Tycho, alias Scott Hansen, assomiglia alla musica che fa. E questo, credeteci, è davvero il migliore dei complimenti. Colto, raffinato, educatissimo, ma al tempo stesso anche estremamente semplice, alla mano ed amichevole. Ci siamo concessi una chiacchierata con lui – è una conoscenza di lunga data, avendogli fatto più volte da responsabile di produzione per alcune date italiane in passato – con la scusa dell’uscita in questi giorni del suo nuovo lavoro, “Weather”. Album che non mancherà di presentare dal vivo anche dalle nostre parti, con due date a febbraio 2020 a Milano e Bologna; album che segna anche un cambio di rotta, con la presenza di una cantante vera e propria in almeno metà dei brani (si tratta di Saint Sinner, alias Hannah Cottrell), e che rappresenta anche il primo passo dopo la fine della “trilogia” che lo ha consacrato, rendendolo uno di quegli artisti dal successo quieto, non chiassoso, ma davvero consistente ed appassionato.
E insomma Scott, ti ricordi la prima volta che ci incontrammo, anno 2012? Fu quella data al Magnolia, a Milano…
Oh sì, il posto vicino all’aeroporto, giusto?
Esatto. L’aeroporto di Linate.
Bello, quel club! Molto bello. Fu una data molto interessante, me la ricordo ancora bene.
Suonavi nella parte indoor, in quella che oggi è la sala piccola, e ti dirò – all’epoca fu una sorpresa che per te, in una data infrasettimanale, si fossero presentati addirittura in 200. Non se l’aspettava nessuno. Che a dirlo oggi fa un po’ ridere, no? Oggi 200 persone sarebbero disastro e fallimento…
(ride, NdI) Oddio, non so quanto siamo popolari oggi a Milano, però sì, diciamo che un po’ di più di 200 persone oggi dovremmo attirarle…
La tua è stata davvero una ascesa verticale.
In effetti in Italia e in generale in Europa abbiamo dovuto fare una strada abbastanza lunga prima di arrivare a farci conoscere ed apprezzare da un buon numero di persone. In America, nel nostro paese, è stato più facile: il successo è arrivato prima. Era normale per noi arrivare in Europa e, all’inizio, avere davvero un pubblico molto esiguo – ma non per questo meno meritevole, educato ed appassionato, anzi! In realtà pure negli Stati Uniti c’è una caratteristica precisa che ci ha accompagnato: la mia musica ha sempre avuto bisogno di tempo, per farsi apprezzare. Non ho avuto mai botti improvvisi, è stata una crescita costante, progressiva. Non è casuale, penso. C’è un motivo.
Quale?
Credo che la mia musica abbia una forte componente esperienziale: lì per lì non te rendi conto, ma ad un certo punto ti accorgi che è diventata la colonna sonora di un viaggio che hai fatto, o di un momento importante della tua vita. Se ascolti la mia musica, non vieni troppo colpito al primo ascolto. Funziono sul lungo periodo. Vengo fuori alla distanza. Se vengo fuori, naturalmente!
Eccome se vieni fuori.
Ma fammi dire un’altra cosa sull’Europa.
Vai.
In America non solo fin dall’inizio siamo partiti da un livello un po’ più alto, ma diciamo che sempre fin dall’inizio era abbastanza chiaro come il nostro fosse un progetto live, da band vera e propria. In Europa, no. In Europa ogni volta, nelle prime date, l’impressione era che il promoter locale si aspettasse un dj set. Per loro Tycho era un dj, uno da bookare per far ballare la gente stando dietro ad una console, uno che fa techno, house.
Spezzo una lancia a favore del promoter avventato: eri pur sempre uno che usciva su Ghostly, l’etichetta di Matthew Dear…
…e all’inizio in effetti il live di Tycho ero solo io con un laptop, aggiungiamo pure questo.
Ecco, l’hai detto tu.
