Esattamente come leggete nel titolo: questa che vi stiamo per raccontare non è una moda. Non presenta i soliti difetti che hanno tutti i trend, non mostra la stessa limitatezza temporale e non sembra voler seguire il solito schema che porta a diventare prima una fissa globale e poi una questione commerciale (ogni riferimento a ciò che dicemmo per la trap l’anno scorso non è affatto casuale). Al contrario, parliamo di una cosa squisitamente underground, in un periodo – l’era internet – in cui ci si chiede tanto se l’underground possa ancora esistere. La risposta sembra essere “sì, ma in modo diverso”: internet ha eliminato alcuni dei presupposti tipici dei fenomeni underground (nascita in una comunità piccola e affiatata, crescita lenta e tutto il tempo di consolidarsi internamente prima di esplodere), ma è stato anche capace esso stesso di dar vita dal nulla a interi fenomeni musicali, basati su Youtube, sulla condivisione a distanza e sulla ricerca di dettaglio da parte dei singoli. Come il glo-fi, come la witch-house. E come, appunto, quest’entità inafferrabile e distribuita che risponde al nome di tropical bass.
Poche cose oggi sono sfuggenti e difficilmente inquadrabili come i pezzi che girano intorno al mondo tropical bass. A grandi linee, trattasi di uno dei tanti figli monelli della passione per le danze e le musicalità afro/esotiche che si è allargata a partire dalla seconda metà dei 2000, una specie di feticcio che tocca tutti i suoni più anti-occidentali rintracciabili nel globo e che ti mette in condizione di agire sotto nuovi livelli di mash-up, insieme a tutto il modernariato ritmico che va dal dubstep al footwork. Più o meno lo stesso spirito fantasioso con cui è venuto fuori qualche anno fa lo UK funky, eppure qualcosa che stavolta sta andando avanti secondo un piano diverso, che non arriva a essere un vero fenomeno generale ma resta vicinissima all’unica attitudine underground possibile oggi: rimanere sì visibili e potenzialmente accessibili a tutti (il web è sempre il web) eppur mantenendo l’entusiasmo sincero di chi si sente parte di una comunità di appassionati e non fa altro che divertirsi. Pensando solo al proprio piacere, fregandosene di adeguarsi ai gusti del grande pubblico, mantenendosi una cosa per pochi. Il che magari significherà che non sfonderà mai, o che se lo farà sarà come per il footwork, qualcosa che avverrà molto più avanti e solo dopo che qualche pezzo grosso ne farà il suo cavallo di battaglia. Ma la scena tropical non sente la cosa come un problema.
Non che oggi lo si possa definire qualcosa di incerto, appena nato, limitato a una manciata di soggetti. Al contrario, parliamo di una definizione-cappello che oggi copre un’enormità di espressioni, ognuna ben viva e intenzionata a restarlo ancora per un po’. Nient’altro che il frutto allargato e internettiano di quel che alcuni anni fa era un numero isolato di produttori che amavano girare il mondo e per caso si presero la febbre del baile funk: una forma dance che in Brazile prosegue da tipo vent’anni ma che nel decennio scorso ha mandato letteralmente in pappa i producer occidentali con la fissa dei mix coraggiosi. Se poi aggiungete al profilo sopra l’essere a metà 2000 un dj sulla rampa di lancio e un figlio della cultura irriverente americana, ecco che viene fuori Diplo: quello che (non ci stancheremo mai di dirlo, nonostante tutto) è uno dei personaggi più talentuosi e influenti di questa generazione musicale, nel mondo tropical bass è considerato un po’ come l’iniziatore del fenomeno com’è adesso, con la sua Mad Decent focalizzata su tutte le sfumature coinvolte in questo contenitore: moombahton, soca, trap, cumbia, dancehall, kuduro, reggaeton, grime e chi più ne ha più ne metta.
