“Lavorare in Calabria non è facile. Organizzare un festival in Calabria non è facile“. Lo si capisce una volta scesi da un treno dalle mille fermate che da Rosarno ti abbandona nella stazione nel paesino di Ricadi: un deserto di poche anime, pronte a raccogliere amici e parenti per poi sparire sopra le colline appena eseguito il compito. L’asfalto rovente e le sterpaglie essiccate della campagna le uniche a farti compagnia, assieme alla calura che quasi fa evaporare il mare.
Basta inerpicarsi per una lunga e tortuosa salita, però, per scoprire l’altra faccia della medaglia. Superato il centro abitato – a una mezzoretta a piedi – ecco Torre Marrana: ai lati dell’antica torre d’avvistamento risalente al quattordicesimo secolo, lo strapiombo; le spiagge di Capo Vaticano a due passi dalla cristallina Tropea; un anfiteatro all’aperto che domina la distesa d’erba polverosa. Visione d’assieme: un gioiello bucolico, rimasto quasi vergine dalla mano dell’uomo. Questo è il posto, questa è la sfida che i ragazzi di Somewhere hanno contratto quest’anno: scatenare il dancefloor dentro a un anfiteatro solitamente riservato a spettacoli teatrali. Così come arriva al terzo anno la sfida di predicare nel lungo e nel largo della Calabria, ogni anno in un posto diverso, la riscoperta di perle di bellezza (culturale e naturale) attraverso il verbo della buona musica elettronica.
Detto dell’approccio suggestivo al luogo, il primo giorno, nei suoi esordi, fa fatica a decollare. Dopo la performance dei locali Kingside Project (dove apprezzabili sono stati soprattutto i virtuosismi del batterista), un lungo cambio palco causato da problemi tecnici avuti al laptop del talentino di casa Beat Machine Daykoda – che è alla fine non è riuscito a esibirsi – ha ingolfato il motore festivaliero. Il tutto è perciò iniziato di fatto con la voce di Davide Shorty, l’ex finalista di X Factor che – tra l’altro – presentava il nuovo album Straniero. Aldilà delle armonie R’n’B ascendenti al pop, il riccioluto ragazzo è piaciuto soprattutto per la capacità di condurre lo show: la verve, l’atteggiamento scanzonato e coinvolgente sono stati la miccia in grado di riscaldare l’iniziale freddezza di un pubblico contratto e ancora esiguo (brutta bestia l’abitudine dei clubbers calabresi e in generale italiani di presentarsi a serata già abbondantemente cominciata). Allestito il terreno d’incontro tra musica e pubblico, i vibes scaturiti dai dischi di Giovanni Damico – che ha aperto le schermaglie più propriamente dance – si sono rivelati sorprendentemente efficaci. Il suo è il set che ci è piaciuto di più durante la prima giornata. Forse per il momento inaspettato o forse perché quando è partita l’intramontabile Make Luv di Room 5, al termine di una selezione serrata e satura di bomboni nu-disco, è come se tutta la tensione accumulatasi per la falsa partenza fosse defluita via sbloccando l’ondeggiare dei corpi in una pista – ehm, palco di attori – finalmente piena.
Apprezzava anche Tornado, nel frattempo. Il classico ragazzo che nello slang di oggi diresti “preso bene”: il capo che va avanti e indietro e un sorriso (allargato dall’alcol) stampato sul faccione barbuto, mentre mi parla di quanto gli piacciano l’Italia e i suoi amari. Tornado fa un set da Tornado: bassoni sparati nei momenti giusti, tanta nostalgia per gli anni ottanta e quell’ammiccamento onnipresente alla sua Oceania, fatto di aborigeni tribalismi e atmosfere “animiste”. Un diffuso divertimento comincia ad aleggiare. Un grazie va alla scelta musicale, gioiosa, che saltella tra disco, funky e house; un altro alla locazione del palco che guarda direttamente le tribune dell’anfiteatro dando le spalle al prato, così da circoscrivere uno spazio per il dancefloor sì ristretto ma che ne guadagna, così, in intimità e densità. Una sensazione di familiarità che finisce per coinvolgere gli stessi artisti. Prima del gong, infatti, c’è il tempo per un gradito fuoriprogramma: un b2b improvvisato tra i Session Victim – soliti “raffinatoni” che, a dire il vero, ci sarebbe piaciuto sentire live – e lo stesso Wallace. Sono quasi le cinque. Un manipolo di festanti ancora balla: “Fino a qui tutto bene”…
Il secondo atto della rassegna si apre con un pugno nello stomaco: Ross From Friends e la sua band hanno perso l’aereo e non saranno della partita. Una pugnalata a sangue a freddo, per l’organizzazione, e per noi che l’avevamo intervistato poco prima ed eravamo curiosissimi di ascoltare il suo live. Debutto in Italia rinviato per l’inglese, dunque. Peccato. I rischi del mestiere… A ripagarci però, c’è un tramonto memorabile a dare il benvenuto al nostro arrivo in location: il disco arancione – che ha assunto proporzioni ragguardevoli – affoga nella tavola d’acqua dritto dritto in bocca al vulcano di Stromboli, i cui contorni, toccati dai raggi solari, si delineano improvvisamente all’orizzonte. Uno spettacolo, che preannuncia la notte di San Lorenzo. Il cielo è limpido, come esige una volta lontana dagli affanni e dalla frenesia metropolitana; la notte è gradevole, temprata da un tiepido vento e dalle delicate tonalità vocali di LNDFK (l’italo tunisina Linda Feki e band) – già passata sotto la lente d’ingrandimento di Gilles Peterson su BBC – cui purtroppo manca una cornice di pubblico degna del suo talento. Scivolano piani i warm up dei resident di Somewhere – meglio Volantis di Nicodemo e Palomar – mentre i pur bravi Stump Valley stavolta, causa una deep house senza grandi sussulti, non riescono a scalfire i cuori di un pubblico che aumenta in maniera proporzionale allo scorrere delle lancette, superando i numeri del primo giorno.
