Non succede spesso. Non succede che scrivi una recensione un po’ critica, un po’ scettica (anche solo un po’, eh: manco tanto), e invece di ricevere i rimbrotti di tutta la corte che ruota attorno all’artista – manager, label, frizzi, lazzi – cosa che ormai accade con quasi inquietante regolarità soprattutto quando scrivi su testate grosse (nel mio caso soprattutto quando pubblico su Rolling Stone, ma non solo), e prima o poi sarò il caso di parlarne su quanto si sono allargate e quanto sono diventate arroganti certe realtà che vanno per la maggiore, dicevamo, non capita spesso che invece di ricevere la telefonata passivo-aggressiva che vuole contestarti quello che hai scritto e possibilmente intimidirti un po’ da parte di qualcuno della corte, sia lo stesso artista che legge, ci riflette su e dice “Non sono d’accordo. Parliamone. Mi fa molto piacere se ci confrontiamo”.
Conosciamo Cosmo aka Marco Jacopo Bianchi da anni, e il suo manager – Emiliano Colasanti, che è stato pure una colonna di questo magazine – lo conosciamo praticamente da una vita; eppure al momento del lancio promozionale di “Sulle ali del cavallo bianco” non abbiamo sgomitato per ottenere una intervista. Sappiamo come lavora l’ufficio stampa a cui si sono legati da qualche anno, sappiamo che quell’ufficio stampa dà priorità prima alle testate grosse (tipo il summenzionato Rolling Stone, dove però l’intervista era già appaltata al direttore, a quotidiani e televisioni nazionali), non siamo nemmeno stati lì a metterci in fila. Sapevamo che Soundwall non era una priorità, sarebbe semmai stato un ripiego di un ripiego di un ripiego e probabilmente nemmeno quello, e ci sta, osservando i numeri ed anche il tipo di testata che siamo.
Ci siamo limitati allora a fare una lunga e ragionata recensione. E se col lavoro precedente Cosmo ci aveva profondamente entusiasmato, con l’album uscito ora – non brutto, tutt’altro – ci sentivamo comunque un po’ delusi. Ci mancavano delle cose, non ci entusiasmavano alcune scelte. Delusione resa ancora maggiore dal fatto che “Sulle ali del cavallo bianco” nasce dalla stretta collaborazione di Cosmo, alla produzione, con Not Waving, alias Alessio Natalizia, alias uno dei producer di “elettronica creativa” che stimiamo di più. Ci aspettavamo di più, ci aspettavamo altro; alcune cose ci erano piaciute, altre meno. Insomma, una parziale inversione rispetto all’entusiasmo grosso per “Cosmotronic” e quello enorme per “La terza estate dell’amore”.
Bene. Proprio questa recensione non del tutto entusiastica è ciò che ha generato il confronto. Voluto da Cosmo stesso. Lo diciamo, a Marco: “Guarda, non è che non volessi parlare con te via intervista, perché magari non avevo il coraggio di sostenere faccia a faccia le critiche e le perplessità. È che semplicemente immaginavo che l’ufficio stampa avesse un piano promozionale ben preciso, e non volevo forzare la mano – o chiedere di far forzare la mano”. Cosmo scoppia a ridere, e fa: “Ma figurati. Guarda che siamo sempre io ed Emiliano a decidere, alla fine. Se vogliamo fare qualcosa, se questo qualcosa ci sembra interessante, lo si fa”.
Ed evidentemente mettere su un confronto su quanto scritto dal sottoscritto in sede di recensione era visto come tale. Tant’è che, nella chiacchierata, è stato coinvolto anche Not Waving. Il risultato è una bellissima conversazione a tre senza filtri, piena di voglia di confronto e di ascolto. L’esatto contrario della interviste pre-confezionate da disco nuovo in uscita, che sono diventate un tumore stracco e cronicizzato del giornalismo musicale. Già da anni. Tutti a farsi i pompini a vicenda, e/o a stare attenti a non disturbare il manovratore e quelli potenti. Inevitabile che poi la gente alla fine si abitui ad informarsi di musica su Instagram: testi più brevi, meno sbatti, e ci sono pure le figure, wow.
Ma finché possibile, su queste pagine le cose verranno fatte in altro modo. Sì. Come in questo caso. Buona (lunga) lettura.
Allora. Stamattina, prima di beccarci, mi sono riletto la recensione e, ti dirò, mi ricordavo bene: non è mica una stroncatura senza appello, oh. Anche se più d’uno l’ha fatta passare come tale…
C: Mah, forse era più il titolo…
In ogni caso: non era una recensione drasticamente negativa.
NW: Che poi, che male ci sarebbe a fare una recensione negativa? Mica si può pretendere che le recensioni siano solo positive. No?
Però ecco, tu Cosmo, che ovviamente l’hai letta e proprio il fatto che l’hai letta è il motivo per cui siamo qua a parlare, che impressioni ti ha dato?
