Personaggio non facile, Anders Trentemøller. Uno con cui non puoi parlare troppo di dove sta andando questo o quell’altro trend musicale. Uno che devi saper cogliere sul personale, sul concetto stesso di musica e sul rapporto che essa ha con chi la ascolta. Col terzo album rilasciato da poco, e nel mezzo del relativo tour che presto toccherà Bologna (il 24 Febbraio) e Roma (il 25), viene naturale addentrarsi nel percorso di trasformazione che il produttore danese ha vissuto dagli inizi ad oggi. Ragionare su cosa significa passare in pochi anni da un pezzo come “Miss You” a uno come “The Dream” col feat. dei Low. Capirne le spinte e riflettere sugli effetti, sia in chi quella musica l’ha scritta, sia in chi la vive da ascoltatore. È stata una conversazione a tratti metafisica, che ha provato a toccare l’essenza della musica e dell’arte, come mezzo per condividere emozioni. Cose che non sempre è possibile esprimere a parole, come potete leggere qui. Ma lo sapete, a noi le sfide impossibili piacciono.
Quindi presto sarai in Italia con la band. Ormai la tua dimensione live si è consolidata su questo assetto, non sei più solo un dj. Parlaci di come sono cambiate le cose negli ultimi anni.
Sì, i tour e la band ormai non sono più una novità per me. Saranno cinque o sei anni ormai che ho trovato quest’assetto e mi piace. Nel mio live attuale suono ovviamente tante canzoni del mio ultimo album “Lost”, ma anche pezzi di “The Last Resort” e “Into The Great Wode Yonder”. Sul palco con me c’è sempre Marie Fisker ed è fondamentale per me, soprattutto dopo “Lost”, che ha tantissime tracce con parti vocali. Con lei ormai abbiamo un live collaudato e contiamo di portarlo avanti per un bel po’, soprattutto dopo il buon risultato nel tour dei Depeche Mode. E poi era un po’ che non venivo in Italia.
Qualche tempo fa sei venuto come dj a Roma, all’Alpheus, io ero tra il pubblico e ho apprezzato molto il tuo set. Oggi sei sia un acclamato dj che un live performer d’esperienza. Cosa preferisci fare?
Preferisco suonare live con la mia band. È una cosa più personale perché suono i miei pezzi, mentre da dj ovviamente lavoro più coi pezzi degli altri. Sono entrambe esperienze importanti, ma suonare i propri pezzi è qualcosa di più potente.
Soprattutto ora che hai un album come “Lost”, pieno di pezzi che si prestano molto ad essere suonati dal vivo. Quest’ultimo album è fortemente orientato alla dimensione live, no?
Sì, sicuramente. Anche se non è stato qualcosa che ho voluto intenzionalmente. Quando ho lavorato alle canzoni dell’album la mia priorità era semplicemente fare pezzi con una forte energia. Dopo aver terminato l’album effettivamente è stato evidente che gran parte dei suoi pezzi erano perfettamente spendibili live, e mi è venuto naturale utilizzarne gran parte. Ma proprio perché li sentivo potenti, proprio come li volevo.
Son stati in molti a notare questo cambiamento nella tua discografia, si parla spesso di questa tua nuova dimensione “acustica”. Ma sappiamo che in realtà non è una vera novità, l’impronta rock/dark è sempre stata una componente importante del tuo sound, il tuo “Late Night Tales” parla chiaro. Però è vero, questa componente è diventata man mano sempre più evidente.
Sì, è una cosa in continuo movimento. Anche nell’ultimo album ci sono molti elementi elettronici, ma ovviamente anche tantissime influenze dal krautrock, dal post-rock o dalla dark. Mi rendo conto che, quando questa mia dimensione acustica è venuta fuori, molti di quelli che mi conoscevano per “The Last Resort” son rimasti sorpresi. Eppure è una parte fondamentale del mio carattere. Il mio background è quello, sin da quando ero un teenager. Quel che faccio è semplicemente trovare la giusta forma per la musica che produco, e fortunatamente non mi sento vincolato da un particolare genere, o dal dover suonare in un determinato modo.
Allora la mia curiosità ora riguarda “The Last Resort”: se questa componente è sempre stata importante nel tuo background, com’è che il tuo primo album è venuto fuori così nettamente elettronico?