Però dai, se uno ascoltava il disco un po’ si rendeva conto che non era propriamente un act techno, no? Sta di fatto che quasi tutte le prime date in Europa sono state in club: situazioni bislacche, arrivandoci con tutta la band dovevamo fare i salti mortali per riuscire a stiparci tutti quanti, con gli strumenti, sul palco, lì quando il palco era essenzialmente la console del dj. Eravamo ridicoli da vedere, davvero! Praticamente sembravamo un incidente stradale! Non solo: appena finivamo di suonare, arrivava il buttafuori a dirci “Ehi, voi non potete restare qui, levatevi dalle palle, ora tocca ad un altro” con ancora tutti gli strumenti da smontare e portare via…
Quanto è difficile tradurre live la tua musica? Perché comunque quello che fai nasce nasce da te e nasce da un laptop, no?
Non esattamente. La maggior parte di quello che scrivo, da molti anni a questa parte, nasce da prove su una chitarra o su una tastiera; l’unica parte che è invece generata sin dall’inizio su laptop è la ritmica. Quello che è realmente difficile, nel costruire i miei live con la band, è rappresentare nel modo più corretto i suoni che ho in testa: io infatti uso tantissimi effetti, non facile trovare il giusto equilibrio per mantenere la suggestione ed evitare una caotica saturazione.
E’ un processo che ti porta via molto tempo, in sede di lavoro preparatorio ad un tour?
Parecchio. Alcuni mesi.
Stavolta però, visto che è il tour che segue l’uscita di “Weather”, forse il lavoro sarà un po’ diverso: perché l’album che hai fatto uscire quest’anno è davvero più “tradizionale” e legato al songwriting fra tutto ciò che hai fatto finora, in qualche maniera ti sei normalizzato e il focus non è più solo sui suoni e sulla parte strumentale.
Però resto molto meticoloso per quanto riguarda la resa della parte strumentale… In realtà non è cambiato molto, resto il solito pedante perfezionista.
“Weather” è pure il disco che, per certi versi, è una nuova partenza. “Dive”, “Awake” ed “Epoch” infatti, l’avevi dichiarato tu stesso, erano parte di una trilogia. Ora sei uscito da questa, come dire?, cornice obbligata.
Su questa cosa della trilogia un po’ c’ho marciato sopra: era divertente provare a “forzare”, e addirittura prefigurare un collegamento dinamico ed intenzionale fra i dischi precedenti… La verità comunque è che io in questo paio d’anni ho lavorato ad un sacco di musica: “Weather” è solo una parte di quello che ho prodotto, ma nei miei hard disk ora potresti trovare parecchio materiale decisamente riconducibile a quello della, ehm, “trilogia”. Però sai cosa? Non è mai bello ripetersi troppo a lungo. No? Non credi? Sono contento di essere uscito con una release che, da molti, viene effettivamente percepita come una svolta. Oddio: ho visto gente persino offendersi, perché ho smesso di fare solo musica strumentale e mi sono concesso quattro, cinque pezzi più vicini alla forma-canzone più tradizionale. Ma spero che ascoltando e riascoltando alla fine prendano più confidenza con queste tracce “incriminate” e finiscano con l’amare anche loro, come hanno amato – se hanno amato – le mie tracce passate. Poi non nego che mi incuriosisce anche la possibilità di poter raggiungere nuovo pubblico con questa mia nuova fase, ascoltatori magari più abituati a musica con una voce a far da guida e che mai si sarebbero avvicinati a me prima perché non avevano proprio interesse a sentire musica puramente strumentale.
(ecco “Weather”; continua sotto)
Senti, ma se oggi riascolti “Past Is Prologue”, il tuo primissimo esordio, arrivato ben cinque anni prima che iniziasse la “trilogia” che poi ti ha consacrato, che impressioni hai?
Beh, riascoltato oggi mi rendo conto che nel frattempo il mio suono si è molto, molto evoluto, almeno questa è la mia impressione. “Past Is Prologue” era un prototipo, era un flusso anche non ordinatissimo di idee. Detto in modo più schietto: non avevo granché idea di quello che stessi facendo… (risate, NdI). Sai cos’era quel disco? Ero io che, in maniera entusiasta e un po’ scomposta, cercavo di mettermi sulla mappa e cercavo di trovare una “voce”, un mio marchio sonoro. Oh, io quell’album lo amo ancora, sia chiaro. Anzi, la cosa divertente è che la lavorazione fu talmente istintiva ed entusiasta che oggi, se pure ci provassi, non sarei assolutamente in grado di rifarlo, zero, perché molti suoni e molte soluzioni manco mi ricordo come ero riuscito ad arrivarci! “Dive”, invece, l’inizio della “trilolgia”, era molto più coeso, maturo, consapevole: non a caso la sua lavorazione è stata piuttosto lunga.
