Se siete DJ, collezionisti di dischi, cassette o CD o più semplicemente appassionati di musica, è difficile (o forse impossibile) credere che non abbiate mai messo piede su Discogs. Nato da un’idea di Kevin Lewandowski, ex programmatore per l’Intel, ed online dall’autunno 2000, è il database musicale per eccellenza (che non teme confronti col competitor MusicBrainz, creato da Robert Kaye nello stesso anno), riconosciuto sia per la sua grandezza (cresce mediamente di un titolo al minuto) che per la meticolosità di catalogazione di ogni dato rinvenibile su supporti audio. Nei primi anni è riservato ai formati fisici relativi alla musica elettronica: Lewandowski voleva escogitare un sistema per catalogare la discografia dei suoi artisti preferiti (Discogs è infatti l’abbreviativo di dis-cog-ra-phies), ma dal 2004 in poi le porte si aprono via via a tutti i generi musicali, senza nessuna riserva, e in seguito anche ai formati liquidi. Non farlo avrebbe voluto dire escludere un patrimonio immenso giacché di musica disponibile unicamente in formato digitale ne esiste (e ne esisterà) sempre di più.
Discogs oggi funziona in modo analogo a Wikipedia: è un database open source, collaborativo, gratuito e liberamente modificabile in quanto chiunque, previa registrazione, può contribuire alle voci esistenti o crearne di nuove. Il primo disco ad essere inserito, naturalmente da Lewandowski, è stato “Stockholm” di The Persuader, su Svek. Nel 2000 il form dei dati era ridotto davvero all’osso: oltre ad autore, titolo ed etichetta, potevano essere selezionati il formato, la nazione, la data di pubblicazione, genere, stile e tracklist. Nient’altro. Il passar degli anni ha implicato un progressivo e costante ampliamento delle informazioni catalogabili, dai crediti alle liner notes passando per le coordinate relative a publisher, copyright, phonographic copyright, codice a barre, codice SID, runout, codice ASIN, codice della label (che è differente dal catalogo), distribuzione, masterizzazione, pressatura, marketizzazione e tanto altro ancora. Una funzione risalente a qualche anno fa è la Master Release, che ha reso accorpabili le diverse versioni dello stesso disco ma preservandone la consultabilità mediante un semplice clic. Prima della Master Release ci si ritrovava con decine (centinaia in alcuni casi) di voci simili: basti pensare a “The Dark Side Of The Moon” dei Pink Floyd, “Rubber Soul” dei Beatles o “Thriller” di Michael Jackson, che rispettivamente oggi contano 396, 313 e 261 versioni. Le 128 di “Café Del Mar” di Energy 52, le 64 di “Pump Up The Volume” dei M.A.R.R.S. e le “appena” 58 di “I Feel Love” di Donna Summer sono quasi un’inezia in confronto.
Al fine di trascrivere più fedelmente possibile quanto disponibile sulle pubblicazioni, esiste una particolare funzione che permette di indicare le variazioni (volontarie o erronee) del nome dell’artista ma in modo tale che il link conduca l’utente sempre sulla stessa pagina. Altrettanta cura è rivolta alla raccolta di informazioni relative ad artisti, case discografiche e tutte le attività correlate, da studi di registrazione a società editoriali, passando per studi grafici, studi di masterizzazione e distributori. Naturalmente, come per Wikipedia, esiste una corposissima guideline ma che spesso viene totalmente ignorata, in primis da coloro che hanno la presunzione di saper già catalogare la musica, soprattutto se propria. Ciò causa quotidianamente scontri tra i submitter e i voter ossia quegli utenti che, secondo un algoritmo del sistema che prende in esame il ranking raggiunto, hanno maturato sufficiente dimestichezza e quindi possono giudicare (e votare) gli inserimenti altrui.
