Forse non ve lo ricordate, ma l’anno scorso eravamo messi molto peggio. Con più paure, meno certezze, tantissime incognite. Ci è venuto nitidamente in mente, questo pensiero, ascoltando oggi la presentazione a stampa ed addetti ai lavori dell’edizione 2021 di Time In Jazz, lo storico festival jazz sardo creato ed amorevolmente cresciuto da Paolo Fresu. Ci è venuto in mente perché l’anno scorso proprio Time In Jazz era stato il primo, primissimo festival in Italia ad annunciare “Sì, noi ci saremo, noi andiamo avanti, costi quel che costi, pronti a lottare per esistere – e questo rispettando tutte le norme che sarà necessario rispettare”. E’ stato pure di parola, all’annuncio sono seguiti i fatti – ed una edizione molto riuscita. Ma nel momento in cui quelle parole venivano detto erano, credeteci, un atto di coraggio e quasi di incoscienza: perché veramente si galleggiava nell’ignoto (e, appunto, nessuno si era voluto sbilanciare). Ed era il 28 maggio.
Sì. Il 28 maggio. Oggi, che è l’8 aprile, un anno più tardi, siamo messi comunque meglio. Assolutamente. Si ragiona su protocolli sanitari, vari festival stanno annunciando conferme e svolgimenti effettivi (più all’estero che in Italia, a dire il vero, ma qualcosa c’è anche da noi) e lo stesso Time In Jazz annuncia appunto l’edizione 2021 praticamente fatta e finita (con molte perle, a partire da uno specialissimo omaggio a David Bowie fino ad arrivare al bravissimo Avishai Cohen, giusto per citare due fra i tantissimi act che si svolgeranno dal 7 al 16 agosto). C’è insomma la possibilità di guardare avanti, e di farlo (possibilmente) bene. Con prudenza, con giudizio, ma bene. Si può fare. Ci riesce un festival jazz “nato dal basso” come Time In Jazz, che ruota attorno ad un piccolo paese nel nord non turistico e non costasmeraldico della Sardegna, Berchidda.
Certo, ci riesce per una serie di fattori. Per il carisma immenso del suo deus ex machina. Per una storia ormai più che trentennale, fatta di eccellenze, bellezze e piccoli miracoli. Ci riesce perché comunque è anche sempre stato molto attento alla “sostenibilità”: e sotto questa parola intendiamo tantissime cose, dal rapporto col territorio e con le varie amministrazioni che lo compongono fino alle produzioni a basso impatto ambientale (scegliendo spesso e volentieri luoghi tanto magici quanto atipici e coraggiosi). Non è insomma solo questione di “raccogliere le figurine”: chiamare cioè artisti più o meno amici e più o meno popolari, e aspettare che così le cose si completino da sole. Il modello di Time In Jazz è qualcosa di molto diverso, qualcosa da cui dovremmo prendere esempio tutti.
Si potrebbe per certi versi parlare proprio di un “modello Sardegna”, legato tra l’altro ad una musica non immediatamente popolare e “semplice” come il jazz: dalla nascita, anno 1985, di Ai Confini Tra Sardegna E Jazz (o Sant’Anna Arresi Jazz Festival), la avventurosa “creatura” del compianto Basilio Sulis, passando poi appunto per Time In Jazz (prima edizione nel 1988) arrivando a Musica Sulle Bocche, rassegna arrivata al ventennale, o anche a Isole Che Parlano (…e l’elenco non è nemmeno esaustivo). Si tratta di eventi che non accettano particolari compromessi nella scelta artistica, che cercano location particolari, che fortissimamente vogliono “percorrere” il territorio, che non vogliono eventi giganti attira-folle ma preferiscono essere un pulviscolo di scintille. Insomma, qualcosa di molto diverso del grande festival calato dall’alto pensato e voluto dall’amministrazione di una grande città e/o da una serie di sponsor e/o da una serie di promoter potenti a livello nazionale ed internazionale, e che si regge (quasi) solo sui grandi numeri e sulla massima amplificazione di popolarità. E’ una soluzione diversa quella sarda “jazzistica”, davvero, e si basa soprattutto sul concetto di “network”: in primis ma davvero in primis quello degli appassionati di un determinato genere musicale (…quando una passione è forte, poi può appassionare ed incuriosire anche i meno appassionati, e magari conquistarli); poi, quello del territorio geografico, sociale, micro-politico.
Un modello bello e poetico, che siamo tutti felicissimi sia sopravvissuto anche quando le dinamiche di mercato parevano andare sempre più in direzione opposta (perché così era); un modello che oggi, in questa lenta convalescenza dalla pandemia per tutto ciò che è eventi e spettacolo, potrebbe e dovrebbe più che mai essere particolarmente importante e strategico per tutti, forse più di qualsiasi altro modello. E’ un invito chiaro quello che facciamo a chiunque si occupi di musica elettronica, per quest’estate, ma anche a chi si occupa di musica ed eventi in generale: facciamocene ispirare.