C: Ho percepito una certa distanza tra quello che è la nostra visione complessiva e quella che invece hai ricavato tu. Sai cosa? Da parte tua ho visto che mi sono stati attribuiti dei retropensieri che, in realtà, non ho.
Ci sta.
Ad esempio: non penso di avere abbandonato la via del clubbing. Anzi: semmai, penso che la sto approfondendo ulteriormente – ma in maniera diversa.
Diversa?
Diversa, e forse addirittura pure più interessante. Sto facendo un percorso che mi permetta sempre di più di evitare i cliché. In “Sulle ali del cavallo bianco” tutti gli elementi della grammatica del clubbing in realtà ci sono, solo che sono stati fatti detonare. Abbiamo fatto “esplodere” il genere; poi, coi vari pezzi sparsi in giro da questa esplosione, abbiamo ricomposto tutto. Sai, dopo l’uscita de “La terza estate”, già durante il tour che lo ha seguito, ho sentito che stavo entrando in una strada sempre più stretta. Poi è arrivato Alessio…
NW: Ecco, lo sapevo, è colpa mia!
(risate, dni)
C: Ma io ne avevo proprio bisogno, di un cambiamento. Perché già mentre ero in tour mi capitava sempre più spesso di pensare “Io però vorrei fare un po’ di più due soli accordi a canzone…”. Mi sentivo un po’ limitato. Chiaro, provare a scrivere solo su uno o due accordi era una sfida interessante, e poi quando senti troppi giri armonici su cassa dritta…
…il rischio è subito quello di cadere nell’EDM.
NW: Eh sì, il rischio c’è.
C: L’EDM è cheap, vero. Io però sentivo comunque l’esigenza di trovare una narrazione diversa. Anche perché mi rendevo progressivamente conto che avevo tirato veramente tanto nella direzione “da club”.
Beh, ma allora vedi che la mia visione nella recensione era corretta, perché fino a questo momento le nostre interpretazioni coincidono…
NW: Definiamo però cosa è il clubbing, cosa è la direzione “da club”… È davvero interessante e desiderabile ridursi ad essere un artista puramente “da club”? Sul serio? Chiudersi in una scatola, e dire “Io adesso sono un artista da clubbing”? Per giunta, farlo proprio in un momento in cui la musica “da club” è una delle cose più statiche e conservatrici che ci sono in giro? Quando ho visto il live di Cosmo nel tour de “La terza estate” mi sono detto “Sì, è figo, però…”…
…però?
NW: Trovavo tutto molto poco italiano, ecco. E io sono convinto che, se sei un artista pop, il vero segno di forza e di internazionalità sia mantenere un po’ il tuo DNA, farlo vedere.
C: Mentre stavamo lavorando a “La verità”, Alessio mi disse: “Tu devi cambiare visione. Non devi fare pezzi elettronici di stampo UK in cui ci metti sopra delle parole in italiano. Sei italiano? Fai cose italiane! Mettici dentro le tue passioni, i tuoi gusti, il tuo background. E, semmai, con tutto questo, crea dei clash particolari”. Ci ha visto giusto. Infatti questo tipo di patchwork postmoderno che è venuto fuori con “Sulle ali del cavallo bianco” incontra molto il mio gusto. Io ho passato tutti gli ultimi anni ad approcciare e studiare le grammatica del clubbing davvero in profondità, non sono un “turista” di un certo tipo di musica e di approccio.
Anche questo è esattamente quello che penso – e che ho scritto.
C: I miei dj set in poco tempo hanno avuto una evoluzione piuttosto sensibile, da quando mi sono approcciato al tutto. Però la verità è che ciò che mi si addice di più è l’approccio da “piccolo chimico”: ho l’esigenza cioè di mischiare le cose, e vedere l’effetto che fa.
Sperando che sia sorprendente, l’effetto.
NW: Anche io lavoro così. Appena vedo una strada che funziona bene, provo ad uscirne.
Sì, ma tu Alessio non è che vai a cadere proprio nella forma-canzone…
C: Guarda che invece le ultime cose di Not Waving sono sorprendenti, proprio perché si avvicinano molto a quella cosa lì.
NW: Sì, vero Marco, ma effettivamente non quanto le tue. Però ecco: io non vedo il flirtare con la forma-canzone come una cosa negativa. Anzi, attenzione: la vedo proprio come una cosa ben più visionaria e coraggiosa del restare invece ancorati ai canoni del clubbing – canoni che peraltro sono stati elaborati all’estero, mica in Italia. Probabilmente è molto più coraggioso oggi prendere invece delle chitarre acustiche e metterle su frammenti sonori che arrivano da musica da club. Senza contare che se “Sulle ali del cavallo bianco” è così, questo non significa che il prossimo disco di Cosmo non possa invece essere di nuovo molto più legato a strutture da dancefloor. Non è che se fai un disco come “Sulle ali del cavallo bianco” hai tradito per sempre il clubbing.