Dal marzo 2008 ogni modifica apportata è immediatamente visibile, contrariamente a quanto avviene negli anni precedenti quando invece è necessario il voto di più moderatori e il numero delle submission è limitato. A spingere verso il radicale cambiamento è l’abnorme mole di edit e di nuovi inserimenti quotidiani che per ovvi motivi non potevano più essere visionati e votati in tempi ragionevoli. Per velocizzare il processo, Lewandowski (affiancato dal database manager Nik Kinloch, da Edinburgo, il primo ad essere da lui assunto) vara la V4, aspramente contestata dalla vecchia guardia dei moderatori secondo i quali ciò avrebbe provocato un abuso incontrollato dei dati del sistema, vanificando anni di lavoro. In tanti, in segno di protesta, cancellano il proprio account oppure optano per l’inattività. Sotto accusa, qualche tempo dopo, anche l’algoritmo che trasforma i contributor in voter: talvolta ad avere la facoltà di voto sono utenti che non conoscono a fondo le regole e che votano (positivamente o negativamente) in modo errato, facendo inferocire i voter più attenti e disciplinati, a quanto si dice non supportati (se non nei casi più eclatanti) dal management che preferisce lasciar correre. La lingua ufficiale per comunicare su Discogs resta l’inglese ma ciò rappresenta ancora un forte limite per molti (non è raro infatti inciampare in commenti in italiano, spagnolo, tedesco e persino in greco). Tuttavia è possibile creare dei gruppi che funzionano alla stregua del forum, in cui poter parlare la propria lingua e confrontarsi coi connazionali su qualsiasi cosa.
Lo sbalorditivo marketplace
Discogs non è solo un database ma anche un marketplace, lanciato circa 14 anni fa dallo stesso Lewandowski aka teo nel forum: quasi tutti i prodotti inseriti possono essere acquistati o venduti. Restano esclusi quelli editi in digitale, dopo una joint-venture con Juno Download conclusasi a gennaio 2014. Certe pubblicazioni invece sono sospese dal commercio per particolari motivazioni, come forme di razzismo, inneggiamento alla violenza o bootleg verso cui l’autore o la casa discografica hanno sporto denuncia formale. Grazie a Discogs circa 24 milioni di prodotti (prevalentemente usati ma anche nuovi) vengono messi a disposizione in un mercato immenso di musica di ogni tipo, di gran lunga più dettagliato rispetto a quello di altre piattaforme di compravendita, come eBay o MusicStack, perché Discogs permette di stabilire con assoluta precisione il prodotto che si intende vendere o acquistare. Ovviamente non mancano i truffatori che spacciano un disco, un CD o un flexi-disc per un altro, o che offrono un raro picture disc ed invece mandano la stampa su vinile nero, o che garantiscono condizioni perfette dell’oggetto quando invece presenta difetti. Il sistema basato sui feedback, analogo a quello di eBay, mira il più possibile ad evidenziare l’onestà di venditori e compratori. Discogs trattiene, per i venditori, una royalty pari all’8% su ogni transazione avvenuta a cui va aggiunta, per i residenti nell’Unione Europea, l’IVA, che per noi italiani è il 22%.
Il marketplace di Discogs, oltre ad indicare una sorta di indice borsistico per ogni prodotto (anche perché permette di fare un raffronto immediato tra domanda ed offerta), ha rivoluzionato il mercato della musica online in virtù delle proprie caratteristiche, sino a soppiantare e costringere alla chiusura anche chi era giunto alle stesse intuizioni con abbondante anticipo, come GEMM, ideato nel 1994 da Roger Raffee e realizzato dal programmatore Jim Hall, considerato il primo marketplace musicale sbarcato sul web ai tempi delle BBS (qui trovate un’interessantissima intervista a Raffee). Se da un lato il marketplace di Discogs favorisce il commercio di musica, dall’altro scatena spietato bagarinaggio ed esagerate speculazioni, come quelle di 12″ italodisco che si sono ritrovati, in virtù della scarsa reperibilità, ad essere valutati a peso d’oro, come “I’m Gonna Dance (Take Me Tonight)” di Ryvon, del 1984, venduto ad ottobre 2009 per oltre 1000 euro o “He’s Brando” di Brando, del 1985, nel 2012 ceduto per 500 euro ed oggi disponibile per 1200 euro. Poi ci sono spietati seller che acquistano dischi dai negozi ma lasciandoli imballati col preciso intento di rivenderli su Discogs al massimo prezzo possibile (vedi “Feed-Forward” di Sandwell District, per cui oggi si chiedono oltre 2000 euro, o il box set di “Random Access Memories” dei Daft Punk, recentemente venduto per 385 euro. Qualcuno asserisce che certe etichette non mettano intenzionalmente in circolazione le intere tirature (limitate) dei propri prodotti, con lo scopo di vendere le ultime copie su Discogs, quando ormai irreperibili altrove, ma al triplo o persino al quadruplo del loro valore. In merito a tale tematica consiglio di dare una lettura a questo articolo.
