E insomma, alla fine abbiamo avuto – salvo cataclismi – la prima Boiler Room italiana: ormai lo saprete in molti, l’appuntamento è a Milano, per l’11 giugno. Ma sempre in molti stanno discutendo la line up finale. Premesso che in linea di massima dovrebbe esserci un’aggiunta ai nomi già pubblicati, e sarà proprio un’aggiunta italiana tra l’altro di qualità se il nome è quello che sta girando, esattamente la mancanza di nomi casa nostra ha fatto storcere il naso a molti. Ovvero: ma come, c’è finalmente una Boiler Room in Italia e non si celebra la cosa con una line up che sia del tutto o almeno molto italiana?
Qua ci vogliono alcune considerazioni. La prima, e chi vi scrive parla per esperienza diretta perché con la gente che sta dietro alla Boiler Room ha avuto un buon numero di contatti, è che sono gli stessi inglesi tenutari del marchio che, di base, vedrebbero o avrebbero visto di buon occhio una prima Boiler Room in casa nostra con una line up molto italiana. Doveva infatti essere così la prima volta che se n’è parlato (proprio col sottoscritto e un noto marchio di bevande dallo stampo bovino), ma lì si è rimasti agli stadi preliminari della faccenda; doveva poi essere così nelle due BR di Venezia e Firenze prima annunciate e poi annullate (…il motivo, anzi, i motivi di questo annullamento non sono mai stati esplicitati dalle parti in causa).
Però ecco, una Boiler Room nata con la collaborazione di uno sponsor, come nel caso dell’11 giugno milanese, implica che tutte le scelte siano condivise, tra BR e finanziatore dell’operazione. A maggior ragione quando lo sponsor mette sul piatto una cifra importante e, insomma, sappiamo che la crew boilerista quando vuole arriva armi e bagagli quasi gratis – quando ci sono di mezzo amici o persone di cui si fidano – ma invece in altri casi è molto attenta a tenere alto il valore anche economico del marchio e dell’evento, ed è una scelta più che lecita.
Tradotto, questo significa che se tu sponsor arrivi, metti sul piatto un contributo importante (un contributo a fondo perduto: nelle Boiler Room di regola l’ingresso deve essere gratuito e non si può speculare sul prezzo dei drink, men che meno imporre contributi-cena obbligatori), è ovvio che puoi per lo meno concordare il tipo di line up proposta. Ci sono sponsor poco invasivi (“Fate voi”), altri che si limitano a dare indicazioni generali, altri – più rari – che vogliono decidere nome per nome.
Se il marchio che ha dato vita alla prima Boiler Room milanese ricada nella seconda o terza categoria non lo sappiamo, però ecco, abbiamo il fondato sospetto non ricada nella prima (sospetto che si basa tra l’altro non solo su nostre supposizioni, ma anche su notizie raccolte sotto-traccia: perché ecco, il giornalismo non è solo ricopiare i comunicati stampa e scrivere recensioni entusiastiche per rendersi amici club o artisti, è anche poter contare su fonti non ufficiali affidabili ed introdotte).
E quindi. Per certi versi, è ragionevole che un marchio internazionale preferisca una line up internazionale e non locale, che dite? E’ un argomentazione è venuta fuori anche durante le discussioni sul web di queste ore. Ci sta. Il marchio in questione non vende occhiali solo in Italia, l’audience della Boiler Room non è certo solo italiana, ragionare in termini campanilistici potrebbe essere oltremodo ottuso ed obsoleto. No?
No. In realtà, a nostro modo di vedere è una occasione persa un po’ per tutti. Un’occasione persa per gli artisti italiani che non appaiono, perché la Boiler Room è una vetrina notevole: in Italia abbiamo gente oggettivamente di talento, che per il solo fatto di essere italiana – e quindi oggettivamente non a fianco delle “leve” di potere promozionali che stanno soprattutto in nazioni più solide a livello di business sulla club culture come America, Inghilterra o Germania – spesso sconta un piccolo gap rispetto a colleghi di pari bravura ma anglofoni o col codice di residenza postale berlinese. Però ecco, attenzione: questa è solo una premessa: perché la Boiler Room non deve essere una specie di welfare state, di assistenzialismo per gli artisti “svantaggiati”; non c’è la minima ragione per cui lo debba essere, e quindi se essere artisti italiani rende tutto un po’ più difficile, su scala europea, non è che possiamo pretendere che arrivi Mamma Boiler Room a portare giustizia. Non si ragiona così.