Ma non è il caso di parlare di tradimento, va bene. Però la mia impressione netta è che Cosmo avesse preso in modo molto marcato un certo tipo di direzione, perché c’è proprio una progressione molto chiara e direzionata se si parte da “Ultima festa”, si prosegue con “Cosmotronic” e si approda a “La terza estate”… Invece, “Sulle ali del cavallo bianco” mi sembra molto una inversione di rotta. Un volersi sfilare da una strada che invece sembrava già segnata e intrapresa con decisione.
NW: In effetti, un po’ è così.
C: Sì, ma io non ho mai abbandonato me stesso. Non mi sono mai sfilato da me stesso. È che molto semplicemente “La terza estate” nasceva da urgenze diverse. Pensaci: eravamo in pandemia, eravamo circondati da limitazioni, io ero davvero infiammato politicamente…
(“La terza estate dell’amore”; continua sotto)
Questa fiamma mi è arrivata forte e chiara – e accidenti, se mi piaceva.
C: Non so quanti altri artisti pop in Italia si siano spesi altrettanto, abbiano toccato lo stesso tipo di nervo scoperto.
Esattamente.
C: Quello della pandemia è stato un periodo assurdo. Eppure mi ricordo che in quel periodo uscivano quasi solo pezzi in cui sembrava che niente di particolare stesse succedendo attorno a noi… Possibile? Io invece vivevo profondamente la situazione. E sentivo l’esigenza che si tornasse a capire l’importanza dell’unirsi, dell’essere insieme, del sudare insieme…
NW: Però mentre guardavo i concerti del tour de “La terza estate” pensavo appunto “Bella questa roba da ballo, da club, bella davvero, ma quando però partono le canzoni…”. E io non sono uno innamorato per forza della melodia e della canzone tradizionale, ci mancherebbe, però credimi, quando partivano le canzoni nei suoi live a me veniva davvero la pelle d’oca. C’era qualcosa, in quei pezzi. E lo capiva anche il pubblico – la reazione era ogni volta incredibile. Incredibile. Sia chiaro: è sbagliato fare musica pensando solo a compiacere il pubblico, dandogli quello che vuole di più. È assolutamente sbagliato. Però secondo me un dovere dell’artista è anche sentire le “vibrazioni” che gli arrivano da chi lo ascolta.
C: Comunque sì, “Sulle ali del cavallo bianco” è un po’ un ritorno alla forma-canzone.
E ma vedi allora che non dicevo cazzate, nella recensione!
(risate, ndi)
C: No, no, non dicevi cazzate… (sorride ancora, ndi) Ad un certo punto, prima di lavorare a questo disco e arrivando dagli anni di “Cosmotronic” e “La terza estate” con rispettivi tour, iniziavo come ti dicevo già a sentire che mi stavo limitando, che c’era qualcosa che non mi soddisfaceva. Solo perché ho assunto la “posa da clubber”, in modo peraltro consapevole ed intenzionale, non è che per forza devo dimenticarmi di cosa mi piace. Giusto? E a me piacciono tante cose. Solo che ad un certo punto mi ero fissato, su questa roba del “club”. Però vedi, io non voglio diventare una cosa tipo 99 Posse…
Un barricadero partigiano con una direzione e delle rivendicazioni molto chiare…
C: …e nemmeno aspiro a diventare un, che so, un Loco Dice, cioè uno che vive per i club ed all’interno del sistema dei club. Con la mia produzione, voglio generare delle sorprese. Ai limiti dell’anarchismo. E rinunciare alla forma-canzone per portare avanti la battaglia “da club” sarebbe stato, come dire?, poco utopista.
Anche perché è un attimo passare da rivoluzionari ed antagonisti a grandi conservatori. Che è esattamente quello che è successo alla stragrande maggioranza della musica da club.
NW: Bravo. Questo è il punto! Io vedo oggi molta più utopia e molto più coraggio nel tentare di fare una canzone pop con suoni assolutamente non convenzionali, mutuati dall’estetica da club. Ci siamo detti, io e Marco, quando abbiamo iniziato a lavorare a “Sulle ali del cavallo bianco”: “Dai, facciamo gli alieni del pop!”.
Ok. Gli alieni. Ma un po’ vi siete trattenuti. Non è un disco destrutturato o urticante, quello che è venuto fuori.
NW: Ma perché questo è solo l’inizio! (scoppiamo tutti a ridere, ndi)
C: Più che urticante o destrutturato, “Sulle ali del cavallo bianco” è semmai un disco molto volutamente naïf: ci siamo prima di tutto divertiti, nel farlo. E ci siamo subito detti: non mettiamoci sopra delle sovrastrutture. Mentre lo costruiamo, davvero, non mettiamoci sopra delle sovrastrutture. Lavoriamo liberamente. Facciamo quello che ci sentiamo d’istinto. Non limitiamoci. Non cerchiamo di essere inutilmente sofisticati.