Il marketplace ha senza dubbio imposto una vera svolta alla quotazione commerciale di Discogs, anche se la prima versione fu, come ricorda Lewandowski sul suo blog, un fallimento, perché prevedeva un costo per l’inserzione ma nessun margine di profitto sulla vendita dell’oggetto. «La sfida più grande era trasformare un hobby in un business. Inizialmente mi limitai ad inserire link di negozi di dischi per poter pagare almeno i costi di hosting ma col tempo ho capito che per sostenere Discogs e soddisfare le esigenze dei suoi utenti, avrei dovuto renderlo più commerciale» spiega Lewandowski in un’intervista del 2011. Secondo il Portland Business Journal, nel 2013 il marketplace registra circa 12.000 transazioni quotidiane: difficile ipotizzare che semplici advertising avrebbero mai potuto garantire simili introiti.
Un business tra luci ed ombre
Oggi si parla di un ritorno di fiamma del vinile e certi DJ nostalgici ipotizzano una nuova età aurea del 12″, ma ignorando che il fenomeno interessi in primis le ristampe dei classici (date una lettura agli articoli su Rockit e Repubblica) e l’usato, soprattutto se raro. Di musica dance prodotta ai giorni nostri, su vinile, invece se ne vende troppo poca, totalmente insufficiente per pensare ad un modello di business diverso dalle limited edition di poche centinaia di copie, stampate dalle etichette più coraggiose. Anzi, il “vinyl boom” che tanti sbandierano potrebbe essere persino “nocivo” per il comparto della musica elettronica, come si evidenzia in questo articolo. A confermare che il passato sia di gran lunga più redditizio del presente sono anche le classifiche dei dischi più costosi venduti mensilmente su Discogs: una delle più recenti vede in vetta l’album dei tedeschi Analogy pubblicato in Italia nel 1972, venduto per 3500 euro. Ben 5400 invece gli euro spesi da un tale il 24 marzo 2015 per accaparrarsi una delle 110 copie di colore bianco di “Chung King Can Suck It” dei Judge, risalente al 1989, che detiene il record del prezzo più alto di sempre, almeno da quando Discogs diffonde tali classifiche (gennaio 2010). Nella top 12 dei più costosi del 2015, il disco più recente è del 1999, “Vampires Of Black Imperial Blood” dei Mütiilation, venduto ad aprile per 1269 euro. I restanti vanno dal 1960 al 1989.
Altrettanto interessante è visionare la top 100 dei più venduti nel 2012, l’unica classifica di questo tipo sinora stilata: figurano appena 27 dischi pubblicati quell’anno. Tra gli altri invece si segnala la presenza delle 150 copie di “Homework” dei Daft Punk, uscito nel 1997, delle 132 copie di “Blue Monday” dei New Order, uscito nel 1983, delle 129 copie di “Music From Twin Peaks” di Angelo Badalamenti, uscito nel 1990, delle 114 copie di “Windowlicker” di Aphex Twin, uscito nel 1999, delle 110 copie di “Thriller” di Michael Jackson, uscito nel 1982 e delle 88 copie di “The Final Frontier” di Underground Resistance, uscito nel 1991. Insomma, il passato trionfa sul presente. Prendendo ancora in esame le top 30 dei dischi più costosi venduti su Discogs dal 2010 ad oggi emerge come il denaro speso dai collezionisti per supporti musicali sia in costante ed esponenziale aumento: si parte dai 182.075,52 dollari del 2010, che diventano 225.316,86 nel 2011 e 227.777,97 nel 2012. Il 2013 ne conta 265.095, il 2014 309.754 e il 2015, da poco concluso, ben 408.475. Discogs ha innescato una vera rivoluzione (come rimarcato nel 2010 in questo articolo su Resident Advisor) e si stima che nel 2015 nel suo marketplace siano stati venduti circa 80.000 dischi a settimana per un totale di circa 100 milioni di dollari di fatturato. Qualche volta questi numeri hanno provocato aspre polemiche: Lewandowski è accusato di “sfruttare” la passione di una miriade di volontari sparsi per il pianeta, che con il loro lavoro non retribuito alimentano costantemente il database rendendolo ogni giorno sempre più ampio, completo e corretto. Per giunta qualcuno ammette di essere affetto da “discogspatia”, una sorta di irrefrenabile impulso a catalogare di continuo la musica che gli gravita intorno, inserendo senza sosta nuove pubblicazioni o correggendo errori del database. Una “patologia” per cui il management si guarda bene dal cercare una cura. Non bisogna certamente dimenticare i costi di gestione che per un sito come Discogs non sono bassi, ma in questo caso il gioco pare valga