“Scritto, arrangiato, prodotto e mixato da Anders Trentemøller.”
Il talento del producer danese, messo nero su bianco nel booklet di “Fixion” (In My Room, 2016), torna a pulsare laddove affondano le sue vere radici. Torna alla composizione tradizionale della musica suonata, quella con cui è cresciuto e quella che ora rappresenta il veicolo perfetto per lasciare che la sua arte si manifesti in tutta la sua matura complessità, senza temere il confronto con il passato. Non si parli di retromania, Trentemøller guarda al futuro, tanto da lavorare al suo prossimo album già da ora, nelle lunghe attese imposte dal tour. Si riappropria della dimensione della live band, quella in cui si muoveva prima di esordire con “The Last Resort” (Poket Flat Recordings, 2006) e quella, in fondo, in cui ha continuato a muoversi per i suoi più memorabili tour.
Trentemøller, insieme con la band, Tom and His Computer, e la cantante Marie Fisker, sarà in Italia per due imperdibili date: il 14 Febbraio allo Spazio 900 di Roma e il 15 Febbraio al Fabrique di Milano.
Noi abbiamo avuto il piacere di scambiarci (ben più di) qualche parola, e di scoprire – tra le tante cose – che a dodici anni sognava di suonare con Simon Le Bon.
Sei pronto per i fan italiani?
Sì, il tour è iniziato alla grande con un sacco di sold out e siamo molto felici. Non vediamo l’ora di essere di nuovo in Italia, sono passati più di due anni dall’ultima volta che ho suonato lì e sono certo che sarà fantastico. Non aspettiamo altro che tornare in Italia, anche per assaggiare il cibo delizioso.
Tornerai prestissimo a Roma, dove Jehnny Beth (Savages) è salita con te sul palco per la prima volta. Pensi che sia successo grazie alla magia di quella città o sarebbe potuto accadere in qualsiasi altro posto?
Sì è vero. Amo molto Roma, ci ho suonato diverse volte e ci sono stato anche in vacanza e certamente c’è un feeling speciale con la città, e questo ha inciso, però con Jehnny ci siamo esibiti anche a Londra e Parigi, merito soprattutto della voglia di suonare insieme. Detto questo, dal pubblico romano riceviamo sempre delle fantastiche vibrazioni, e sentire che c’è questa cosa bellissima tra la band e le persone che ci ascoltano ci aiuta tantissimo mentre siamo sul palco. Roma, come anche tutta l’Italia, è sempre un posto eccezionale in cui suonare.
“Fixion”, il tuo ultimo lavoro, è bellissimo e le persone lo adorano, come adoreranno il tour. Qual è il rapporto tra un album e il suo tour, oggi? Un buon tour è conseguenza di un buon disco, o si tende a fare un buon disco per poterci costruire sopra il più bel tour possibile?
La ragione per cui io faccio dischi sta nella possibilità di scrivere e registrare la mia musica. L’album è la piattaforma che uso per far uscire la mia musica e solo in un secondo momento penso di andare a suonarla in giro. Non faccio un disco per avere la possibilità di andare in tour, ma perché voglio che la mia musica venga fuori e lo farei anche se non dovessi fare concerti, perché quello è l’output più importante per me. Detto questo, suonare davanti alle persone e far loro sentire la mia musica è una cosa fantastica, puoi guardare le persone negli occhi e poi la gente molto spesso reagisce in maniera molto diretta. A Varsavia, qualche giorno fa, c’erano persone che piangevano mentre suonavamo. Anche quando suoni di fronte a centinaia di persone, si crea una connessione così intima che è impossibile ricreare se ti limiti a fare il disco senza suonarlo in giro.
In “Fixion” si sente chiaramente che i Joy Division rientrano nella musica a cui ti sei ispirato. Cosa pensi di quello che è successo a Manchester a partire dalla seconda metà dei ’70, della Factory Records e di quel periodo storico così importante che ancora oggi molti artisti vi si ispirano?