NW: Che poi, il fatto che ne “Sulle ali del cavallo bianco” ci sia così tanta melodia, tanta forma canzone, qualcosa che effettivamente dopo i dischi e i tour precedenti uno poteva non aspettarsi, distoglie forse dal fatto che a livello di produzione ci sono invece scelte secondo me abbastanza estreme. E proprio questa è forse la cosa più interessante, la sfida più divertente: mettere in un disco soluzioni estreme senza che chi lo ascolta se ne accorga.
C: Sai, quello che tu hai scritto nella recensione ci sembrava delineare una visione molto limitata del clubbing. Dovresti sentire che tipo di set sto facendo, le ultime cose… Anzi, sai che c’è: ti va se uno dei più importanti che ho registrato di recente va su Soundwall in anteprima? Così capisci di che sto parlando… E pure chi poi ci leggerà lo capirà meglio.
Caspita, se mi va.
Come reagisce la gente a set di questo tipo?
C: Beh, qualcuno mi manda anche affanculo: “Oh, cosa è questo mosciume!”. Però vedi, se io so che vengo a suonare al Leoncavallo e la serata inizia alle 21 per finire alle 6 del mattino, e io mi prendo lo slot dalle 21 a mezzanotte, che senso ha spingere? La gente arriva, vede me, si fomenta pure perché ci sono io; ma se si finisce nei soliti canoni da dancefloor più standard
…quelli dell’euforia pronto uso…
C: …esatto, se si finisce in quello diventa tutto veramente asfittico.
NW: Eh sì.
C: Quello che scrivevi nella recensione – ma incalzami, eh, dimmi se sto dicendo cose sbagliate – ovvero che c’era tutta una scena che avrebbe dovuto sostenermi, probabilmente mi investiva di responsabilità che non mi spettavano. Ok, avevo fatto un disco, “La terza estate”, che era molto schierato verso un certo tipo di ideale, di dinamica. Va bene. Anzi, non nascondo che – fosse anche inconsciamente – c’era pure la voglia di dimostrare che sì, certe cose non solo le avevo imparate ma ero anche in grado di farle bene, che il linguaggio “da club” lo avevo cioè assimilato in profondità, non in modo superficiale ed approfittatore. Ma tutto questo non basta secondo me a farmi guadagnare un ruolo.
Ma guarda, io sono abbastanza certo che tu non rivendicassi in maniera esplicita un ruolo da guida per te. Però il mio discorso era: sarebbe stato giusto dartelo.
C: Eh, questo secondo te.
Secondo me, certo. Ma da persone che di mestiere osserva, racconta ed analizza, ci sta che io faccia delle osservazioni ed azzardi delle interpretazioni personali.
NW: Ma infatti è interessante che questo accada. L’artista spesso fa cose senza avere idea di che effetto e che suggestioni possa dare, all’esterno, ciò che fa. È stimolante ascoltare osservazioni dall’esterno.
C: Sta di fatto che io il ruolo di rappresentante e leader del mondo del clubbing non me lo sono mai sentito addosso.
Ripeto: ti credo. Ma sta di fatto che eri l’unico a rivendicare l’importanza del ballare e del senso di comunità che ad esso si collega, “viaggi” mentali compresi: che sarebbe la ragione d’essere di tutto il carrozzone, molto più dei soldi. Mentre a furia di pensare solo a massimizzare i guadagni si sta perdendo tutta la portata “ideale” della club culture, tra l’altro questo è un modo di segarsi il terreno sotto i piedi – e infatti guarda caso il clubbing vero e proprio da anni è in calo totale, e quasi nessuno riesce a capirne il vero motivo, se non ogni tanto a parole, ma non certo nei fatti. Per la gente ritrovarsi a ballare è molto meno intimamente importante rispetto a un tempo. Tu invece con la “La terza estate” avevi rispiegato benissimo tutto quanto… Avevi rispiegato la forza del ballo, che non è solo divertimentificio. È, o potrebbe essere, una precisa scelta di campo identitaria, sociale, politica.
C: Sì, mi ero molto sbilanciato in quella direzione. Ma di lì in poi, esaurita l’esperienza de “La terza estate” e del tour, ho sentito che avevo sacrificato molto la mia parte più intima e sentimentale per veicolare invece un certo tipo di messaggio. Quando, anche tra l’altro per un vissuto personale mio dell’ultimo periodo, sentivo l’esigenza di tornarci, alla parte più intima e personale… Un artista deve essere sincero verso se stesso: anche perché solo se è sincero verso se stesso poi lo può essere davvero anche col suo pubblico. Se fossi andato avanti a portare avanti la battaglia del ballo, del clubbing, avrei iniziato a sentirmi una macchietta. Uno poco sincero. In questa fase della mia vita ho bisogno di dire ed esprimere determinate cose, che sono diverse da quelle di due anni fa. Ma di nuovo: questo non significa che abbia abbandonato o disconosciuto certe posizioni.
NW: Che poi oh, sarebbe stato tuo diritto farlo. Esiste il diritto di cambiare idea.
C: Certo. Ma in realtà mi sono solo limitato a riaggiustare un po’ la rotta, gli equilibri.