abbondantemente la candela. Altra polemica nasce dal fatto che la stragrande maggioranza dei seller usi la piattaforma unicamente come mezzo di commercio, interagendo in modo marginale o nullo sull’organizzazione del database. Chi invece si dedica esclusivamente ai dati ma non è un venditore non ricava niente in cambio, pur svolgendo un’attività da cui sia i seller sia la Zink Media Inc., la società che Kevin Lewandowski ha creato a Beaverton-Hillsdale, Portland, Oregon, ne traggono vantaggio. Volontariato insomma. Alcune informazioni riportate a settembre 2013 dal Beaverton Valley Times in questo articolo potrebbero quindi essere messe in discussione, visto che molti clienti (tra venditori ed acquirenti) hanno un rank come contributor pari a zero. Lewandowski corre ai ripari dichiarando che «Se ci fosse un riconoscimento economico in tanti si farebbero avanti solo per guadagnare denaro non preoccupandosi della qualità delle informazioni». In passato, per stabilire più equità, qualcuno ha proposto di rendere possibile la vendita solo agli user virtuosi ma questa soluzione si sarebbe rivelata più che infausta perché avrebbe impedito ad un numero immenso di utenti di vendere la propria merce, assottigliando gli introiti dello stesso Discogs. Però, è bene sottolinearlo, se fosse per quei seller pigri e strafottenti interessati a Discogs solo per vendere e lucrare, il database sarebbe già morto e sepolto. Chi invece impegna tempo ed energie ma non ha nulla da vendere si ritrova con un bel pugno di mosche in mano, zero soldi in tasca e nessuna gratificazione, se non quelle legate alla community stessa. Nel corso degli anni più di qualcuno, accortosi di questo sistema che pecca di parzialità e favorisce i meno meritevoli, ha preferito chiudere il proprio account.
Regole ferree, ordine e rispetto della community
Torniamo al database, finalità con cui Discogs è nato e per cui viene adoperato giornalmente da un numero esagerato di utenti, tra giornalisti, DJ, compositori, musicisti, negozianti, titolari di case discografiche, editori, distributori, bootleghisti (che individuano i pezzi più vantaggiosi da ristampare) e semplici curiosi, ma pure fotografi/designer che apprendono come le proprie opere siano state indebitamente usate per copertine di dischi o artisti che scoprono, dopo anni, come il proprio brano sia stato licenziato a loro insaputa da discografici sleali e sia stato ristampato in Brasile, Uruguay o Giappone o finito in compilation commercializzate nelle Filippine o a Singapore, o magari campionato senza autorizzazione in Russia. Insomma, il lavoro di utenti volontari, provenienti da ogni parte del mondo, rende possibile una sempre più precisa, dettagliata ed aggiornata gamma di informazioni che difficilmente emergerebbero in altri contesti. Come prima accennato, Discogs è regolamentato da linee guida a cui bisogna fare riferimento, sempre e in ogni caso, seppur talvolta possano creare controversie per differenti interpretazioni. Ignorare le regole significa non rispettare i criteri di quella piattaforma e non voler essere collaborativi nei confronti della stessa community. Per i contributor che rifiutano sistematicamente di seguire le regole e che, a causa di voti negativi, non raggiungono una soglia minima di rank, si aprono le porte del CIP (Contributor Improvement Program), una sorta di “lista nera” che limita le azioni dell’account incriminato sino a quando si otterrà un certo valore di rank con voti positivi. In media il CIP ingloba cinque nuovi account al giorno, alcuni dei quali non riusciranno più ad uscirne. Qualcuno prova ad eluderlo creando un nuovo account ma rischiando la sospensione di ogni attività. Nel 2014 un tale arrivò a creare ben sei account diversi nella speranza di passare inosservato e supportare i suoi stessi errori, ma non gli andò bene perché il management lo scoprì grazie alle segnalazioni di altri utenti. Certi user lamentano l’intolleranza, la scarsa comunicatività, la pedanteria e l’intransigenza dei voter, ma in egual misura si registra un netto menefreghismo di tanti submitter che hanno poca voglia di imparare da chi ha più esperienza. Nei casi più gravi, in cui ci si lascia andare a turpiloqui o ripetute operazioni erronee, il management può sospendere l’utente, bannarlo, o togliere (temporaneamente o permanentemente) la facoltà di voto al voter coinvolto.