Tutto vero, ed è divertente perché in realtà non stavo pensando così intensamente a loro mentre scrivevo le canzoni, ma posso chiaramente riconoscere quell’ispirazione. The Cure, Joy Division, Siouxie And The Banshees, Echo And The Bunnyman sono artisti che ho ascoltato moltissimo quando ero un ragazzino, sono cresciuto con tutte queste band di cui adoravo il sound e l’estetica, ma per me era molto importante che questo album non suonasse in alcun modo come un disco retro o nostalgico, volevo che fosse un disco di Trentemøller e basta, ma certamente quelle band sono una grande ispirazione. Volevo un sound che fosse solo mio, che non guardasse solo al passato ma anche e soprattutto al futuro quindi la sfida era trovare il giusto compromesso tra ispirazione e originalità. La vera sfida, quando fai musica, è cercare il tuo proprio sound tra le tante cose che possono ispirarti.
Quanto pensi che abbia influito la morte di Ian Curtis sull’aura di fascino che gravita intorno ai Joy Division? Pensi che sia tutto legato esclusivamente al loro talento e al modo in cui parlavano di drammi e fantasmi personali?
Per me la morte di Ian Curtis non ha nulla a che vedere con il loro fascino, ruota tutto intorno allo stato d’animo, alle vibrazioni, all’atmosfera in cui sapevano coinvolgerti con la loro musica, ma devo ammettere che sono più un fan dei The Cure, anche se ho sempre amato i Joy Division. La loro estetica stava nel lato oscuro, melanconico della musica e questo mi ha sempre comunicato molto, perché credo che si possano sviluppare diversi layer interessanti in una musica come quella, molto più che in una musica sempre felice.
Quanto incide la natura malinconica tipicamente scandinava nella tua musica? Sei davvero una persona un po’ cupa e melanconica o si tratta di un’attitudine in voga tra voi nordici?
Se ascolti la musica popolare scandinava, per esempio di cinquecento o mille anni fa, puoi chiaramente sentire quella melanconia e quella leggera tristezza di cui parli, quindi credo che sia una cosa insita nella nostra natura e nel modo in cui siamo abituati a rapportarci con la musica, fin dalle ninnananne nordiche, che sono sempre un po’ tristi. Per noi è naturale fare musica in quel modo, che sia elettronica o classica, basti pensare ai Sigur Rós e a band elettroniche come i Fever Ray, anche loro suonano con quella melanconia anche se fanno musica molto diversa. Detto questo, siamo persone molto felici perché questo discorso riguarda più che altro il fatto di avere un output artistico, che per me è rappresentato dalla musica e che mi permette di liberarmi da ogni tristezza, il che mi aiuta molto, soprattutto perché è così che riesco ad esprimere al meglio i miei sentimenti e il mio stato d’animo. Se dovessi scrivere, per esempio, non sarebbe così facile.
Che musica ascoltavi da piccolo e, nel frattempo, che musica ascoltava la gente “normale”?
Ok (ridendo). Anche io ascoltavo quello che ascoltava la gente! Accendevo la radio e di solito c’era musica pop danese, erano gli anni 70 o i primi anni 80. Ricordo però che la prima canzone che ho sentito completamente diversa da quello che avevo sempre ascoltato in radio fu “Venus In Furs” dei Velvet Underground. Mi ha sconvolto perché era così diversa, aveva questa specie di drone che non si fermava mai ed era ipnotica tanto da spaventarmi, perché non ero ancora consapevole del fatto che la musica potesse suonare in modo così speciale. Quello fu il primo album che comprai, in cassetta, e fu davvero pazzesco per me. Avevo undici anni e non immaginavo nemmeno lontanamente quale fosse il significato di quelle parole, per me c’era solo quel suono.
C’è una band in cui sognavi di entrare da piccolo?
Questa domanda è molto divertente perché quando avevo dodici o tredici anni oltre a essere un fan dei Velvet Underground ero anche un grande ammiratore dei Duran Duran e pensavo che sarebbe stato grandioso suonare in una band come quella. Ora, quando li ascolto, penso che non facciano esattamente la musica che fa per me, ma allora mi sembravano la band più figa del mondo. Quando sei così giovane ascolti tanta musica diversa il che, in effetti, è quello che faccio tuttora. Mi piace ascoltare la musica pop, non deve essere sempre per forza oscuro post punk, ascolto anche musica classica e jazz. Ho sempre ascoltato tanta musica differente.