(“Sulle ali del cavallo bianco”; continua sotto)
Sta di fatto che “Sulle ali del cavallo bianco” poteva uscire più da dancefloor, più “underworldiano”, diciamo.
NW: Era una strada possibile, sì.
Ecco.
C: C’è un pezzo molto alla Underworld, che è “Energia”, dal vivo in queto tour lo facciamo e già da tempo lo suono nei miei dj set: bene, nel disco non c’è. Poteva esserci, era pronto, fatto, registrato, finito, ma lo abbiamo tenuto fuori.
NW: Sarebbe stato fuori contesto.
C: Ma torniamo al punto, torniamo a noi. Io capisco cosa volevi dire con quella recensione: Cosmo si è avvicinato al clubbing, in modo chiaro, per poi allontanarsene. Ok. Ma sinceramente non sono uno che ha usato il clubbing per poi buttarlo via, “Ecco, vedete raga, qui il mio momento clubbing, vi piace?”, che poi parliamoci chiaro: io ho iniziato ad usare la grammatica sonora del clubbing proprio nel momento in cui il clubbing non solo in Italia ma in tutto il mondo era in totale calo. Altro che scelta di comodo.
Ma appunto. È esattamente quello che ho scritto. La tua era una scelta sentita, approfondita e pure parecchio coraggiosa: perché in totale controtendenza. Proprio questo è il punto. Oggi si recupera la cassa in quattro sì, ma per farci i brani da Sanremo. “La terza estate” invece era un disco rigorosissimo e, nella grammatica della musica da club, pure molto sofisticato. Quindi il mio discorso, e qualche lettore più attento l’ha capito, era in realtà più rivolto alla comunità della club culture che a te. Tipo: c’è ‘sto tizio, Cosmo, ha pure un seguito da nome importante del pop, abbraccia in pieno quella che dovrebbe essere la vostra grammatica e la vostra cultura, lo fa con umiltà e competenza, si sta spendendo tanto per battaglie che dovrebbero essere vostre: sostenetelo, cazzo. Anzi, di più: imparate dal suo entusiasmo, dalla sua convinzione, dalla sua dedizione e consapevolezza, invece di pensare solo a barcamenarvi in un sistema che sta perdendo sempre di più il suo scheletro ideale per concentrarsi solo sull’equilibrio economico e sulla possibilità di entrare nel “giro giusto”, quello che ti fa decuplicare guadagni e benefit accessori.
C: Nei club, oggi, ci sono davvero tante cose che mi lasciano perplesso, ed è un eufemismo. Il clubbing dovrebbe essere invece prima di tutto di vivere un momento comunitario.
Un’esperienza orizzontale.
C: Già. Dovrebbe essere il contesto in cui si supera questa cosa del palco, del pubblico che paga per vedere un determinato nome… Il clubbing dovrebbe essere una faccenda di mood, non una gara a chi ha la line up più interessante e potente.
Oh, e qui arriviamo al punto. Dicendo tutto questo mi stai, secondo me, molto semplicemente, dando ragione: nel senso che oggi più che mai il mondo del clubbing avrebbe bisogno di una figura come la tua, che pur partendo da una posizione di notorietà pop certe cose le ha invece capite, sa che la notorietà non è tutto, sa che certi sistemi e certe dinamiche non sono per forza l’unica via possibile, ed esistono delle vie alternative se solo lo si vuole. Sarebbe un insegnamento molto importante. Non solo: capirne l’importanza sarebbe stato un primo tassello per invertire la crisi e il calo costante di tutta la galassia del clubbing.
C: Le discoteche per me sono luoghi destinati all’estinzione così come sono fatti adesso. Pensa alla normazione che le circonda, a come tutto sia strutturato solo ed unicamente per estrarre valore da chi c’è, da chi è lì come pubblico. Le discoteche trattano tutti come animali: chi ci si esibisce, chi ci viene. Animali da radunare, mettere in gruppo togliendo ogni libertà di movimento non normato, e poi da spremere, sfruttare, mungere. Dopodiché, una volta terminato questo ciclo, grazie e fuori dai coglioni. Trovo tutto questo allucinante. Dopo la pandemia e la conseguente diffusa sperimentazione collettiva di situazioni clandestine, molti oggi dicono, li ho sentiti io stesso: “Ma perché dovremmo tornare a rinchiuderci nei club?”.
NW: Vero, confermo. Perché i club ormai sono diventati un mero sistema industriale. Per giunta pure abbastanza triste e privo di vita, di idee, di originalità. Però guarda: se tu senti il live del tour di “Sulle ali del cavallo bianco”, vedrai che comunque dal punto di vista musicale, e direi proprio di grammatica emotiva, è molto legato a ciò che il clubbing è o dovrebbe essere…
E qui apriamo una parentesi in questa conversazione. Abbiamo visto la date zero del tour, avvenuta proprio in serata nel giorno in cui questa chiacchierata si è svolta, e vi possiamo garantire che a) è un concerto bellissimo b) è un concerto che ha uno scheletro veramente intriso dei principi della club culture. Il modo in cui è concepita la scaletta, il modo in cui sono alternati pezzi vecchi e nuovi, il modo in cui ci si muove sul palco, il modo in cui si “prende per mano” il pubblico riprende in tutto e per tutto molto più un dj set di quelli fighi davvero che un normale concerto pop. Quindi: chapeau. Ma torniamo a noi.