Le stramberie dei contributor/artisti
È davvero impossibile tener traccia di tutte le “battle” sparse sulle migliaia di submission board o nei thread del forum, spesso innescate da utenti che nel contempo sono artisti (cantanti, DJ, musicisti, etc) intenti nel “correggere” quanto riportato nel database. Alcune meritano di essere ricordate per particolari ragioni, come quella in cui un compositore intendeva rimuovere un disco in cui era coinvolto come remixer perché, a suo dire, la sua versione «era solo un demo e nulla di professionale», o quella in cui un DJ chiedeva sia di rimuovere ogni informazione dal profilo «per rispecchiare fedelmente la sua estetica minimal», sia di eliminare un suo alias, da lui stesso giudicato «non artisticamente valido e non più in uso». Curioso anche il caso in cui un francese desiderava cancellare il suo nome in virtù di una presunta violazione della privacy, ma ignorando come le proprie coordinate anagrafiche fossero già finite, per giunta col suo benestare, su diverse pubblicazioni. Analogamente un portoghese ha vandalizzato ripetutamente il profilo di un DJ della sua etichetta, reo di aver svelato la paternità di un progetto che invece doveva restare anonimo. A dare in pasto quel nome allo spider di Google, comicamente, fu la stessa etichetta, per un presunto errore. Aggiornamenti rifiutati ed account finito nel CIP. Chi desidera mantenere l’anonimato, dunque, lo decida subito, perché una volta diventato di dominio pubblico Discogs non cancellerà il nome per un semplice capriccio. Ancor più stramba la posizione assunta da un tedesco che ha fatto invanamente appello alla Direttiva 95/46/CE del Parlamento europeo, relativa alla tutela delle persone fisiche con riguardo al trattamento dei dati personali. Ci sono anche quelli che tentano, ma con risultati nulli, di “sganciare” dalla pagina del proprio nome varie pubblicazioni o persino intere discografie riconducibili a pseudonimi adoperati in passato. Se è vero che un brano è, per un artista, come un figlio, che tipo di artista è chi vuole disconoscere la paternità di alcune delle proprie opere? E per quale motivo? Pare che alcuni artisti siano fortemente indispettiti dal fatto che Discogs elenchi tutti gli alias, talvolta rivelando identità che, nell’era della globalizzazione, si vorrebbero tenere nascoste. È bellissimo però scoprire come certi (tipo Ingmar Veeck, Uwe Schmidt, Torsten Stenzel, Gregory Dewindt, Danny Wolfers, Richard H. Kirk, Rick van Breugel, Marc Trauner e il compianto Severo Lombardoni) abbiano intenzionalmente pubblicato la propria musica attraverso un numero spropositato di pseudonimi o progetti condivisi con altri, o come certi abbiano preferito trincerarsi dietro sigle (Federico Monti Arduini alias Il Guardiano Del Faro si firmava spesso con l’acronimo Arfemo) o come il nome di alcuni sia cambiato per ragioni di varia natura (nel 1963 i Beatles sbarcano in Argentina come Los Grillos, negli anni Ottanta il nostro Raf fu costretto ad aggiungere una f sulle incisioni destinate alla Germania ed evitare l’omonimia col gruppo terroristico tedesco RAF (Rote Armee Fraktion), i belgi Glimmer Twins sono diventati The Glimmers forzati da Mick Jagger e Keith Richards dei Rolling Stones che avevano coniato per primi quel nome, i Pan Sonic nacquero come Panasonic ma furono obbligati a modificarlo perché infrangeva il copyright del marchio nipponico, e per ragioni simili Moulinex è diventato Moullinex e gli Hoover Hooverphonic).