Sei passato da un approccio elettronico ad uno più tradizionale. Sei più libero di esprimerti ora?
Ho suonato in diverse band prima di cominciare a fare musica elettronica, quindi è un po’ come essere tornato indietro nel tempo, non tanto nel modo di scrivere ma nell’uso degli strumenti tradizionali. Non penso di aver fatto un grande passo. Le mie prime produzioni erano elettroniche ma in realtà è stata una coincidenza: ho messo insieme qualche sample e qualcosa di elettronico e all’improvviso mi sono ritrovato la prima release. Allo stesso modo avrei potuto cominciare suonando in una band, quindi in realtà penso di aver semplicemente sviluppato il mio sound, senza pensare agli stili né ai generi, ma solo alla musica che sento giusta in ogni momento, che può essere elettronica o non elettronica o un ibrido, non mi interessa. L’unica cosa che conta è mettere insieme i suoni, nella speranza che poi suonino come dovrebbero.
Oggi è praticamente impossibile produrre un disco evitando completamente ogni tipo di manipolazione elettronica, mentre in passato non era così. Pensi sia un valore aggiunto o, per alcuni artisti, una scorciatoia?
Secondo me si tratta solo di trarre il meglio dai due mondi. Mi piace registrare alla vecchia maniera alcune delle mie cose, mi piace la sensazione organica che ti da l’analogico, ma mi piace anche il suono digitale e spesso registro alla vecchia maniera per poi mettere tutto nel mio computer. Così faccio tutto più velocemente e ho più possibilità, anche quando registro con la band scelgo il meglio delle due maniere e penso che molti artisti moderni non si limitino solo al digitale o solo all’analogico, ma scelgono entrambi gli approcci. Anche le rock band usano il computer, senza rinunciare alle chitarre tradizionali e ad altri strumenti. Tutto sta nell’utilizzare il metodo che più facilita e velocizza il processo creativo perché è meglio passare più tempo a creare piuttosto che spenderlo nelle cose tecniche. Quando sono in studio dedico la maggior parte del mio tempo alla fase creativa.
Quando invece sei sul palco ti diverti molto, e si vede. Qual è il tuo approccio al tuo show, ogni volta che devi salire sul palco? A cosa pensi e di cosa hai paura?
La cosa più importante quando salgo sul palco è la band, mi impegno a renderla il più possibile parte attiva dello show, trattandosi di un’esibizione live non sempre suoniamo le canzoni del disco così come sono nel disco, molto spesso i pezzi devono essere riadattati alla band ed è questo il bello di suonare insieme. Cambiamo le cose, perché è così che deve essere, e quindi i nostri drammi suonano spesso come: “forse dovremmo mettere questo campione su questo pezzo”, oppure il chitarrista arriva con un nuovo riff o il bassista con un nuovo pad, e così il live di Trentemøller diventa quello di una band. Quando sono in studio a scrivere e a registrare, invece, sono da solo e ho il controllo al 100% quindi è bello che alla fine io riesca a perdere una parte del controllo e a mettere insieme la band. Ovviamente ho la mia visione delle cose, di come debbano suonare la musica e gli strumenti e di quale musica suonare. Io e la band dobbiamo essere una cosa sola perché non è lo show di Trentemøller accompagnato da una band, ma è il live della band.
So che te lo chiedono tutti, e non sarò da meno. Farai ancora dj set?
Non penso, non ora. Forse qualche volta, in futuro, ma per il momento sono concentrato sulla band. Voglio suonare la mia musica, e voglio suonarla dal vivo.
English Version
“Written, arranged, produced and mixed by Anders Trentemøller.”
The booklet of “Fixion” (In My Room, 2016) put pen to paper the danish producer’s talent, that is back to where it sinks its roots. It is back to the traditional composition of live played music, the one he has grown up with, the one that can perfectly convey the mature complexity of his art, without fearing the past. It’s definitely far from any kind of retromania, Trentemøller looks straight forward and he’s already working at the next album, during the long waits due to the tour. He is back to the live band dimension, the one he was in before he released “The Last Resort” (Poket Flat Recordings, 2006) and also the one he never leaved: in his most memorable tours, Anders has always been supported by live bands.
