Non senti la libertà di espressione che si respira nell’aria?
Fa un caldo torrido. La sala scoppia di vita e carne ammassata. Un’epica italodisco fluisce impetuosa ed avvolgente dalle Funktion-One appese ai lati della consolle come simboli pagani. Ad adornare l’altare del diporto di cui siamo fortunati testimoni. Un signore sulla cinquantina mi passa a fianco praticamente spoglio di ogni abito con la sola eccezione di un intimo di pelle nera ed una maschera con corna da demone lunghe più di quanto vorrebbe il buon senso. Altri sono ancora meno vestiti. Oppure hanno magliette sintetiche e pantaloncini che sembrano un residuato dei grandi magazzini dell’ex Unione Sovietica. C’è tanto cuoio e cinghie e nylon e pelle e sudore e festa tutto attorno a noi. Ed è vero, sul dancefloor non c’è assolutamente la sensazione di sentirsi giudicati in base a come si è scelto di abbigliarsi per la serata. Ma, volente o nolente, il mood è ben preciso. Un imprinting forzatamente a richiamare le lunghe notti di Friedrichshain in maniera talmente esasperata da risultare quasi stucchevole agli occhi di chi ha solo musica ed atmosfera di festa come centro d’attenzione.
Però sì, la sento eccome la libertà d’espressione.
La percepisco nell’infuocata scarica di adrenalina e testosterone che pervade la stanza; e mi lascio volentieri cadere all’indietro tra le braccia della pista. Abbandono il corpo al vuoto gravitazionale senza timore che il suolo ne senta il peso. La sento quando con gli occhi chiusi lascio fantasticare i sensi e mi immagino in un letto con la donna che amo che canta la sua storia a me più cara. La vedo quando li riapro ed una prateria di arti spazzata del vento del ritmo perpetuo mi porta alla mente quanto di buono ci sia in questo frammento di mondo pregno di empatia e livellamento sociale ed infinite controversie. Qualcosa con cui chi non vi è mai entrato in contatto a fondo non potrà mai scendere a patti.
Anzi no, sai cosa c’è? Non la sento ‘sta cazzo di libertà di espressione.
Non c’è libertà quando un totale sconosciuto decide – nel giro di uno sguardo – se sei adatto o meno ad essere parte di qualcosa. Non la sento quando qualcuno sceglie al posto mio che cosa è necessario essere/vestire/rappresentare per poter fruire di una forma d’arte che dovrebbe essere orizzontale nella maniera più assoluta. Non c’è nessun onore nel sentirsi liberi dentro una prigione di cristallo (e cristalli) in cui vomitarsi addosso la boria di essere diversi ed unici quando si è – de facto – schiavi delle stesse catene omologanti, invisibili all’ego di chi le indossa, da cui si millanta di essere sciolti. Non c’è alcun decoro nello spendere migliaia di Euro per andare nel deserto dall’altra parte del mondo a giocare agli hippie scanzonati per una settimana o due per poi tornare ad un lavoro di scrivania sottopagato da dodici ore al giorno per la multinazionale di turno come se niente fosse.
Siete talmente fake e costruiti a tavolino da mettere i brividi. Non siete parte della rivoluzione, siete il problema contro cui credete di stare combattendo. E ce lo sbattete in faccia ogni volta che, con la vostra bella maglietta vintage e sciarpa da calcio – intasandovi le vie respiratorie col contenuto di una pallina di plastica piena di taglio, foraggiata probabilmente dalla pensione di nonna – ci raccontate quanto è bello sentirsi degli unici fiocchi di neve liberi da ogni convenzione sociale.