La cosa più bella della tropical bass – e anche l’aspetto che più la avvicina all’accezione romantica di underground – è la sua natura distribuita sulla base, senza un vero VIP che cattura l’attenzione su tutti gli altri. Mille blog da cui pescare (ovviamente TropicalBass, ma anche GenerationBass e Walmer Convenience) ma nessun trend-setter definitivo. Ok, c’è Diplo, che col suo lavoro coi Major Lazer, le produzioni su M.I.A. e la Mad Decent è un personaggio capace di accentrare le attenzioni mediatiche, ma di fatto è noto per tutto tranne che per essere “quello che ha diffuso la passione tropical”. Ci sono i Buraka Som Sistema, autori nel 2011 del fibrillante album “Komba” (se avete poco tempo e vi serve selezionare un solo ascolto tra quelli qui presenti, questo è il vostro disco) e responsabili dell’invasione in loco della cosiddetta “zouk bass” (la variante più pumped-trap-laser del filone tropical). C’è Cheif Boima, dj sierraleonese trapiantato a New York e diventato un importante riferimento sia per il suo impegno a diffondere quei suoni sia per i contributi scritti direttamente su blog specializzati come Ghetto Bassquake e Africa Is A Country (tramite i quali è arrivato anche a “beccarsi” con Diplo). Ma (per fortuna) nessuno di loro è stato mai eletto leader o trascinatore di alcunché, lasciando che sia la base ad avere il controllo di tutto.
Il (bellissimo) risultato è che la scena è un pullulare di nomi di sostanza e nuovi arrivi: da Munchi (uno dei pionieri del moombathon e autore dal 2009 ad oggi di una miriade di uscite di genere capaci di coprire il ventaglio completo, tutte nel suo blogspot) a Daniel Haaksman (100% berlinese – strano – fondatore della vivace Man Rec. e autore di pezzi chiacchierati come “Who’s Afraid Of Rio?” e album belli variegati come “Rambazamba”), da Caballo (dj, producer, remixer, in grado di produrre ogni tipo di musica esotic bass con cui riempire il suo soundcloud, scrittore su tutti i principali blog di genere, fondatore della Latino Resiste, membro di una band death metal, insomma un pazzo) ai ✞ЯфPKiLLΔℤ (in giro da nemmeno un anno ma capaci di conquistare tutti con una varietà sonora impressionante). E anche stavolta noi italiani ci siam fatti trovare pronti (anche se come sempre non si nota), coi Milangeles appena approdati proprio alla Man Rec con l’EP “Passionata”, gli Ackeejuice Rockers voluti da un certo Kanye West per dar polso alla “Guilt Trips” contenuta in “Yeezus” e Ckrono & Slesh già fattisi notare anche all’estero col recente “Railways”.
Come star dietro a questo magma amorfo? Tenete d’occhio le segnalazioni MadDecent (specialmente la sublabel Jeffree’s), i blog che vi abbiamo detto e i magazine attenti ai nuovi suoni (Do Androids Dance sembra il più ferrato sul tema). Cercate di non perdervi le compilation che vengono fuori di tanto in tanto (per una visione d’insieme consigliamo la “Mash It Up Vol. 1“, per una presa più possente è appena uscita “We Call It Zouk Bass Volume I“, per i più curiosi c’è la cosiddetta rasterinha, la nuova variante baile funk rallentata da poco emersa da Rio). E godetevi senza troppe domande questa sensazione di slegatezza e indeterminazione che si porta dietro, senza star lì ad aspettare che la cosa esploda. È tutto materiale che esiste da tempo, solo con forme sempre cangianti anno per anno, e il suo lato migliore è proprio questa spontaneità genuina che traspare in ogni sua uscita. Perciò ci auguriamo che non arrivi mai l’harlem shake del caso, che renda tutto un trend popolare di produzioni in serie: al momento dietro ogni traccia c’è il calore, l’energia verace e tutto il sudore dei giovani in cerca di nuove passioni, e son cose troppo preziose per permettere di disperderle in cambio di una botta temporanea di visibilità.