Comunque so che tu Marco un club, in realtà, lo vorresti aprire.
C: Vero. Ci sto lavorando da un po’. Non so se quando aprirà durerà poco o tanto; spero solo che sia un’esperienza che riesca a gettare un seme. Io ci credo. Voglio farlo. Ma non ho la presunzione di pensare di poter cambiare le cose nel mondo, o anche solo in tutta Italia: cerco intanto di farlo nel territorio in cui vivo, ed è già tanto. Sai, penso che nella vita bisogna essere molto concreti. E io, di mio, ho invece la tendenza a essere megalomane. Durante la protesta per il decreto anti-rave mi sono esposto molto, mi sono speso parecchio, ho partecipato anche alla Street Parade di Torino: proprio in quest’ultimo caso ho potuto toccare alcune spaccature all’interno del movimento antagonista che mi hanno fatto pensare proprio “Mamma mia, adesso capisco perché certe cose sono così difficili”. Sì: è difficile coniugare musica e politica. Molto. Mi sono detto “Resettiamo. Sì, devo resettare”. Altrimenti sarei rimasto in qualche modo impantanato. E se vuoi essere attivo, propositivo, concreto, non puoi rischiare di essere impantanato. Non puoi.
Il discorso fila.
C: In più mi rendo conto che quando vado in giro, come cantante pop, ho bisogno ormai di venue da migliaia di persone, per mille motivi. Io posso avere tutte le idee che voglio, le più belle, le più coraggiose; ma devo tenere conto delle esigenze di chi sta attorno a me, e queste idee devono tradurle in pratica. Se io voglio reinventarmi “la festa dell’Amore” e faccio una tre giorni di eventi speciali in un tendone da circo a Bologna, come in effetti è successo, questo significa che ci sono tantissime persone che devono smadonnare di lavoro e di soldi per rendere tutto possibile. Se agisco invece solo a livello locale, posso muovermi più liberamente.
NW: E poi in realtà è una caratteristica dei migliori artisti contemporanei quella di sapersi muovere su più livelli, mantenendo comunque sempre libertà ed autonomia di scelta. Pensa a Four Tet: che ormai è un personaggio pop, a vedere i numeri, ma riesce comunque a portare avanti una sua label e a fare tutto quello che vuole. Poi chiaro, se vuoi giocare solo ed esclusivamente lì dove le cose sono gigantesche… Ma quello, è un altro sport.
C: A me però dispiace che in Italia spesso non ci sia apertura mentale proprio lì dove potenzialmente ce ne potrebbe e dovrebbe essere molta: potrebbe scombinare gli automatismi, i luoghi comuni. Al Dekmantel invitano Roisin Murphy, ma in Italia Club To Club non ha mai pensato di invitare me, immagino perché troppo pop: non lo trovi strano? E non è un problema di numeri o di rosicate: io non ho bisogno di loro, esattamente come loro non hanno bisogno di me, anche perché C2C è un festival che non pensa solo ai numeri, assolutamente, ha una identità ben precisa e di valore. Mi spiace però che non abbiano capito il mio intento musicale. Invitano Ghali, ma non invitano me: capisci? Ripeto: è giustissimo che loro facciano le loro scelte. Ci mancherebbe. Mi spiace solo che non abbiano avuto l’empatia per capire il tipo di percorso che sto provando a fare: perché in teoria sia io che loro vogliamo la stessa cosa, trovare nuove vie per il pop, vie non scontate. Ma si vede che c’è una distanza di attitudine, nell’agire, nel comportarsi, nel fare delle scelte. Sarà questo. Chissà.
Sarà anche che non sei abbastanza esotico. Troppo simile al festival, sì, ma italiano, non straniero. Sperimentale ed atipico sì, ma troppo diretto, popolare. A proposito dell’essere diretti: come testi, “Selle ali del cavallo bianco” mi sembra molto diretto, nudo, schietto ai limiti dell’ingeuità. “La terza estate”, che all’apparenza era fatto di testi molto più semplici, in realtà mi era sembrato come scrittura testuale un lavoro molto ma molto sofisticato, una sorta di destrutturazione e decontestualizzazione di un alfabeto riconducibile quasi ai trapper e che tu, invece, hai portato dalla tua parte e verso messaggi ben precisi che volevi comunicare. Messaggi per niente semplici o accomodanti.
C: Con questo disco avevo l’urgenza di esprimere qualcosa di diverso. E, sì, la scelta è stata quella di essere molto più spontanei, immediati.