Trentemøller, together with the live band, Tom and His Computer, and the singer Marie Fisker, will be back to Italy for two amazing shows: on February 14th at Spazio 900 in Rome and on February 15th at Fabrique in Milan.
We had the pleasure to talk to him, and to discover that when he was twelve years old he dreamed to play with Simon Le Bon.
Are you ready for your italian fans?
Yes, we had the most fantastic true start and sold out shows everywhere, we’re very very happy and we’re totally waiting for coming back to Italy, I think it’s two and a half year since I’ve been playing there last time, so it’s really gonna be great. We can’t wait for it because it’s gonna be great and we want to taste amazing food too.
You’ll be back in Rome soon, where Jehnny Beth was with you on stage for the first time. Was it because of the magic of that city or it could have happened anywhere else?
Yes, it’s true. I really love Rome. I’ve been playing there some times now and I’ve also been there in vacation so there is something special about that city and it helped, but we also did some shows together in London and in Paris so it’s also something about the joy of playing music together, but we could tenderly feel some really good vibes from the crowd in Rome and that always helps us so much when we’re on stage, to feel that there is this kind of condition between the band and the people listening to our music definitely. Rome and Italy have always been great places for us to play.
“Fixion”, your latest work, it’s beautiful and people really love it so I’m pretty sure that they will love the tour too. Is a good tour a consequence of a good album or you have to make a good album in order to make the greatest tour possible? What’s the relationship between an album and its tour, today?
For me, the main reason of doing music is to have the possibility to record and write music, and the album is a great platform for me to get my music out and then, secondly, it is of course nice to go out and play that music, but I don’t do an album because I want to go on tour, I definitely do an album because I feel that I want this music out, so even if we wouldn’t tour I would still do albums because it’s such an important output for me to have but, that being said, it’s really fantastic to go out and make the people listen to my music. There are certain things about playing live and being able to see people in the eyes and people sometimes have very direct way of giving us feedback. We were playing yesterday in Warsaw and some of the people in the crowd was actually crying, sometimes it’s a very intimate feeling, even if you play in front of thousands people, it’s still very intimate compared to just releasing your music and then never going out.
In “Fixion” there are strong references to Joy Division and to other things you listened to in the past. What do you you think about that historical moment, I mean the Factory Records and Manchester in the late 70’s. Lots of artist today are still inspired by that period.
Yes, but it is funny. I didn’t really think that much about it when I wrote these songs, but I can really hear the inspiration. The Cure, the Joy Division, Siouxsie And The Banshees, Echo And The Bunnyman were artist I was really listening to when I was a teenager, so I definitely grew up with all these bands and I really love their sound and their aesthetics, but on the other hand it was also very important for me that this album shouldn’t be something like a retro album or a nostalgic album, I wanted it to be a Trentemøller album but it definitely has some great inspirations in those bands. I wanted it to be just my own sound with something looking forward and not only backward, so the challenge was to have a nice mix of some of the music that really inspires me and then trying to be original at the same time. The challenge in doing music is also to find your own sound in the middle of all the inspirations that you have.
Do you think that the most inspiring thing about Joy Division is their talent and the way they talked about real personal inner issues or it’s because of the legend that surrounds them due to the death of their frontman Ian Curtis?
For me it has nothing to do with the legend about Ian Curtis, for me it is definitely the mood and the vibe and the atmosphere in their music that somehow really talked to me but – I must admit – I’m much more a The Cure fan compared to Joy Division, even if I really love Joy Division too, but I think it’s maybe the aesthetic of daring to have this dark, melancholic side of the music that really talks to me, because there are much more interesting layers in the melancholic music compared to just have a lucky sound.
How much the scandinavian mood influences your composition? Are you actually that moody and melancholy or is this attitude just a fashion among you northerners?
If you listen to scandinavian folk music, like music that’s five hundred or a thousand years old, it definitely has that melancholic vibe and a little bit of sadness, so I think it’s in our blood and in the way that we listen to music. Nordic lullabies, they’re always a little bit melancholic, so it’s very natural for us to sound like that, not only if you do electronic music or classical music. Bands like Sigur Rós they have that vibe, and electronic bands like Fever Ray they also have that same melancholy, even if their music is quite different, so I think it’s just a part of being scandinavian. That being said, we are pretty happy people and it’s maybe much more about having an artistic output, and for me this output is music, I can get rid of this melancholy and this moody vibe through music and it’s something that really helps me, because it’s much easier for me to express my feelings through music than it is writing them down.
