anche quando non ci piace. Anche quando non capiamo. Anche quando non lo condividiamo in tutto. Anche quando ci sembra (ed è!) il più facile terreno d’espressione per tizi mezzi rincoglioniti che pensano solo a come diventar famosi e dragare like&views sui social e soldi dai brand, ‘ste merde.
Perché la realtà è, ed anche questo rientra nel si-può-fare, che l’hip hop lo puoi plasmare tu, puoi metterci tu i contenuti e i valori che ritieni più importanti. Puoi metterci Run The Jewels, puoi metterci Kendrick, puoi metterci Marra, puoi metterci Gué; puoi metterci le nuove generazioni e i loro alfabeti alieni (e le loro rivendicazioni sociali magari incerte o inesistenti), ma se ti metti di buzzo buono puoi anche metterci generazioni nuovissime – o vecchie ma sempre potenti – che (ri)portano la barra verso quello che c’era negli anni ’90, e che oggi non c’è più. Datevi da fare.