NW: Confermo. Sono rimasto quasi scioccato da quanto immediate, spontanei e diretti siano stati fin dall’inizio i testi di questo album. Prendi una traccia come “Il messaggio”…
C: …nata da una esperienza di k-hole volontario che ho fatto in studio.
Ah.
C: Allora: c’era questo loop che toccava tantissimo sia me che Alessio, praticamente arrivava a farci piangere.
NW: Da sobri, eh!
C: Alle 4 del mattino Alessio se ne è andato a dormire, io invece mi sono incaponito, sono rimasto lì, sottoponendomi appunto all’esperienza che ti dicevo. Sono rimasto ancora qualche ora a registrare, ho iniziato ad aggiungere anche delle voci. Beh, è stata una esperienza fortissima. Era come se i concetti mi si sciogliessero tra le mani, impedendomi di esprimerli. L’unica cosa che sentivo netta, fissa e potente era il senso di amore.
NW: Ma infatti quello non è un pezzo d’amore, anche se Cosmo ripete più volte “Ti amo”… Quando l’ho sentita, questa traccia vocale, ho pensato subito fosse perfetta: lui è uno che si può permettere di cantare una cosa così, restando credibile.
C: È anche un modo per toccare in maniera strana ed obliqua quello che è un topos di suo così classico, quello dell’amore.
NW: Già. Che poi io trovo molto noiosa l’idea che certi argomenti possano essere toccati solo dai soliti nomi della canzone italiana. Oh, dove è scritto che sia così?
C: Io mi sentivo di dirlo; e l’ho detto. Guarda, mettendo un attimo da parte la modestia: non credo ci sia in Italia un altro disco così. Ma non migliore o peggiore, non è questo il punto: un disco di questo tipo, con questo approccio, con questa attitudine.
NW: Sai cosa? Secondo me è un disco davvero internazionale. Internazionale perché molto italiano, nel suo cercare la melodia, la canzone. Dato che se vogliamo essere sinceri, la musica italiana che è veramente rimasta e che è conosciuta e rispettata anche all’estero – vedi Battiato, Battisti – sono cose che hanno una forte impronte melodica, su arrangiamenti sofisticati, non banali. Vedi appunto “Anima latina”. Ammettiamolo.
Marco, il tuo pubblico quanto ti capisce?
C: Da “Ultima festa” in poi, che è il disco che mi ha fatto conoscere ad ampio raggio, la gente ha sempre storto un po’ il naso. A partire già da “Cosmotronic”, che è il suo successore. Roberto Trinci, che mi ha sempre sostenuto, che è stata la prima persona a far sì che una major tirasse fuori dei soldi per me, è uno che per dire quando ha sentito “Cosmotronic” era discretamente perplesso: “Ma questa cosa delle strumentali, io non so…”. E anche dal vivo, all’inizio, la gente restava un po’ così. Poi piano piano è entrata nel mood. E nelle ultime date del tour la reazione del pubblico era completamente diversa rispetto alla parte iniziale: si era capito che andare ad un mio live era come andare ad una lunga festa, non ad un mero concerto. Cosa che poi con “La terza estate”, disco e tour, ho portato fino all’estremo. Io sono perfettamente consapevole che in questo modo perdevo per strada qualcuno, con scelte di questo tipo. Quanti sono oggi quelli che dicono “Eh, dopo ‘Cosmotronic’ Cosmo non ha fatto nulla di decente”?
(“Cosmotronic”; continua sotto)
Li recupererai, con “Sulle ali del cavallo bianco”?
NW: Ma chi se ne frega!
C: Non lo so. La gente è libera di entrare ed uscire dalla mia musica.
NW: La cosa bella di Cosmo è che è uno che educa i suoi fan. Per dire: quando suonai da dj dopo di Marco al Link, a Bologna, avevo un po’ di paura, lo ammetto. Non sarei sceso a compromessi, ovviamente – ma la domanda del come possa essere recepito un mio set ad un concerto pop me la facevo. Invece lui è salito sul palco, iniziando a dire “Restate, restate tutti, sarà una figata” e questo ha fatto la differenza. È venuta fuori una gran serata, con la gente entusiasta anche quando suonavo le cose più estreme. Ha un pubblico che si fida di lui.
C: Le tre date de “La terza estate” nel tendone da circo a Bologna sono state fantastiche. Nonostante il format particolare, con musica cioè dal primo pomeriggio fino a notte inoltrata, erano tutti presi bene ed erano perfettamente “dentro” a quello che stava succedendo.
NW: E credo che “Sulle ali del cavallo bianco” sia l’inizio di un nuovo viaggio: diverso, ma che può dare tante soddisfazioni. Un viaggio che tu Marco potrai guidare benissimo, in grande libertà, accompagnando il tuo pubblico.
Insomma: mi dite che una parola chiave di “Sulle ali del cavallo bianco” è libertà, riassumendo.
C: Non lo so. È un termine, “libertà”, che per l’uso che ne ha fatto la destra e il centro-destra è diventato quasi fastidioso. Io personalmente lo uso con una certa difficoltà.
