Spesso la musica che ascoltiamo plasma il nostro modo di pensare: non sono certo idee inventate quella secondo cui la musica è in grado di influenzare l’umore, o quella per cui ogni contesto ed esperienza di ascolto ha generi musicali che si prestano più di altri, ma probabilmente quest’ultima funziona anche all’opposto.
Ci sentiamo di affermare, infatti, che l’ascolto di un genere piuttosto che di un altro, e l’esperienza d’ascolto che un genere predilige piuttosto che un’altra, siano in grado di indirizzare l’umore e i pensieri dell’ascoltatore: è per questo, quindi, che il nostro viaggio nella galassia lo-fi hip hop lo raccontiamo in maniera leggermente diversa dal solito, seguendo il flusso di coscienza che la musica stessa sembra incoraggiare.
Venerdì prima di un ponte, ho da affrontare un viaggio in treno di qualche ora.
La mattina, nel gruppo della redazione di Soundwall, un post che chiede se qualcuno è interessato ad approfondire un po’ il mondo del “lo-fi hip hop”.
So di avere questo viaggio da far passare in qualche modo, per cui mi offro volontario: che modo migliore c’è, d’altronde, di passare del tempo se non esplorando una scena musicale nuova?
Salgo in treno e mi tuffo in quello che a prima vista potrebbe essere soltanto l’ennesimo sottogenere che esiste solo in rete, come il vaporwave o il Soundcloud rap, per cui cerco di capirne le peculiarità. Innanzitutto, è una scena che ha un modo di fruizione ben definito, i canali YouTube che trasmettono playlist pressoché infinite di “beats to relax/study to“, per la maggior parte in modalità live, sostanzialmente delle web radio hostate sulla piattaforma di video streaming più usata del mondo.
Mi sintonizzo su quello che sembra essere uno dei canali principali della scena, ChilledCow, che come molti altri trasmette uno stream video continuo che però di video non ha praticamente niente, se non pochi frame di un anime con una ragazza che scrive su un quaderno con un gatto sul davanzale della finestra che agita la coda: una delle prime tracce ad accogliermi campiona pezzi del pianoforte di “Merry Christmas Mr. Lawrence” e lo appoggia sopra un beat rarefatto e abbondanti dosi di fruscii analogici che si sposano alla perfezione col paesaggio che scorre fuori dal mio finestrino.
Continuo ad ascoltare mentre mi documento sulla scena e scopro che il lo-fi hip hop è un fenomeno recentissimo, che ha iniziato a prendere piede l’anno scorso o al più due anni fa, che annovera J Dilla tra le proprie fonti di ispirazione principale (ma chi non si ispira a Dilla, tra tutti quelli che fanno qualcosa anche lontanamente riconducibile all’hip hop?) e che proprio come gli altri generi contemporanei e con cui condivide il mezzo principale non ha alcuna connotazione geografica: mentre procedo col mio ascolto di ChilledCow cerco i nomi degli artisti che vedo passare e scopro che vengono davvero dai quattro angoli del pianeta, pur condividendo spesso una fascinazione per i nomi vagamente giapponesi e l’estetica anime.
C’è un che di vagamente malinconico e nostalgico nel modo in cui suona il flusso ininterrotto che sto ascoltando, ma non sento traccia della sagacia e dei multipli layer di ironia che si percepiscono invece ascoltando vaporwave: sembra tutto intenzionalmente più spontaneo, meno raffinato, buttato lì senza troppe pretese per avere qualcosa da ascoltare, appunto, mentre ci si rilassa o si studia e senza orpelli di sovrapproduzione, lo-fi appunto.
Il mix delle tracce non è sempre pulitissimo, anzi, e più di una volta ho la sensazione che i beat siano buttati giù assemblando percussioni da uno o più preset senza stare a pensarci troppo, ma d’altronde se non fosse così non si chiamerebbe “lo-fi”, giusto?
Per certi versi, è paradossale che uno dei termini più di moda dell’ultimo anno sia proprio “lo-fi”, non solo in quest’ambito ma anche in quello più da club (prima mai sfiorato), penso ad esempio alla scena lo-fi house che sta spadroneggiando in lungo e in largo: ormai qualunque bedroom producer ha a disposizione strumenti in grado di far suonare le proprie tracce come se fossero prodotte in uno studio professionale, eppure in molti ricercano intenzionalmente un suono sporco, scarno, a volte addirittura “sbagliato”, ottenuto aggiungendo artificialmente fruscii di nastri e puntine a tracce prodotte interamente in digitale.
Ecco, forse l’idea di fondo della scena lo-fi è questa: che in un’epoca accelerazionista come la nostra, in cui il futuro appare sempre più lucidato, sofisticato e performativo, forse il modo migliore per restare connessi al presente è cercare di cogliere l’essenza più semplice delle cose
Non so spiegarmi bene il motivo per cui questo avvenga: retromania? Gusto vintage? Voglia di “suonare male da dio“? C’è forse qualche messaggio profondissimo di protesta verso la società contemporanea che mi sto perdendo, nascosto dietro la scelta di non ripulire le proprie tracce quanto si potrebbe e quanto consiglierebbe il buon senso?
Non riesco a darmi una risposta sensata, e forse non è nemmeno indispensabile: quello che conta, in fondo, è che ChilledCow abbia sortito il proprio effetto, aiutandomi a disconnettere il cervello per un po’ e a buttare giù questo post, che è lo-fi tanto quanto la scena di cui parla nel suo essere scritto di getto, senza alcuna operazione di pulizia, editing, mixdown e mastering a valle.
Ecco, forse l’idea di fondo della scena lo-fi è questa: che in un’epoca accelerazionista come la nostra, in cui il futuro appare sempre più lucidato, sofisticato e performativo, forse il modo migliore per restare connessi al presente è cercare di cogliere l’essenza più semplice delle cose, anche andando contro l’istinto di aggiungere della sovrastruttura e fermandosi al primo preset che sembra funzionare, o a guardare il paesaggio fuori dal finestrino del treno.