La premessa è che il cuore di tutto dovrebbe essere l’evento sportivo; ma il Super Bowl, da tempo immemore, con la classica abilità degli americani a fare marketing su qualsiasi cosa è riuscito a far diventare una entità a sé stante anche lo spazio di tempo da riempire nell’intervallo tra prima e seconda metà dell’evento agonistico. Già: l’Halftime Show ormai è una categoria a sé. E quello di quest’anno ha fatto parlare abbastanza. Di sicuro è stato meglio di quello, loffissimo, con The Weeknd, ma quando ci si renderà conto che The Weeknd è una delle parabole più inutili nella musica dell’ultimo decennio sarà sempre troppo tardi.
Ma quest’anno era diverso. Perché quest’anno si era a Los Angeles, città iconica per eccellenza, in un impianto avveniristico e nuovo di zecca, con una delle due squadre finaliste – i Rams – che era proprio di LA; e si è calcato la mano su tutto questo andando ad appaltare lo show all’intervallo a un signore che è nato e cresciuto a meno di dieci minuti di macchina (unità di misura minima, a Los Angeles: è come dire “sotto casa”) dal SoFi Stadium, il luogo della finale.
Il signore in questione è Dr. Dre. Che ha fatto un lavoro notevole, dal suo punto di vista: ha radunato Snoop, Mary J. Blige, Eminem, Kendrick Lamar, Anderson .Paak, 50 Cent e tutta una schiera di professionisti di livello siderale (dai ballerini agli strumentisti), per uno show che celebra – fin dalla scenografia – la storia dell’hip hop vista attraverso la sua personalissima lente. Nella mia personalissima bolla di Facebook, l’entusiasmo è stato straripante (con vetta assoluta per il momento, effettivamente significativo, in cui il bianco Eminem è andato ad inginocchiarsi sul palco, diretta reference al gesto di Colin Kaepernick simbolo assoluto contemporaneo per la lotta al razzismo ed alle discriminazioni contro gli afroamericani). Ma c’è stata anche qualche eccezione. Che annovera pure chi vi scrive queste righe. Intanto, eccolo qua, lo show.
La prima notazione è puramente tecnica: per questioni di convenienza televisiva e di fuso orario, l’Halftime Show quest’anno era da svolgersi con la luce del giorno – e questo ha di molto impoverito l’impatto spettacolare, un sacco di giochi di luce non erano utilizzabili o, se utilizzati, magari grazie anche alla particolarità architettonica del SoFi, avevano comunque un impatto a metà rispetto al possibile. La seconda notazione va invece molto al cuore del problema. E sta girando per il web un meme che riassume abbastanza bene la questione:
Ecco: è stato tutto bello, ma vecchio (aka: bello per i vecchi?). Nostalgico. Revivalista. Come quando vedi le band degli anni ’80 esibirsi nei festival-nostalgia pieni di altre band e di altri artisti coevi, e solo di quelli, e ti esalti. Con la notevole e notabile eccezione di Kendrick Lamar, che ha dimostrato di giocare ormai un altro campionato, tutto il resto è stato una rimpatriata bella, ma un po’ museale. Eminem compreso. Perché tra l’altro proprio Eminem, che in teoria era tecnicamente il più bravo di tutti al microfono, è quello che ha offerto l’interpretazione più deficitaria, quello che senza voce pre-registrata a fargli da bordone non sarebbe riuscito a portare a casa la performance. Questo, sinceramente, ci ha fatto un po’ di tristezza.
Anche sulla scenografia e in generale sul “setting” la sensazione è un po’ agrodolce. Perché se da un lato è bello affidarsi proprio all’eroe ed alla cultura “di casa”, è anche vero che l’eroe e la cultura “di casa” ormai vanno consegnati alla storia, con un immaginario che è rimasto fermo agli anni ’90 (per scelta intenzionale: vedi appunto le macchinone decappottabili parcheggiate, vedi i costumi scelti). Ma quello è un problema forse proprio di Los Angeles: una città – l’abbiamo visitata proprio a cavallo di Capodanno, toccando con mano la cosa – che ormai vive iconograficamente di una grandezza passata, che ancora prova a venderti la psichedelia di Venice Beach, lo star system di Hollywood, il tremendismo dell’hip hop West Coast, ma lo fa esattamente come a Venezia si vendono le gondole di plastica Made In China e i cappellini di paglia altrettanto cantonesi: senza crederci manco più, e provando a grattare gli ultimi soldi ai turisti più creduloni e meno smaliziati.
Tolto appunto Lamar, l’Halftime Show di quest’anno è stato più che altro una grande, luccicante celebrazione di un grande futuro – e un significativo presente – ormai davvero dietro le spalle. A partire da Mary J. Blige: che, scusa Mary, ci è parsa veramente poco carismatica nel suo tentativo di riprendersi lo scettro di prima donna del soul, apparendo più buona per un contratto regolare manco a Las Vegas, ma in qualche crociera che salpa dalla Liguria, direttamente dalla nave dove si facevano le esterne durante il festival di Sanremo. L’unico altro che salveremmo – piglio fresco, carisma intatto – è Snoop, perché tanto lui fa il cartone animato di se stesso fin dal giorno uno, però onore al merito nel riuscire a farlo ancora così bene, ancora così in forma e con stile, senza essersi appesantito o farsi troppo macchietta autocelebrativa.