Talvolta entra in ballo pure la coerenza (o meglio, l’incoerenza) di chi online predica la solfa dell'”only vinyl” ma poi, sotto sotto, cede al digitale. Così, dopo aver tentato senza risultati di “sopprimere” le proprie pubblicazioni in formato liquido, un utente ha trovato rimedio inventandosi 12″ white label promozionali di quelle stesse pubblicazioni, per dimostrare (a chi?) di essere un fedele sostenitore del vinile e di non essersi mai “abbassato” all’impurezza del vile MP3. Da citare anche chi, in seguito a litigi con vecchi soci o partner in affari/vita privata, ha provato a cancellare i crediti del nemico, per poi ritrovarsi inesorabilmente confinato nel CIP. Singolare anche il caso di un artista che, qualche anno fa, spiegò di essere stato raggirato da un discografico che non rispettò le clausole contrattuali. Per questa ragione intendeva cancellare ogni tipo di connessione con la sua etichetta, provando a rimuovere una serie di pubblicazioni. L’operazione naturalmente non andò a buon fine. Qualche mese dopo si rifece vivo e riprovò, certo di ottenere risultati perché nel frattempo era riuscito a spuntarla con vari negozi online che avevano acconsentito al takedown dei suoi brani. La richiesta di rimozione adesso era accompagnata dalla non disponibilità, ma ciò è completamente irrilevante ai fini di Discogs: a cosa servirebbe il database se dovessero essere rimossi tutti quei dischi/CD/cassette/file non più in vendita nei negozi?
Strano è bello (e spesso anche costoso)
Discogs cataloga ogni tipo di rilascio e ciò permette di scoprire prodotti assai curiosi pubblicati in ogni parte del mondo. Si segnalano vari box set, come quello a forma di bara di Les Joyaux De La Princesse, quello dei Nirvana limitato ai 500 esemplari, quelli in scatole di legno dei Die Toten Hosen e dei Coil, quelli ricchissimi di Merzbow, The Grateful Dead e Rolling Stones, “Psilotripitaka” dei Nurse With Wound racchiuso in borsa in pelle o la raccolta “Sombrero” de Il Discotto, in piccoli astucci bottonati. Altrettanto quotati sono “Analord 10” di Aphex Twin, “Methane Sea” dell’ex Cybotron Richard Davis, ristampato proprio in questi giorni, “Dentro Me” dei Dietro Noi Deserto, la raccolta dei Concept 1 di Richie Hawtin, i misconosciuti libanesi Ferkat Al Ard, “Erotica” di Madonna con tanto di manette allegate, la “scatola parlante” messa in circolazione dalla R&S nel 1992 per il quarto volume di “In Order To Dance”, e la trilogia degli “Z Record” di Underground Resistance, blu, rosso e verde.
Poi ci sono i vinili shaped, come “Duel” dei Propaganda, “Peter Gunn” di The Art Of Noise e “You Take Me Up” di Thompson Twins. In ambito dance ben noti sono quelli a dente di sega di Steve Stoll (come “Elastic”) e “Joyrex J9” di Caustic Window. Dischi quadrati, rettangolari o pentagonali finiscono con l’essere quasi banali.
Scavare nei meandri di Discogs permette anche di scoprire artisti ignorati nelle canoniche ricostruzioni storiche, come il canadese Bruce Haack e le sue canzoni robotiche pre-Kraftwerk, di accedere alla discografia del criminale Charles Manson e di Adolf Hitler, di rinvenire omonimie come quella che riguarda gli australiani Cybotron creati da Steve Maxwell Von Braund nel 1976, da non confondere con i più frequentemente nominati Cybotron nati a Detroit nel 1981, di individuare artisti tendenzialmente poco vicini al mondo della musica come Alessandra Mussolini, I Puffi, He-Man e i dominatori dell’universo o Topolino e di accertarsi come Little Tony, una trentina di anni fa, sia stato un “robot”.
Emergono anche nomi censurabili come Il Mestruo Delle Puttane ed impronunciabili come ‹br›GoQQAFFggfg??n????g___|<< […] o 3.141592653589793238462643, e progetti che sfiorano la follia, come quello dell’ucraino Graphic Standart della durata di 100.000 ore. Usandolo con criterio, insomma, si può accrescere il proprio bagaglio culturale ed entrare in contatto con cose piuttosto inquietanti, come il picture “Loss” di Bass Communion, le copertine dell’etichetta brasiliana Black Hole Productions e la discografia degli olandesi Stalaggh, decisamente da evitare per i più impressionabili.