Con la dipartita di Ross From Friends, tutte le luci della ribalta vanno a confluire su Mall Grab, novello enfant prodige dell’house mondiale. Ecco, una volta visto dal vivo capisci come mai questo ragazzo che è appena un ventitreenne imberbe sia tanto amato e come mai abbia spaccato qualsiasi indice di gradimento, on line e discografico. E’ un’autentica forza della natura. Il suo set ti costringe ad accalcarti in prima fila, sotto cassa, per frugarne le movenze e godere di tutta la sua energia. L’approccio è duro, come mai in questa due giorni: c’è l’ “house ignorante”, sporca; ci sono le pause viaggianti – davvero ha passato XTC di Koze e “In Yer Fac”e di 808 remixato da Bicep?!? -; c’è l’electro, rude, che, come una mannaia, si abbatte sul dancefloor sconquassandolo. Sì, siamo rimasti colpiti. Macchina tabagista, il siparietto inscenato al termine del festival è davvero foriero di tante indicazioni: l’organizzazione, redarguita dalle autorità locali per gli eccessivi volumi del giorno precedente, vorrebbe concludere la serata. Un primo ragazzo si avvicina al dj: “Mall ci sarebbe da staccare, dai, per favore”. Niente. Il duello dietro consolle si ripropone a più riprese. Il giovanotto australiano, nonostante abbia già sforato la deadline sulla timetable per la riscossione del cachet, scherza, gioca, riesce ad allontanare gli indesiderati monopolizzando il ring, solo, e continua a passare dischi per un’altra mezz’oretta buona. Anche a volumi decisamente bassini. Si sta divertendo. Semplicemente.
Se c’è una scena, un’immagine, una cartolina da chiudere a chiave nel cassetto dei ricordi per questa edizione di Somewhere, beh, sceglieremmo proprio quest’ultima. L’abbiamo detto: l’assenza di un vero e proprio backstage, ad esempio, ha favorito un contatto umano tra fruitori e artisti, senza che questi potessero essere ammirati – come spesso/sempre avviene – come divinità inavvicinabili. Al contrario, abbiamo visto Shorty, Damico, Linda Feki, Tornado, insomma tutti (o quasi) conversare dopo le performance e confondersi tra i “comuni mortali”. Una naturalezza che si è ripercossa sul palco stesso con i bpm in azione: i vantaggi di un festival “piccolino”, si dice.
Ha aiutato la scelta della location, sicuramente. Così come l’opzione degli organizzatori di puntare tutto sulla proposta musicale, sia in termini di line up (pregevole, coerente e “fresca” nel contesto dell’house music contemporanea) e d’impiantistica (il Funktion One è un system della madonna, e anzi, a tratti è sembrato quasi esagerato per la portata dell’evento). Un “all in” musicale, dunque, che può farci dire che sì, alla fine la buona musica vince sempre, e sì, che Somewhere può candidarsi come un festival che è un inno alla “slow life”. Un festival dal divertimento genuino e alla portata di tutti, che fa ballare di vibrazioni positive mentre si (ri)scoprono tesori occulti della nostra terra. Un festival estraneo alle logiche spesso di facciata dei grandi numeri.
Dall’altra parte, però, l’impressione è che Somewhere debba ancora capire cosa voglia diventare da grande. Il problema non sono le defezioni in line up, quelle possono capitare, ma un’organizzazione che dal punto di vista logistico non è stata sempre impeccabile (attenuante: “Lavorare in Calabria non è facile” – l’avevamo già scritto?). A partire dai servizi di collegamento a un’offerta gastronomica nostrana da implementare, passando per una scenografia che forse chiedeva quel minimo di sfarzo in più, sino alla routine della vita notturna degli autoctoni che richiede d’essere combattuta a forza d’accorgimenti in termini d’apertura, durata e chiusura del festival, per evitare d’incombere in vuoti imbarazzanti. Piccoli elementi di contorno che immessi nel cuore del sistema migliorerebbero non poco l’economia generale. Ma l’esperienza – dopo due edizioni di rodaggio, quella di quest’estate è stato il battesimo vero e proprio di questo festival itinerante – non è qualcosa che si può inventare, e in breve tempo, già a partire dall’anno venturo, siamo sicuri che Somewhere saprà crescere e migliorarsi ancora. Non è un augurio, ma una previsione, perché le carte in regola ci sono tutte. Sempre a patto di non snaturarsi, e di mantenere un’identità e un target che piacciono e divertono.