Volendo, è stata comunque tutta una grande ammissione di onestà: tutti hanno fatto se stessi, in questo Halftime Show, e se idealmente sarebbe stato bello vedere Eminem o 50 Cent paracadutati in un contesto iper-contemporaneo come quello studiato da/per Lamar, al tempo stesso sarebbe stato un maquillage probabilmente poco veritiero e posticcio.
La verità è che dobbiamo iniziare a renderci conto che il rap, un certo tipo di rap, quello che in molti considerano il “vero rap”, sta iniziando troppo spesso a diventare niente più che il feticcio della gioventù perduta per un sacco di persone che col rap, l’hip hop, i suoi valori e la sua carica controculturale non hanno più troppo da spartire nella vita reale, se non i bei ricordi dei tempi che furono. Dre che fa se stesso tutto biancovestito è divertente, e verso la sua parabola c’è sostanzialmente solo ammirazione, chiaro; ma oggi il fulcro del suo potere e del suo carisma non è l’arte, è piuttosto il suo fiuto da leader, da imprenditore e da uomo d’affari. All’Halftime di quest’anno si è divertito a fare una rimpatriata, chiamando gli amici per ricordare quanto erano belle le feste “in da club” o sul bordo di una piscina a Malibu. Ma finita la rimpatriata, si torna a pensare alle cose serie.
La verità è che dobbiamo iniziare a renderci conto che il rap, un certo tipo di rap, quello che in molti considerano il “vero rap”, sta iniziando a diventare niente più che il feticcio della gioventù perduta per un sacco di persone che col rap, l’hip hop, i suoi valori e la sua carica controculturale non hanno più troppo da spartire nella vita reale
Si è celebrato insomma il passato, al SoFi Stadium, non il presente, ricordiamocelo mentre ci esaltiamo per l’incidere di “California Love”; e lo si è celebrato in maniera moderatamente spettacolare (esageruma nen) ed intimamente asettica. Ora: forse è ingenuo pretendere da un Halftime Show di offrire il meglio del meglio del qui&ora più affilato, è in fondo pur sempre un momento di mero entertainment di uno degli eventi più nazionalpopolari del globo, va bene; ma sta di fatto che l’hip hop di cui si sono innamorati molti dei quarantenni/cinquantenni che sono andati in delirio per quanto visto a Los Angeles domenica scorsa è un hip hop che – nel fiore dei suoi anni – al Super Bowl non ci sarebbe andato mai e poi mai, e soprattutto – non sarebbe stato manco invitato. Col cazzo che sarebbe stato invitato. Sarebbe stato tenuto alla porta, e pure in malo modo.
Bicchiere mezzo pieno: la NFL finalmente inizia a rendersi conto di quanto terreno ci sia da recuperare, nella sua identità “sociale”. Bicchiere mezzo vuoto: la NFL fiuta il senso dei tempi, appalta al Dre “straight outta Compton” ed a un po’ di divetti hipster l’Halftime Show nell’ultimo periodo per lavarsi un po’ la coscienza, e dimostrare di tenere a certe istanze e di saper essere al passo coi tempi (leggi: esplorare nuove quote di mercato meno tradizionaliste), ma è tutto da capire se questo cambierà davvero l’identità di uno sport dove gli allenatori sono quasi sempre bianchi, i quarterback sono quasi sempre bianchi, la carne da macello nella offensive o defensive line è invece in grande maggioranza rappresentata atleti afroamericani, plastica rappresentazione del ventesimo secolo americano post seconda guerra mondiale in cui tutti sono invitati al banchetto ed ai dividendi, anche i neri, ma con ruoli tuttavia sempre ben definiti e ben separati secondo schemi abbastanza chiari su chi sta sopra e chi sta sotto.
Optiamo comunque per il bicchiere mezzo pieno. Optiamo comunque per il fatto che è bello in ogni caso che l’hip hop abbia avuto finalmente una sua celebrazione nell’evento più “popular” della nazione in cui è nato, in un caposaldo dell’America più conservatrice, tradizionalista e “normale”. Optiamo per la constatazione che se fai un Super Bowl ad Inglewood, è una scelta figa appaltarlo a chi da quelle parti c’è nato. Optiamo per il fatto che chiunque abbia una certa età, a partire da chi vi scrive, è comunque saltato sulla sedia esaltato sentendo certe hit immortali. Optiamo per il fatto che .Paak sorride un sacco e ci dà dentro, e Lamar è bravo un tot, e che Snoop è senza tempo (…e scegliendo le ballerine grassottelle per il suo slot “da party” ha vinto tutto; perché il modello-modellina, stile merce preziosa da esporre, ha fracassato le palle e speriamo prima o poi faccia il suo tempo, nel mondo dello spettacolo).
Ma quel sottile senso di disagio e malinconia che ci ha dato l’Halftime Show di quest’anno comunque ha delle radici, ha dei motivi. In mezzo a tutta l’esaltazione ed ai “Finalmente! Figata!”, c’è stata infatti pure una linea di perplessità, almeno per quanto riguarda chi vi scrive. E’ stata sì la celebrazione dell’hip hop, ma una celebrazione tipo quella che si fa ai grandi attori e grandi performer che sono andati in pensione, o che sono anni ormai che non hanno più nulla di nuovo da dire. Si poteva fare di più, si poteva fare di meglio. Si poteva essere più incisivi. Si poteva dimostrare di essere vivi nel 2022, non solo nel 1992 o 2002. Si poteva.
Per ora però, dai, va bene così.
E comunque: alla NFL sapevano benissimo che Eminem si sarebbe inginocchiato. Anzi, probabilmente lo volevano proprio.