What kind of music did you listen to when you were a boy and what kind of music did “normal” people listen to?
Ok (laughs). I also used to listen what “normal” people listened to, I just opened the radio and there was most often danish pop music in the 70s or early 80s, and then I can remember that the first song that was really different from what I could hear normally on the radio was Velvet Underground’s “Venus In Furs”. It blew me away because it sounded so differently, and it had this kind of drone thing going on and it was very hypnotic and it somehow just really scared me because I wasn’t really aware that music could sound that special, so I got into that first album and it was also the first album that I bought on a cassette player, the album was really mind blowing for me. I think I was eleven years old and I wasn’t aware about the meaning of the lyrics, it was all about the sound.
Is there any band in particular you really dreamed to play with? And what was your role in the band?
This is a very funny question because when I was twelve or thirteen I was, of course, a fan of Velvet Underground but I was also a huge fan of Duran Duran and I thought it could be great to play in a band like Duran Duran. Now, when I listen to it, I don’t think their music it’s very much for me but back then that was the coolest band in the world for me. When you’re that young you listen to a lot of different music and that’s actually what I’m still doing, I also love to listen to pop, it doesn’t have to be dark post punk stuff, I listen to a lot of classic and jazz stuff. I always have been listening to a lot of different music style.
You went from the electronic approach to the music to a more traditional one. Do you feel more free to express your talent now?
I started playing in a lot of different bands before I started doing electronic music so I’m kinda back to where I started, not the way that I’m writing music but in terms of using live instruments in my music. I don’t really feel that this is such a big step for me. The first stuff that I released was electronic but that was much more out of coincidence because I just put some samples and some electronic stuff and suddenly it was released, if I have to release something that was band made that might have been the first thing to come out, so I just feel that I have been just developing my sound and always trying not to think too much about styles and genres, but only about music that I feel it’s right, that can be electronic or non electronic, it can be a hybrid between the two worlds, it doesn’t matter. What really matters is to put sounds, and they hopefully sound the way that I feel they should sound, sometimes it’s electronic stuff, sometimes it isn’t.
Today it’s almost impossible to completely avoid any electronic approach while producing an album, although in the past a lot of masterpiece were made without using it. Is it an added value or a shortcut?
For me it’s something about using the best of both worlds. I really love to use tape to record some of my stuff because it’s a very organic, analogue feel but I also like the digital sound and I also like to be able to record all the stuff in an old-fashioned way and to put them in the computer because it’s much faster and you have so many more possibilities but there’s also something about having a band together and playing in the studio and then recording straight to tape so it’s about choosing the best of both worlds and I think a lot of modern artist are not only using the digital domain or only the analogue domain, they mix them together. Even rock bands record a lot of their stuff in the computer, even if they’re using old guitars and old stuff. It’s about using what makes your creative process easy and fast because you actually prefer to spend your time on being creative instead of being technical. When I’m in the studio I want to focus my time on the creative part.
It really seems that you have a lot of fun on stage. How do you approach your live show each time you have to go on stage? What do you think about and what are you afraid of?
I really try to make the band be a big part of how we play, because it is live so it’s not always that we’re playing the songs from the album in the exact same version as they appear on the album, because sometimes those songs need to be adapted to the band and this is the great thing about playing together. We might change stuff, because it is needed to make it happen to play live and sometimes our drama consists in: “maybe we should try to put that sample up on this song”, or the guitar player comes with a new riff or the bass player plays a new pad that I didn’t think of, so the Trentemøller live it’s very much a band thing, but in the studio when I’m writing the songs and recording them it’s only me, having 100% control, so it’s also nice for me to finally loose some of the control thickness and getting the band together. Of course I have strong visions about how the music should sound, what music should be played and even how the instruments should sound. It is something between me and the band and we have to be one unit because it isn’t Trentemøller with the backing band, it’s definitely just a live band.
Last question, the one you probably already answered a million time. Are you going to play dj set again?
I don’t think so. Maybe sometimes in the future but right now my focus is definitely with the band. I want to play my own music live.