Soprattutto per quanto riguarda la musica elettronica e clubbing, che qui su Soundwall si sa sono la prima ragione sociale: ehi, non abbiamo appena passato un anno e mezzo a dancefloor chiusi, a musica sempre più da ascolto, ad artisti “da pista” che decidono di cimentarsi con cose downbeat se non addirittura ambient? Pensiamo a cosa ci raccontava Sam Paganini, l’anno scorso a pandemia da poco iniziata, o quanto ci hanno raccontato recentemente Cosmo e Splendore in una avvincente chiacchierata piena di spunti preziosi. Pensiamo a tutti gli artisti e promoter “nostri” che si sono interrogati sul senso delle cose, sulla sostenibilità degli eventi. Pensiamo a tutto questo. Pensiamo a come un certo tipo di modello si era già riusciti ad elaborarlo, una specificità felicemente italiana: quello di Dancity o di FAT FAT FAT o di Jazz:Re:Found, festival raffinatissimi come scelte artistiche ma estremamente legati ad una dimensione quasi “artigianale” di territorio e di rapporto con esso.
Più eventi diffusi. Più coraggio nelle scelte artistiche. Più eventi “nobili”. Più responsabilità sociale. Meno divertimentificio di massa. Più cura nei particolari
Questo non significa che chi è “grande” ed opera nei mercati “grandi” (o comunque punta ad essi) non debba avere cittadinanza, pensiamo ad esempio alle Star Wars romagnole coi grandi attori (Musica Riccione, Villa Delle Rose e ormai anche il rinato Cocoricò) che si contendono a suon di rialzi i “soliti” nomi. La loro presenza comunque è un impulso forte, importante, fondamentale per l’interessa attorno alla musica ed alla cultura del ballo che amiamo; ed è tale come impulso anche a favore dell’imprenditoria (sia locale, che globale di settore) e perciò della creazione di economie e posti di lavoro, che ora più che mai ce n’è bisogno. Ma anche nel loro caso, nel caso di questi giganti abituati a puntare sempre al massimo, proviamo a dire sommessamente: ehi, date però un occhio a modelli più sostenibili, più “orizzontali”. Modelli dove mettersi a network – a maggior ragione in un periodo ancora pieno di incertezze come questo – non è un atto di debolezza, quanto invece una scelta intenzionale e lungimirante. Più eventi diffusi. Più coraggio nelle scelte artistiche. Più eventi “nobili”. Più responsabilità sociale. Meno divertimentificio di massa. Più cura nei particolari.
La cura nei particolari Time In Jazz l’ha dovuta mettere eccome nello stare attento a non svaccare logisticamente, l’anno scorso (cosa che a noialtri del clubbing, ehm, insomma…): accessi contingentati, obbligo di prevendita, transazioni cashless, QR code per quanto riguarda le zone di approvvigionamento food & beverage. Non stiamo dicendo che è semplice. Però se è vero che un concerto jazz è più “facile” da gestire rispetto ad un certo pop-rock e molto più facile rispetto ad un evento dove si balla, è anche vero che proprio gli eventi-dove-si-balla sono quelli dove si è concentrata l’innovazione attorno alla tecnologia produttiva ma anche al modo di proporsi, di promuoversi, questo in primis perché si conta su un pubblico giovane, più propenso a fare acquisti e prenotazioni via smartphone di un sessantenne che vive per Miles Davis e Keith Jarrett.
Ma al di là di questi aspetti “tecnici”, è proprio l’idea che sta dietro ad un evento come Time In jazz (o come Musica Sulle Bocche coi suoi concerti all’alba in riva al mare o in contesti lunari, o Sant’Anna Arresi Jazz con le sue line up sempre ricercatissime) quella che dovrebbe diventare oggetto di discussione e condivisione. Qualcosa c’è già. Ne abbiamo parlato parecchio ad esempio quando andavamo a toccare ciò che faceva Fuck Normality. Ripartire “dal basso”, dall’idea di festival sostenibile e diffuso. Perché anche così è possibile (tornare a) volare alto.
Se poi le istituzioni impareranno tutte a dare una mano, evitando che qualcuna di esse metta assurdamente per ottusità, ignoranza o malafede i bastoni fra le ruote (c’è un ricorso al TAR contro questa porcata qui) e imparando la virtuosità del “fare sistema” e della cultura come investimento ad alta redditività economica e sociale, allora davvero si può sperare in un futuro un po’ migliore. Almeno un po’.