Ogni cosa al suo posto
Così come è possibile trovare la stessa pubblicazione in diversi formati (12″, 7″, picture disc, disco colorato, CD, CDr, white label, cassetta, etc) o con variazioni (copertina diversa, colore dell’etichetta differente, ristampa, bootleg, differenze nei crediti, errori tipografici etc) sarà altrettanto possibile rintracciare i formati digitali dello stesso prodotto. Pertanto ogni versione (MP3 a 320 kbps, MP3 a 256 kbps, WAV, AIFF, FLAC, etc) dovrà essere inserita individualmente, per poi essere raggruppata con la già descritta Master Release. Uno degli errori più frequenti è commesso da chi considera Discogs una sorta di webstore su cui inserire il proprio prodotto e poi elencare i formati disponibili. Nulla di più errato. Non è raro infatti che la versione in digitale annoveri una o più tracce in più rispetto a quella del vinile, così come capita che esistano edizioni uguali ma edite con artwork differenti. Proprio di recente è capitato che un artista abbia illecitamente cambiato il formato di una delle sue release: dall’MP3 in 320 kbps è passato al 12″, giustificando l’inesigibile operazione con tali parole: «A nessuno interessa catalogare i file digitali!». Si è guadagnato il CIP a tempo di record. Quando si entra nel mondo di Discogs bisogna abbandonare ogni pregiudizio. Anche le regole sulle immagini sono categoriche: devono rappresentare esattamente il prodotto descritto, quindi è vietato confondere l’artwork dell’MP3 col quello del vinile, o mettere la copertina del CD ufficiale al posto di quella del CDr promozionale. Di tanto in tanto salta fuori qualche buontempone che sostituisce le immagini con quelle dei propri prodotti messi in vendita, come nelle aste su eBay, pensando di riuscire ad attirare l’attenzione di eventuali compratori, ricorrendo persino a copie autografate per giustificare un prezzo più alto ma naturalmente senza alcun certificato che ne attesti l’autenticità. Le immagini su Discogs sono generiche, le condizioni dell’oggetto vanno descritte altrove, in un apposito form destinato al marketplace.
Regole uguali per tutti
Essere l’artista, il remixer, il label manager o aver ricoperto qualsiasi altro ruolo nella release che si intende modificare o inserire, non garantisce alcun trattamento di favore. In altri termini: non è possibile considerare Discogs un’estensione del proprio sito web, blog o pagina/canale social. Non si hanno privilegi o particolari diritti in quanto coinvolti, le regole sono le stesse per tutti, artisti compresi, sbigottiti quando vedono cancellati i propri profili gonfi di ego e frutto di copy and paste delle biografie (talvolta improbabili e ridicole) sparse su internet, per giunta in più lingue. Merita menzione il caso di un greco che, nel 2011, decise di modificare tutti i numeri di catalogo dei dischi della sua etichetta, al fine di creare conformità con gli altri elencati sulla pagina, oltre a sostituire le fotografie di tutti i 12″ con immagini digitali, a suo giudizio più belle da vedere. Ne nacque un ping pong con diversi voter che, legittimamente, gli fecero notare come nessuna di quelle azioni fosse consentita. Sicuro di aver ragione in quanto proprietario dell’etichetta, scrisse commenti durissimi, arroganti, pieni di ingiurie e minacciò di morte chi aveva osato mettersi contro. L’epilogo lo vide chiaramente colpevole. Bannato. Tra gli interventi più assurdi si annovera anche quello di un utente che desiderava inserire la propria discografia nel profilo, dimostrando di non aver compreso affatto la modalità con cui Discogs cataloga la musica, e quello di un artista che invece pretendeva di essere avvisato via email dai membri della community per ogni tipo di cambiamento relativo al suo profilo e discografia, ipotizzandone una presunta “proprietà”. Non manca chi inserisce compilation in forma parziale, segnalando solo la propria traccia, proprio come se stesse scrivendo un post sulla Pagina Facebook personale. Non esiste neanche un grado di “importanza” nei casi di omonimia. Il nome senza appendice numerica (modalità adottata dal sistema per i casi di artisti/etichette col medesimo nome) spetta di diritto a chi ha creato per primo la rispettiva pagina, anche se sconosciuto e con appena un’uscita all’attivo. Mai accontentati, quindi, tutti quelli che tentano di spostare dati per ottenere una più veloce rintracciabilità col motore di ricerca interno. Se il vostro nome è Maria, John o Tom, giusto per citare alcune delle frequentissime omonimie, finirete in coda. First-come, first-served.