Quando risento adesso “The Last Resort” mi ci identifico ancora, mi piace notare che già allora usavo molto le chitarre e gli elementi rock. Però è vero, complessivamente quello era un album molto elettronico. La mia sensazione è che col tempo la gente abbia aperto più la mente. A quei tempi sentivo più la spinta di dover suonare in qualche modo techno perché era quel che i giovani ascoltavano, ma ora sento che quegli stessi giovani hanno allargato le vedute. Ora che tutti ascoltano tutto, ora che chiunque può entrare in contatto con un’enorme varietà di generi diversi, sento che il mio pubblico è più disposto ad accettare novità sonore da me. È per questo che col tempo mi sono sentito più libero di esprimere la mia varietà sonora. E questo, ad essere sincero, per me è stata una sorta di liberazione, perché in fondo per un buon periodo mi son sentito quasi intrappolato dalla cornice techno. Non era esattamente quello che volevo. Ora mi sento molto più soddisfatto del mio sound. Ora il mio pubblico sa che Trentemøller non è solo club music, e la cosa mi conforta.
E in effetti “Into The Great Wide Yonder” è stato molto importante per questo cambio di rotta. Devo confessarti che quello resta secondo me il tuo album migliore, e so di essere uno dei pochi a pensarla così. Sarà che la tua musica è sempre stata focalizzata sulle emozioni, e quell’album sembra aver liberato i contenuti emozionali senza vincoli di tipo stilistico. Si sono moltiplicate le chitarre, hai aggiunto diverse collaborazioni vocali… come è venuto fuori quel disco?
Sì, quell’album per me è stato molto importante. Per molti il secondo album è una tappa difficile, quel che ho cercato di fare è tenermi il più lontano possibile dalle pressioni. Magari erano in molti che avrebbero voluto una sorta di “The Last Resort Part 2”, ma non era mia intenzione ripetermi. Erano passati quattro anni, nella mia vita molte cose erano cambiate e ovviamente la musica riflette sempre questi cambiamenti. Quel che ho fatto è stato isolarmi per dodici, quindici mesi, dimenticandomi cosa il pubblico avrebbe voluto. E anche per “Lost” ho fatto lo stesso, mi chiudevo in studio e mi concentravo sulla musica, senza pensare a cosa vorrebbe la gente o a quanto bene sarebbero suonati live i pezzi.
Ripensando ora ai tuoi album, ho come l’impressione che “The Last Resort” sia più legato musicalmente al tempo in cui è nato, mentre gli altri due sono più “fuori dal tempo”.
È esattamente quel che cerco sempre di fare. Musica che non invecchi. Penso che in “Lost” questo sia più evidente, una traccia come “The Dream” secondo me poteva essere fatta anche cinque anni fa, e nello stesso tempo può suonare bene anche tra cinque anni. Poi magari al momento ho una visione molto di parte su quest’album, perché ci son rimasto in studio un sacco di tempo. Vedremo tra due o tre anni.
È proibito chiederti quale sia secondo te il tuo album migliore?
L’ultimo, “Lost”. Ma è sempre così, l’ultimo album è sempre il migliore perché ogni disco cerca sempre di far meglio di quello precedente, e voglio sperare di esserci riuscito. E comunque sento che quest’album ha espresso molti più strati, più componenti di me, rispetto ai suoi predecessori.
È anche l’album in cui hai inserito più collaborazioni.
Già. Eppure all’inizio non era stato pensato così, in origine l’album doveva essere molto più strumentale. Poi, man mano che le tracce venivano fuori, sentivo sempre la necessità di una parte vocale e si formava nella mia testa l’idea della voce che avrei voluto nei vari pezzi. A un certo punto mi è apparso chiaro che quella musica sentiva il bisogno delle voci e mi sono impegnato a offrirgliele. Ma è stato qualcosa di non previsto nel progetto originale.
Quali sono le cose più importanti che deve avere la tua musica? Voglio dire, quali sono le cose che cerchi quando componi musica, quali sono le tue priorità, cos’è che ti rende soddisfatto alla fine dei pezzi che hai prodotto? È qualcosa che riguarda più la tecnica, uno stile riconoscibile, una questione di sensazioni?
Quello che conta più per me è che l’ascoltatore riesca a sentirsi coinvolto dalla mia musica, e non la consideri solo una scatola da analizzare e da classificare. Deve essere qualcosa da vivere in maniera spontanea, allo stesso modo in cui lo vivo io quando sento il bisogno di esprimere qualcosa e corro in studio a sedermi davanti al mio piano. Ed è qualcosa che mi costa un sacco di fatica: certe volte lavoro per mesi a un pezzo e alla fine lo sento troppo costruito, e quindi di nuovo in studio a lavorarci. L’energia spontanea è qualcosa di molto difficile da ottenere.
