Il nuovo disco dei Radiohead, “A Moon Shaped Pool” (noto anche come #LP9), dovrebbe cominciare dalla fine. Da True Love Waits.
Una canzone scritta nel 1994 ed eseguita dal vivo per la prima volta un anno dopo, durante il tour di “The Bends“.
Un brano diventato leggenda senza essere mai stato ufficialmente inciso: una versione dal vivo, solo per chitarra e voce, è presente su “I Might Be Wrong“, il mini-album live del 2001 che documentava il tour di “Kid A”/”Amnesiac“, ed è bastata a farla diventare la b-side per eccellenza tra tutte le b-side dei Radiohead.
Una sorta di classico minore, un brano amato e richiestissimo dai fan che non era mai stato immortalato nella sua forma definitiva.
Non che non ci avessero già provato: True Love Waits venne scartata da “O.K. Computer” ancora prima di entrare in studio. La band provò a recuperarla proprio per “Kid A” e “Amnesiac“, ma non furono mai davvero convinti del risultato.
Provarono a registrarla, ancora una volta, nel 2012; e anche lì il tentativo si rivelò non all’altezza delle aspettative.
Se nella carriera dei Radiohead esiste un qualcosa di paragonabile alla famosa tela di Penelope, quella è proprio True Love Waits; e la sua presenza in scaletta non può che sorprendere.
Perché i Radiohead sembrano essere nati per generare ipotesi.
Avere a che fare con loro è come parlare di “Lost” nel 2004 o di “Game of Thrones” adesso che la serie ha superato i libri.
Il campo del probabile vale forse anche più di quello che è certo e prendere cantonate a volte diventa inevitabile (io, per esempio, ne ho prese a decine e non me ne vergogno).
I Radiohead sono nerd che fanno musica per tutti e la condiscono con un sacco di trucchetti che fanno uscire fuori di testa i nerd.
Pensate che sia un caso che la scaletta di questo ultimo lavoro non sia altro che un ordine alfabetico? E il fatto che il disco si chiuda con una canzone vecchia di vent’anni e che parla di separazione? E il fatto che quella canzone sia un’opera mai finita che di colpo arriva a diventare compiuta?
Questo gruppo ha smesso di essere solo un gruppo ormai più di tre lustri fa, e ogni volta che torna sulle scene è chiamato a fare i conti con delle aspettative che hanno a che fare con la musica solo in parte. Si sono messi in una posizione scomoda, e hanno scelto deliberatamente di farlo: i Radiohead si sono auto-condannati al ruolo di chi deve sempre indicare una via nuova. Per questo l’idea di chiudere con un pezzo che più che vecchio è vecchissimo non può che far riflettere. È come se volessero spostare il focus sulle canzoni. Perché questo è un disco di canzoni, e infatti lo chiude proprio quella che è la più canzone di tutte. Un brano già di per sé libero da sovrastrutture – chitarra e melodia (ogni tanto, dal vivo, anche una tastierina a fare colore), niente filtri e niente inganni – e che in questa versione viene messo ancora di più a nudo.
Solo pianoforte (impossibile non pensare al Philip Glass di “Glassworks“) e ancora voce.
Quella voce lì che il tempo ha reso croce e delizia.
Ripartiamo da qui, quindi, e dagli archi mai così presenti e portanti nella discografia dei Radiohead, dall’arrangiamento di Burn the Witch che ricorda Arthur Russell e da Daydreaming che è un capolavoro fatto e finito (e in cui si scorge ancora una volta proprio l’ombra di Philip Glass). Un brano che fa storia a sé.
Per il resto, sì, sono i soliti Radiohead (e questo forse farà avvelenare ancora di più i detrattori): sette canzoni su dieci erano già state eseguite dal vivo, come nella migliore tradizione, ed è interessante andare a fare la caccia al tesoro su YouTube per capire come la scrittura passi attraverso un lavoro maniacale sulle strutture che cambiano e si evolvono nel tempo. Lo stesso era successo nello stesso modo anche per “In Rainbows“, di cui “A Moon Shaped Pool” può considerarsi a tutti gli effetti un fratello minore. E così Decks Dark finisce per sembrare una versione aggiornata di Nude, in cui il groove jazzy dato dalla batteria acustica e dal pianoforte si scontra con le ritmiche sintetiche e gli effetti, mentre Desert Island Disk è la classica canzone dei Radiohead che prende Neil Young e lo trasporta nello spazio (da “Hail to the Thief” in poi ce n’è almeno una a disco). Ful Stop è forse il brano più interessante e oscuro, dall’incedere quasi kraut rock ma come se l’avesse prodotto Burial.
Glass Eyes è perfetta per chiudere il Lato A del vinile (anche qui la cosa più interessanti è rappresentata dalla partitura orchestrale, in cui emerge il lavoro fatto da Jonny Greenwood come compositore per il cinema) e Identikit, che nasce nel periodo immediatamente seguente “The King of Limbs” e sposa la stessa idea di afro-beat dei ghiacci che aveva caratterizzato quel disco. The Numbers ha quel problema lì, che puoi cantarci tranquillamente sopra Optimistic, para para, oppure chiudere gli occhi e pensare che siano tornati i Pink Floyd, mentre Present Tense è il classico pezzo che chiunque avrebbe scelto come primo singolo, ma i Radiohead no, per i Radiohead sarebbe stato troppo facile.
Tinker Tailor Soldier Rich Man Poor Man Beggar Man Thief riprende nel titolo un’antica cantilena inglese e rappresenta il punto del disco che più si riallaccia ai tempi di “Kid A” e “Amnesiac”.
E poi c’è “True Love Waits“. La fine che in realtà è l’inizio e forse davvero la fine. Il tema intorno al quale ruota tutto il resto.