La meticolosità che fa la differenza
La pignoleria ha fatto di Discogs un database unico al mondo. Talvolta un trattino, una virgola, uno spazio in più o in meno nei runout o nel numero di catalogo può aver rilievo e giustificare un nuovo inserimento. Per sottolineare l’attenzione ai dettagli, torna utile evidenziare una delle discussioni più recenti in merito all’ultimo album di David Bowie. Come riportare il titolo “Blackstar” se in copertina appare solo una stella nera? Si è giunti a questo compromesso. Nel tempo Discogs ha conquistato una sempre più forte e radicale autorevolezza, tanto che ci si fida quasi ciecamente di quel che si ritrova scritto sopra che però non sempre corrisponde al vero. Anni addietro un’erronea interpretazione di un nome su un disco mise in relazione un musicista ed un progetto synthpop, ma tra loro non c’era mai stato alcun contatto. Tempo dopo un’etichetta ristampò quel disco e, affidandosi a Discogs, tra i credit in copertina mise proprio il nome di quel musicista. Insomma, si stava ufficializzando un errore. Ci sono voluti altri due anni prima che qualcuno si accorgesse dell’inghippo, chiarendo una volta per tutte l’intricata vicenda.
Sempre più smart
Discogs continua ad arricchire il proprio sistema con nuove ed intelligenti funzionalità. Tra le più adoperate, quella che permette di stilare la lista della propria collezione (e dare ad essa una stima economica in base ai valori del marketplace) e quella del materiale che si vorrebbe acquistare, con tanto di messaggistica che avvisa quando il prodotto è disponibile, esattamente come avviene su un normale web shop. Utilizzatissima è pure quella con cui si può raggruppare musica inventando un criterio di ricerca: copertine fumettate, con sensualità e nudità, con banane, con supereroi, con cartoni animati e personaggi di fantasia. Ed ancora: pornostar, premi Nobel in letteratura, brani con vocoder, brani legati ai robot e brani inglesi di musica acid. Tra le liste più curiose quelle delle copertine censurate, delle diverse etnie del mondo, delle etichette e band con concept più singolari e degli strumenti/giocattoli accreditati come artisti. Insomma, il limite è fissato solo dalla fantasia.
Altre curiosità? Sinora in database c’è un solo cilindro di gommalacca da 35 centimetri, edito dalla Pathé del 1911, figurano appena quattro dischi in azonto (stile proveniente dal Ghana), i Paesi con meno pubblicazioni all’attivo (appena una) sono le Isole Marshall, Sudan del Sud, Gibuti e Gibilterra, e la registrazione più vecchia è relativa ai dieci secondi “al chiaro di luna” di Édouard-Léon Scott De Martinville, dell’aprile 1860.
Un passato da catalogare
Partendo dal concetto di catalogazione di Discogs, negli ultimi anni Lewandowski ha varato piattaforme simili con cui si prefigge di coprire altri segmenti come quello dei film, di apparecchiature audio, dei fumetti e dei libri, rispettivamente rappresentati da Filmogs, Gearogs, Comicogs e Bibliogs. Immancabile l’attenzione rivolta ai negozi di dischi, con VinylHub, nato con l’ambizioso intento di elencare tutti i record shop (e gli eventi legati a questo formato) del mondo. In un futuro prossimo qualcuno potrebbe creare piattaforme analoghe per giocattoli, telefoni cellulari, manifesti pubblicitari, capi di abbigliamento, sneaker (a dire il vero qualcuno ci aveva già pensato qualche anno fa, vedi Sneakerpedia, ma pare che il progetto sia naufragato), orologi, francobolli e migliaia di altri oggetti, “databasizzando” il passato come mai accaduto prima d’ora. Ma tutto quel che c’è stato merita davvero di essere catalogato?
Sotto gli occhi del mondo
La popolarità di Discogs continua a crescere e proprio recentemente il New York Times ha dedicato ad esso un articolo. Non manca il merchandising ufficiale che oltre a solite t-shirt, felpe ed adesivi, annovera slipmat, stabilizzatore per vinile e cassetta portadischi. Annunciata già da qualche mese è anche l’app ufficiale, realizzata in collaborazione con MilkCrate sia per iOS che Android.
Con 45 dipendenti sparsi per il mondo, 20 milioni di visite mensili (nel 2001 erano circa 6000), quasi 7 milioni di release catalogate, più di 3 milioni di utenti registrati, oltre 270.000 contributor, oltre 230.000 fan su Facebook, oltre 30.000 follower su Twitter, quasi 37.000 seguaci su Instagram ed una presunta offerta (declinata) proveniente da Google interessato a rilevare la sua creatura, Kevin Lewandowski si è assicurato un posto ad aeternum nella storia di internet e della musica.