Ora però mi descrivi anche il seguito della “trilogia”.
“Awake” è stato prendere un live show, perché nel frattempo il nostro assetto da band era maturato pienamente, e provare a metterlo in un album da studio fatto e finito. “Epoch” la sintesi definitiva dei due lavori precedenti. Per certi versi, la fine di un viaggio. E infatti è arrivata poi l’esigenza di ripartire un po’ non dico da zero, ma imprimendo una svolta riconoscibile ed evidente. Per certi versi, “Weather” mi riporta a dove ero, ormai più di dieci anni fa, con “Past Is Prologue”: in territori nuovi che ancora devo esplorare e mappare in maniera compiuta e consapevole. Sarò onesto: quando ho iniziato a lavorarci sopra, io non sapevo precisamente come si faceva a “fare una canzone”, con tanto di parte vocale e testi. E’ stata un’esperienza nuova, per me.
Un’esperienza non nuova ma costante è il fatto che, a lavorare con te nella realizzazione di un concerto, si sta da dio: sei sempre cortese, rilassato, disponibile… una meraviglia. Valeva per quando le due date erano da 200 persone, è rimasto così anche quando le persone qui in Italia sono diventate 2000. Domanda: quanto è difficile gestire il successo crescente, non farsene cambiare?
Ma sai, il nostro successo alla fine è relativo, non siamo e non saremo mai delle pop star: loro sì che hanno una vita che viene completamente scombinata dalla fama, gli piaccia o meno. Noi abbiamo dei fan che ci vedono sullo stesso loro livello, che ci considerano degli amici con cui scambiare quattro chiacchiere: è bello così, e voglio che resti sempre così. L’unica forma di pressione è quella che metti su te stesso, ma credo che questo riguardi qualsiasi artista che un minimo ci tenga a quello che fa. Non è semplice da gestire ma, insomma, devi imparare a farlo, sennò ti bruci o diventi nevrotico. Per il resto ci sentiamo comunque molto fortunati ad essere sempre stati circondati, nell’industria, dalla gente giusta, dal management giusto, tutte persone tranquille ed alla mano che sanno come siamo e ci vogliono bene e rispettano proprio per questo, senza cercare di cambiarci. Nessuno ci ha mai obbligato a fare niente, nessuno ci ha mai messo sotto pressione.
Mmmmh. Eppure sei arrivato addirittura alla nomination ai Grammy Award, e i Grammy sono l’”industria pop” per antonomasia, con tutti i suoi gigantismi e le sue storture.
Sì, vero, siamo arrivati alla nomination ma sai cosa?, eravamo lì e sembravamo veramente gli imbucati, i cugini di campagna finiti di là per caso che nessuno capiva come diavolo fossero finiti in mezzo a quella premiazione! Oh, erano tutti gentili: “Ma dai, che simpatici ‘sti ragazzi, chissà che fanno, chissà come mai sono qui…”. Quando siamo passati per il tappeto rosso, per fare ingresso nel luogo della cerimonia, i fotografi non c’hanno filato manco di pezza: probabilmente pensavano fossimo tipo i camerieri che andavano a prendere servizio nelle cucine. Quando vivi una esperienza così non c’è il minimo rischio che tu possa montarti la testa, credimi… (risate, NdI)
Invece: tu sei molto legato al Burning Man. Senti, è un festival che si sta commercializzando?