Si ragiona invece in modo più sottile, e ci permettiamo di dire intelligente, quando si capisce la ricchezza del Glocal. Il suo gusto. E’ bello che le cose siano tipiche. E’ lo stesso ragionamento per cui preferisci un ristorante (finto) tipico o (finto) antico ai ristoranti laccatini ma un po’ anonimi che sono fioriti negli anni ’80 e nei primi anni ’90; o per cui è meglio un bar rimasto fermo agli anni ’50 o ’60 come arredamento sfuggendo agli insulsi restyling wannabe-stilosi dei bar di provincia degli ultimi vent’anni. Il target a cui punta la Boiler Room queste cose le capisce: perché siamo quelli che stanno gentrificando le città, siamo noi. Siamo noi quelli che vanno a Berlino, e cercano non il McDonald’s ma il posto tipico e caratteristico; e se si tratta di clubbing, non cercano il club laccato e coi successi internazionali ma cercano il Berghain, lo Stattbad, il Club Der Visionaere – posti che agli occhi di un quarantenne/cinquantenne arricchito sembrano, ecco, dei luoghi maleodoranti da malviventi.
Alla Boiler Room lo sanno. Perché alla Boiler Room lo sono: è infatti gente come noi, come voi che state leggendo, appassionati di clubbing di qualità che hanno iniziato con una festa in casa e si sono ritrovati, in pochi passi, un marchio di enorme prestigio e popolarità in tutto il mondo. E infatti: la loro prima idea, nel momento di ragione sulla prima Boiler Room italiana, non è mai stata “Facciamo qualcosa con un nome grosso” ma “Facciamo qualcosa con dei nomi italiani, importanti per la storia o la qualità della scena italiana”. Perché appunto, era la prima. La primissima. In un paese per loro importante come l’Italia (sanno bene che qui dalle nostre parti il marchio ha un valore alto, eccome se lo sanno bene).
Oh, non abbiamo troppo da lamentarci: i nomi scelti alla fine sono comunque ottimi, a partire da una leggenda sempre in formissima come DJ Harvey, ma anche il contorno è scelto con grandissimo gusto. Una line up della madonna. E’ giusto un’occasione persa, ma non tanto per noi italiani quanto soprattutto per chi ha messo la faccia (e i soldi) su questo evento: una prima Boiler Room italiana con nomi italiani avrebbe avuto appeal non solo nel nostro paese, ma anche all’estero. Sarebbe stata infatti percepita come una scelta “autentica” e non standardizzata. Non avrebbe avuto nulla da temere dal punto di vista della qualità musicale (di questo ne siamo certi); e avrebbe aumentato la “positività” del profilo di chi ha reso possibile l’operazione.
Il fatto che sarà probabilmente aggiunto come “contentino” un nome italiano (speriamo sia quello di cui si sente parlare: ottima scelta) è per certi versi ancora peggio, una specie di toppa che rende ancora più evidente il buco. Quindi ecco, chi critica le scelte artistiche per la prima Boiler Room italiana probabilmente fa anche bene: soprattutto se è una critica che tiene conto di tutto il quadro che abbiamo voluto tratteggiare, non solo una nazionalista e campanilista campagna all’insegna del “In Italia prima gli italiani!”. Dopodiché, passati i primi cinque minuti di critica, godiamoci la musica. Che sarà di sicuro bellissima. E non stateci troppo male se, pur avendo chiamato l’amico del cugino del conoscente del fratello, non sarete riusciti a fare vostro un ingresso per la sera dell’11 giugno. Godetevi la musica, fregatevene del presenzialismo.