NW: Forse è meglio usare “utopia”.
C: “Utopismo”.
NW: A me piace sempre molto citare Ettore Sottsass: “Bisogna fare cose che non sono mai state fatte – proprio per il semplice motivo che non sono mai state fatte”. Il tuo compito da artista deve essere questo. Anche a costo di perdere dei fan.
C: Potessi rimanere a livello di popolarità su questo livello in cui sono ora per tutta la vita, ci metterei subito la firma. Subito. Gli streaming saranno calati rispetto a “Cosmotronic”, vero; ma dal vivo invece arriva sempre più gente a sentirmi. E io, ti giuro, sono felice così.
E non hai un entourage che invece ti fa pressione…
C: Zero.
Manco le major? Perché ok il tuo management, so bene come la vede e come si comporta Emiliano Colasanti, ma ora che da qualche disco sei comunque legato anche al mondo delle major…
C: Ci hanno provato, a fare pressioni.
Come?
C: Tipo suggerendomi questo o quel featuring, per aumentare gli stream del disco. Ma poi hanno capito che non c’era verso: non gli avrei mai dato corda.
Si può dire di no, insomma.
C: Dipende dall’artista. E dal suo management. Guarda, se tu fai una musica che vive sui numeri e non sulla qualità – ed è una scelta possibile – devi comunque sapere che hai scelto di giocare in un campionato ben preciso. Ecco: io da quel campionato ne sono uscito, anzi, meglio, non ci sono mai voluto entrare. È ovvio che spero comunque che ai miei concerti arrivi più gente possibile, e finora in tal senso sta andando tutto bene; ma se volessi giocare nel campionato dei numeri, mi sentirei continuamente un frustrato.
NW: Il problema vero è quando inizi a lavorare non più per te stesso ma anche – e soprattutto – per alimentare il sistema dell’industria.
C: Se la priorità diventano vendite e stream, se queste sono le cose che metti davanti a tutto, faccio fatica a pensare sia effettivamente possibile avere onestà e schiettezza dal punto di vista artistico.
Ecco. Ma su questi argomenti, ti confronti coi tuoi colleghi? Intendo nel mondo del pop, mondo di cui comunque, per dimensioni e popolarità diffusa, fai parte.
C: Certo. A me tra l’altro piacerebbe produrre gente grossa, nel mondo del pop, e farne deragliare un po’ il suono. Però, non mi considerano più di tanto, anche perché non ho il classico credito dei miliardi e miliardi di streaming. Con qualcuno però ci sono dei discorsi… Non posso dirti altro per ora… In generale però sì: il panorama pop italiano è abbastanza una landa desolata. Non è semplice trovarci degli stimoli.
Il che è paradossale: perché mai come oggi il pop italiano è stato così abitato, per giunta anche da gente nuova, fresca. Da gente che tra l’altro non è stata creata in vitro dalle major, ma arriva realmente dall’underground.
C: Già. Ed è un po’ il segno di una rivoluzione tradita.
NW: Ma poi, non so, guardo il pop italiano e vedo sempre tutto uno scimmiottare modelli internazionali…
Occhio, però: il confine tra “scimmiottare”, che ha una accezione molto negativa, e “suonare internazionali”, che invece è per lo più positivo, è sottile. Vogliamo mica tornare al pop italiano da Sanremo anni ’80, quello da Strapaese?
NW: Ma scimmiottare è sempre provincialismo puro, sempre. Se tu fai un pezzo “alla Rosalìa”, a Sanremo, è qualcosa di super provinciale. Rosalìa è come è per un motivo ben preciso: per il background che ha. Che non è il tuo.
C: Non dobbiamo dimenticarci della terra da cui nasciamo, di cosa siamo informati culturalmente. Pensare di poterne fare tabula rasa, è il risultato della globalizzazione più brutta, bieca. E mi sta molto sul cazzo che di questo discorso se ne sia appropriata la destra, facendolo così diventare molto ambiguo, scivoloso. Perché sì: è la destra ed essersi appropriata completamente del discorso dell’italianità, e questo mi dà molto fastidio. Dà fastidio a me, dà fastidio a tutte le persone che conosco. Quanto è imbarazzante oggi girare con una bandiera italiana in mano, a meno che ovviamente non ci siano le partite dei Mondiali? Eppure, non possiamo negare di essere italiani. E, musicalmente parlando, di aver quindi ascoltato nella nostra infanzia un certo tipo di cose. Se si vuole essere onesti con se stessi, entrare in contatto con la propria italianità non è qualcosa di negativo, di provinciale. Ne sono profondamente convinto. Anche perché viviamo in un mondo che oggi, di suo, è sempre e di continuo iper-connesso.
Paradossalmente quindi la cosa più coraggiosa sarebbe sconnettersi, ripiegare sul locale invece che abbandonarsi al globale.
C: La cosa più coraggiosa sai qual è, quale sarebbe? Tenere entrambe le cose.