Ecco, già il fatto che lo chiami “festival” – e ti capisco! – la dice lunga… Il Burning Man nasce come un’esperienza unica e particolare, non come un “festival”, anzi, ad essi dovrebbe essere completamente antitetico. Io ho iniziato ad andarci molti, molti anni fa, quando mi sono spostato da San Francisco a Sacramento: ma già lì, quando c’ho messo piede, ho beccato alcuni veterani che mi dicevano con aria addolorata “Eh, sapessi com’era un tempo, ora qua si è banalizzato tutto…”. Sono dieci anni che ci vado e sì, adesso sono io il veterano che se becca qualcuno che ci arriva per la prima volta inizia a dire la stessa identica cosa… Sai qual è la verità? Di sicuro, anche oggi se ci vai per la prima volta per te sarà una esperienza fantastica, incredibile, imprevedibile. Sì. Chiaro che oramai c’è una certa tendenza a copiare un certo tipo di dinamiche tradizionali. Ci sono le schedule con le esibizioni degli artisti, la gente non vene più solo per l’esperienza ma perché vuole sentire questo e quello e sa esattamente dove trovarlo, a che ora e in che posto, come appunto fosse un festival normale. Innegabile: tutto ciò va contro il DNA originario del Burning Man, che invece era effettivamente tutto incentrato sul flusso, sulla scoperta, sulla sorpresa, sull’ignoto. Però che ti devo dire? Se vuoi andare al Burning Man essenzialmente per andare a sentirci Skrillex che suona su un giga-palco perché diavolo dovrei mettermi lì a guastarti la festa? Cosa c’è di sbagliato in quello che fai? Per fortuna, c’è ancora molto spazio per chi invece vuole godersi il festival alla “vecchia maniera”.
A proposito di godersi uno show: qual è la venue ideale, per apprezzare al 100% un tuo live?
Un teatro, credo. Quelli vecchio stile.
Con la gente seduta, quindi?
No, no: hai presente quei teatri dove comunque in platea puoi togliere le sedie? Così puoi scegliere: puoi stare seduto nei palchetti e sul loggione ed abbandonarti alla musica, puoi invece muoverti, o puoi anche sdraiarti… Però i teatri, per come sono fatti e col fatto che hai sempre una grande parete chiusa dietro di te su cui poter proiettare i visuals, permettono davvero di dare vita a quella “atmosfera cinematica” che credo sia il modo migliore per fruire la mia musica… o almeno a me piace pensare sia così. Per me un live deve essere una esperienza immersiva. Immersiva davvero.
Cosa c’è nei tuoi ascolti? Curiosità: c’è anche musica lo-fi, dissonante, urticante, insomma radicalmente diversa rispetto a quello che fai?
A me piace molto ascoltare, prima di tutto, musica che è prodotta bene dal punto di vista tecnico. Non sto tanto a dare attenzione a melodie, armonie, eccetera, sono invece ossessionato dal fattore tecnico. Capisco che non ci faccio bella figura a dirlo, sembro uno un minimo un po’ strano, per non dire di peggio. Ma è così. Non che voglia sottovalutare l’importanza di melodie, armonie, delle emozioni: anzi, sono tutte cose che cerco di non far mancare mai in quello che produco. Che poi attenzione, per fare qualcosa di “fatto bene tecnicamente” – secondo i miei canoni – non è che per forza devi avere un budget sconfinato. Puoi fare qualcosa di stupendo ed interessantissimo dal punto di vista tecnico anche usando mezzi molto poveri, ad esempio credo che Ariel Pink sia eccezionale in questo. Quello che crea è incredibilmente sofisticato, suggestivo, psichedelico.
Ma il mondo del pop mainstream, oggi, è interessante? Lì di certo non si lesina coi mezzi.
Sì, io lo trovo interessante. C’è gente che produce in maniera incredibile. Vuoi qualche esempio? “Talk” di Khalid per me è incredibile. O quello che fanno i Disclousure. In generale, quando il pop riesce a flirtare con la sperimentazione pur restando ovviamente pop a me interessa sempre molto. Trovo sia parecchio interessante anche la musica urban contemporanea: è indubbiamente molto pop, ma ha sempre qualcosa che “risuona” in maniera strana. In generale ti posso dire che parecchie soluzioni underground, “di nicchia”, sono entrate nel pop come mai in passato: oggi accendo la radio, e non è raro sentire su una stazione commerciale tracce che prendono di peso certe soluzioni che potevi sentire sui dischi di Caribou del 2002.
Domanda finale: non ti chiedo qual è il tuo musicista preferito, ti chiedo invece qual è quello più simpatico.
Rob Garza dei Thievery Corporation. Ci siamo conosciuti quando si era spostato a San Francisco, siamo subito diventati amici e lui è… un grande. Lo sarebbe anche se non fosse un musicista. Invece era pure, allora come adesso, uno dei miei musicisti preferiti! All’inizio ero quasi incredulo di averlo conosciuto, ero davvero un fan… Sai come si dice: “Ma pensa, sembra una persona normale”. Beh, lui lo era e lo è davvero!