Ma alla fine è qualcosa che ti ripaga. Quando lavori sull’espressività e riesci a instaurare una sorta di canale emozionale con l’ascoltatore, poi si ha la sensazione di essere coinvolti in prima persona nell’esperienza d’ascolto. Chi ascolta partecipa attivamente proiettando la propria emotività dentro la musica. È il massimo risultato che si possa ottenere, nell’arte in generale.
È la cosa che più amo della musica: quando riesce a offrire degli spazi liberi per le emozioni di chi ascolta. È difficile da spiegare, a volte parlare di musica è un’impresa impossibile. Ma quando la musica è in grado di accendere l’immaginazione e l’ispirazione della gente… beh, è la soddisfazione più grande che un artista possa avere. Solitamente la musica capace di questo non si scopre interamente al primissimo contatto, ma va crescendo lentamente dentro di te, ascolto dopo ascolto.
“È la cosa che più amo della musica: quando riesce a offrire degli spazi liberi per le emozioni di chi ascolta.“
Una capacità che non si trova tutti i giorni, su album.
Mi viene in mente quando mi succedeva da adolescente, coi miei album preferiti. Ricordo “The Velvet Underground & Nico”, ero completamente rapito da quell’aria mistica, da quel suono genuino. È del ’67, ma alle mie orecchie suona ancora fresco. Quello è uno di quegli album che ho sentito più e più volte. Anche i Pink Floyd, i primi Cure, i Joy Division… questa esperienza è fortemente legata al formato album ed è una cosa che forse pian piano si sta perdendo: oggi i ragazzi vanno più per tracce, schiacciano play qua e là, su Spotify o su iTunes, e forse stanno dimenticando il piacere di un album ascoltato dall’inizio alla fine. Forse è un piacere un po’ old-fashioned, non so. Ma è un piacere che non andrebbe mai perso. È come decidere se guardare un film dall’inizio alla fine o saltare direttamente alle scene clou.
Mi fai tornare in mente una mia vecchia passione adolescenziale, Stephen King, che faceva questo stesso discorso a proposito della differenza tra un racconto breve e un romanzo. Diceva che è come paragonare un flirt estivo a un matrimonio.
Ahah, sì, ci ha preso! Per inciso, anche i flirt estivi ci vogliono! Quella sensazione di immediatezza che si ottiene dalle cose brevi è anche importante, non sono un fissato che ascolta solo album. Ma quando inizio ad apprezzare veramente un artista, voglio andarci a fondo e quindi voglio da lui l’esperienza-album.
C’è un’altra cosa per cui sei piuttosto famoso: i remix. Trovo che i tuoi remix siano sempre interessanti, perché non sono mai semplici versioni dance dei pezzi originali, hanno sempre un contributo personale aggiunto. Cosa ti guida di solito quando fai un remix?
È esattamente quel che dicevi tu, non mi piace semplicemente aggiungere un ritmo dance alle canzoni. Cerco sempre di rendere quelle canzoni prima di tutto mie, poi ragiono su cosa ci aggiungerei personalmente. Può essere una traccia vocale, una nuova melodia, delle percussioni particolari, insomma qualcosa che faccia comunque parte del mio universo.
Credo sia proprio il bello dell’arte del remix: essere in grado di cambiare le prospettive, identificare qualcosa nel pezzo originale e dargli uno spazio diverso. Sai, di recente abbiamo stilato una “storia del remix in venti brani” e tra i pezzi selezionati c’è finito il tuo remix sui Röyksopp di “What Else Is There”…
Oh, grazie. Quel remix per me è stato estremamente importante, mi ha aperto la strada verso molti nuovi ascoltatori. Ed è anche uno dei remix di cui sono più orgoglioso, ha ancora la stessa energia che sentivo quando l’ho fatto.
Un’ultima domanda: oggi ti senti un artista elettronico o qualcosa di differente?
Non mi sento un musicista elettronico puro. Oggi sento di essere semplicemente un artista che vuol fare musica di qualità e si sente libero di sposare qualsiasi sound senza vincoli. È anche il motivo per cui ho scelto di creare una mia label, così son sicuro di non ricevere pressioni di alcun tipo su come dovrebbe suonare la mia musica. La libertà espressiva al momento è la mia massima priorità.